Suprema Corte di Cassazione
sezione II
sentenza 3 giugno 2015, n. 11446
Svolgimento del processo
Con atto notificato in data 13.9.2002 l’avvocato F.R. citava a comparire innanzi al tribunale di Roma A.R.D..
Esponeva che per il tramite del dottor R.P. aveva ricevuto incarico dalla convenuta di redigere ricorso al Consiglio di Stato, onde interporre appello avverso la sentenza n. 7901/2001 del t.a.r. della Puglia, sezione II di Lecce, con cui era stato respinto il ricorso in prime cure esperito dalla medesima convenuta, ed, al contempo, di predisporre “un parere preventivo diretto ad illustrare i margini di successo del proponendo appello” (così ricorso, pag. 2); che, “fin dall’inizio, aveva precisato di non essere abilitato al patrocinio presso le magistrature superiori pur chiarendo di essere in contatto con numerosi studi legali specializzati in diritto amministrativo” (così ricorso, pag. 2); che, “in data 31 gennaio 2002, dopo aver ottenuto la disponibilità a sottoscrivere l’atto da parte di uno degli studi legali con cui era in contatto” (così ricorso, pag. 3), aveva inviato all’indirizzo di posta elettronica in precedenza fornitogli il richiesto parere; che il 4 febbraio 2002, nel corso di una conversazione telefonica, la dottoressa A.R.D. di persona gli aveva dato conferma dell’incarico, invitandolo alla redazione dell’atto di appello; che in data 14 e 19 febbraio 2002 aveva provveduto all’inoltro della versione definitiva dell’atto di appello e alla richiesta di corresponsione dell’acconto; che, incomprensibilmente, all’esito di diversi solleciti, la convenuta gli comunicava che “” (così ricorso, pag. 4).
Chiedeva che l’adito giudice accertasse e dichiarasse il diritto di egli attore di ricevere il compenso di cui all’art. 1720 c.c. per l’attività espletata e, per l’effetto, di condannare la convenuta alla corresponsione della somma di euro 4.857,10 ovvero, in subordine, di euro 2.500,00; il tutto con il favore delle spese di lite.
Costituitasi, A.R.D. instava per il rigetto dell’avversa domanda.
Deduceva, tra l’altro, che l’attore “era sprovvisto di jus postulandi di fronte alle magistrature superiori” (così ricorso, pag. 6).
All’esito dell’istruttoria, con sentenza n. 6441/2004 il tribunale di Roma rigettava la domanda.
Interponeva appello l’avvocato F.R..
“A sostegno del gravame (…) contestava la sentenza unicamente nel capo in cui non aveva riconosciuto il diritto a ricevere un compenso per la redazione del parere preventivo” (così ricorso, pag. 12).
Resisteva A.R.D.; proponeva altresì appello incidentale condizionato all’accoglimento dell’appello principale.
Con sentenza n. 3500 dei 8.7/9.9.2008 la corte d’appello di Roma rigettava l’appello principale, reputando in tal guisa assorbita la disamina dell’appello incidentale, e condannava l’appellante principale a rimborsare a controparte le spese del grado.
Esplicitava la corte distrettuale che “come risulta chiaramente dalla narrazione contenuta nell’atto di citazione, l’incarico riguardava, in primo luogo, la redazione dell’atto di appello (…) e che la richiesta di un parere circa i margini di successo del proponendo appello (…) era strettamente connessa e preordinata allo svolgimento dell’unico incarico affidato al Ravidà, che consisteva appunto nella redazione del ricorso, ovvero di un’attività strettamente dipendente dal mandato relativo alla rappresentanza e difesa della parte in giudizio e, come tale, riservata agli iscritti negli albi professionali” (così sentenza d’appello, pag. 3); che “come si rileva ancora dall’atto di citazione, è, del resto, lo stesso Ravidà che mostra di ritenere come tale dedotta attività di consulenza sia in realtà complementare a quella propriamente processuale e sostanzialmente assorbita in quella di studio della pratica e di redazione dell’atto, non formulando alcuna richiesta specifica di compenso per una attività riconducibile in senso stretto ad una prestazione di consulenza autonoma e separata da quella di studio e di redazione dell’atto” (così sentenza d’appello, pag. 3).
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso l’avvocato F.R.; ne ha chiesto sulla scorta di due motivi la cassazione con ogni susseguente statuizione anche in ordine alle spese di lite.
A.R.D. non ha svolto difese.
Il ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente deduce “la violazione e falsa applicazione dell’art. 1709 c.c., 1720 c.c. e 2231 c.c. – la violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e dell’art. 329, 2° comma, c.p.c. – la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697, 2° comma, c.c.” (così ricorso, pagg. 14 – 15).
Adduce che “ritenere (…) che il parere acceda all’attività giudiziale, sempre e comunque, si traduce in un evidente vizio delle disposizioni di cui agli artt. 1709 c.c. – ossia, la presunzione di onerosità – e art. 1720 c.c. relativo all’obbligo di versare il compenso per l’opera prestata” (così ricorso, pagg. 15 – 16); che, del resto, “per superare la presunzione di onerosità del mandato è (…) necessario che emerga un elemento specifico che consenta di addivenire alla conclusione circa la gratuità della prestazione” (così ricorso, pag. 15); che, viceversa, “detti elementi non sussistevano nel caso di specie atteso che l’Avv. Ravidà e la Sig.ra D. (…) neanche si conoscevano” (così ricorso, pag. 15); che, d’altra parte, “l’art. 2231 c.c. è norma di stretta applicazione (…), con la conseguenza che la sua applicazione ad un parere redatto anteriormente all’incardinamento di un giudizio si traduce in una patente violazione anche di tale disposizione” (così ricorso, pag. 16); che, d’altronde, se “si ritiene che i pareri preventivi siano privi di una loro autonomia quando siano prodromici alla predisposizione di un atto giudiziario (…) si deve concludere che se alla redazione di un parere seguisse la determinazione del cliente di non proseguire nell’azione – come è accaduto nel caso di specie – al professionista nulla sarebbe mai dovuto” (così ricorso, pag. 16) ed una simile conclusione sarebbe in netto contrasto con gli artt. 1709 e 1720 c.c.; che, per altro verso, “il fatto della onerosità del mandato non era mai stato contestato, era stato accertato dalla sentenza di primo grado e, dunque, non essendo stato oggetto di alcun motivo di gravame, era da ritenersi coperto dal giudicato ex art. 329, 2° comma, c.p.c.” (così ricorso, pag. 17); che, inoltre, “il diritto al compenso è sorretto dalla presunzione di onerosità” (così ricorso, pag. 18), sicché la prova idonea al superamento di tale presunzione deve “essere fornita dal soggetto convenuto per l’adempimento dell’obbligazione di versamento del compenso ex art. 1720 c.c.” (così ricorso, pag. 18).
Con il secondo motivo il ricorrente deduce “vizio di motivazione ex art. 360 n. 5 c.p.c.” (così ricorso, pag. 5).
Adduce che “alla conclusione per cui il parere redatto dall’Avv. Ravidà sarebbe da considerare accessorio all’attività giudiziale, la Corte di Appello è pervenuta all’esito di una superficiale e lacunosa lettura dell’atto di citazione” (così ricorso, pag. 20); che “l’integrale lettura dell’atto di citazione (…) dimostra l’evidente lacuna della sentenza oggetto del presente gravame” (così ricorso, pag. 23), segnatamente “come il parere non assumesse affatto un valore secondario o irrilevante ma fosse stato richiesto al fine di valutare se proporre appello al Consiglio di Stato” (così ricorso, pag. 23); che quindi dalle “risultanze di causa (…) emergeva con estrema chiarezza come il parere redatto dall’Avv. Ravidà avesse una funzione preventiva, di illustrazione dei margini di successo e, dunque, assumesse una chiara autonomia nell’ambito dell’attività professionale richiesta dalla Dott.ssa D.” (così ricorso, pag. 27).
I motivi di ricorso sono strettamente connessi.
Se ne giustifica pertanto la contestuale disamina.
Ambedue i motivi comunque sono destituiti di fondamento.
Si osserva innanzitutto, precipuamente in ordine alla prima ragione di doglianza, che le censure ancorate alla presunzione di onerosità del mandato non si correlano specificamente alla ratio decidendi.
Invero, siccome si è premesso, la corte romana ha essenzialmente opinato nel senso che “la richiesta di un parere (…) era strettamente connessa e preordinata allo svolgimento dell’unico incarico affidato al Ravidà, che consisteva appunto nella redazione del ricorso, ovvero di un’attività (…) riservata agli iscritti negli albi professionali” (così sentenza d’appello, pag. 3).
Al contempo, questo Giudice del diritto non può che condividere il dictum della corte di merito.
Difatti questa Corte ha già debitamente puntualizzato che, in tema di onorari di avvocato e procuratore, la redazione di un parere scritto sull’opportunità di promuovere il giudizio di impugnazione deve essere ricompresa nella “voce” di studio della controversia e consultazioni con il cliente e non può pertanto essere liquidata separatamente quale prestazione stragiudiziale (cfr. Cass. 17.5.1991, n. 5579).
Ne discende ulteriormente che la remunerazione dell’attività di “redazione del parere preventivo”, attività cui con l’atto di appello l’avvocato Ravidà ha inteso circoscrivere la sua pretesa, postulava in ogni caso l’iscrizione nell’apposito albo degli avvocati abilitati al patrocinio presso le magistrature superiori, sicché nel segno del 1° co. dell’art. 2231 c.c. nulla può competere al ricorrente (cfr. Cass. 12.10.2007, n. 21495, secondo cui l’ esecuzione di una prestazione d’opera professionale di natura intellettuale effettuata da chi non sia iscritto nell’apposito albo previsto dalla legge, dà luogo, ai sensi degli articoli 1418 e 2231 c.c., a nullità assoluta del rapporto tra professionista e cliente, privando il contratto di qualsiasi effetto; pertanto, il professionista non iscritto in detti albi non ha alcuna azione per il pagamento della retribuzione, nemmeno quella sussidiaria di arricchimento senza causa). A.R.D. non ha svolto difese.
Nonostante il rigetto del ricorso, pertanto, nessuna statuizione va assunta in ordine alle spese dei presente grado.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
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