SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II
SENTENZA 25 novembre 2014, n. 49007
Ritenuto in fatto
I.S. , V.A. , Va.An. , Vi.Ro. , A.D. hanno proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza in data 17 luglio 2013, della Corte d’appello di Milano con la quale è stata confermata la sentenza di condanna emessa dal Tribunale di Milano in data 22 ottobre 2012, in ordine ai reati di associazione a delinquere, ascritto a tutti gli imputati, e ai reati di rapina, furto aggravato, falso e truffa, come rispettivamente ascritti, e della relative pene.
A sostegno dell’impugnazione la ricorrente I.S. ha dedotto:
a) Mancanza di motivazione in ordine al motivo di gravame in appello, relativo al mancato accoglimento di istanza di rinvio.
La ricorrente lamenta l’assenza di motivazione relativa alla censura sollevata in appello con riferimento al mancato accoglimento dell’istanza di rinvio di trattazione del processo avanzata dalla stessa I. , a seguito del suo ricovero presso l’Ospedale Ostetrico Ginecologico (OMISSIS) b) Violazione dell’art. 533 cod. proc. pen..
La ricorrente lamenta l’erroneità del calcolo della pena effettuato per la continuazione riconosciuta in primo grado, reiterata dai giudici di appello che hanno pedissequamente accolto la soluzione adottata in primo grado.
c) Difetto e contraddittorietà della motivazione in relazione dell’individuazione della violazione più grave dell’art. 81, comma 2 cod. pen..
La ricorrente lamenta che per l’individuazione del reato più grave in sede di continuazione sia stato fatto riferimento alla gravità in astratto anziché alla gravità in concreto. Peraltro la circostanza viene proposta solo come uno scorretto modus deliberandi dei giudici di merito, senza attribuire alla censura uno specifico valore di motivo di impugnazione.
d) Vizio di motivazione con conseguente erronea applicazione dell’art. 416 cod. pen..
La ricorrente censura le valutazioni dei giudici di merito che hanno ritenuto sussistente il reato associativo sulla base di indici insufficienti, quali i legami parentali e i rapporti di solidarietà derivati, la possibilità di interscambio nei ruoli tra i vari componenti dell’associazione, in occasione della commissione dei reati, la disponibilità per tutti gli associati degli strumenti necessari a commettere i reati fine (falsi tesserini della Polizia e dei Carabinieri, divise della Forze dell’Ordine, ricetrasmittenti, la circolarità delle informazioni sulle potenziali vittime); tutti questi elementi al più sarebbero sufficienti a ritenere sussistente il concorso di persone nei reati.
e) L’identificazione fotografica.
La ricorrente censura il metodo utilizzato dalle Forze di Polizia per effettuare il riconoscimento fotografico da parte delle vittime dei reati, relativamente ai presunti autori del fatto criminoso; comunque gli esiti della ricognizione rappresenterebbero meri indizi;
f) Difetto di motivazione in ordine al concorso nella ritenuta rapina a danno di P.B. , con conseguente erronea applicazione del’art. 110 cod. pen..
La ricorrente contesta la corretta qualificazione giuridica del fatto, indicato come rapina anziché furto, quando in realtà la stessa ricorrente non pose in essere alcuna azione violenta, né vi fu un preventivo accordo sull’uso della forza in caso di necessità. Contesta inoltre la sufficienza del riconocimento da parte della persona offesa, che si sarebbe espressa sempre al condizionale, né alcun valore sintomatico, sotto il profilo probatorio, potrebbe essere attribuito al risarcimento offerto da un congiunto della I. , alla vittima e a cui non potrebbe essere attribuito alcun valore confessorio.
g) Errata applicazione dell’art. 628 cod. pen.. vizio di motivazione sulla omessa adozione dell’incidente probatorio e conseguente erronea applicazione dell’art. 512 cod. proc. pen..
La ricorrente censura il mancato ricorso all’incidente probatorio vista la età della vittima, che al momento della celebrazione del processo circa tre anni dopo era deceduta. In ogni caso non sarebbero tali i riscontri utilizzati dalla Corte d’appello, quali i gioielli della vittima trovati in possessi della ricorrente, e le videoriprese di un’autovettura simile a quella in possesso della I. stessa.
h) Motivazione basata su una situazione di compatibilità non spiegata, quindi apparente (capi 8-9).
La ricorrente censura la valorizzazione degli elementi utilizzati dai giudici di merito per attribuirle la responsabilità dei reati commessi in danno della sig.ra M. , consistenti nella presenza dell’autovettura Musa blu e del risarcimento inviato alla persona offesa, con le compatibilità fisiche genericamente rilevate dai giudici di merito.
i) Erronea applicazione del’art. 640 cod. pen..
La ricorrente contesta la sussistenza degli elementi del reato di truffa commesso in danno della p.o. T. , in particolare sottolinea l’assenza di una attività che abbia indotto in errore la p.o. La fattispecie doveva correttamente essere inquadrata nell’art. 646 cod. pen..
V.A. ha dedotto per i motivi di cui alle lettere a), b) c), d), e) le stesse censure sollevate dalla I.S. alle lettere b) c), d) e) g) (salvo ciò che verrà precisato per quest’ultimo punto). Inoltre, con riferimento agli altri punti ha dedotto:
f) Violazione degli artt. 640 e 628 cod. pen. con riguardo ai capi 26 e 27.
Secondo il ricorrente l’azione criminosa sarebbe unica e concretizzerebbe esclusivamente il reato di truffa, con conseguenza che la duplice condanna sarebbe stata emessa in violazione del principio del ne bis in idem sostanziale.
g) Violazione dell’art. 533 cod. proc. pen. e mancanza di motivazione in ordine ai capi 41 e 42.
Il ricorrente sottolinea come le dichiarazioni della persona offesa non sarebbero sufficienti per affermare la penale responsabilità in ordine ai reati ascritti.
Va.An. a sostegno del ricorso ha dedotto per i punti a), b), c), d), e) le stesse censure sollevate dalla I. .
In relazione agli altri punti del ricorso ha dedotto:
f e g) Difetto di motivazione in ordine alla ritenuta partecipazione del prevenuto alla rapina di cui al capo 37 e di cui ai capi 2 e 3; Violazione dell’art. 512 cod. proc. pen. e violazione dell’art. 533 stesso codice con riguardo ai medesimi capi.
La ricorrente evidenzia l’inutilizzabilità delle dichiarazioni, come prova a carico, delle dichiarazioni rese durante la fase delle indagini dalle persone offese, R. ed O. , illegittimamente acquisite al fascicolo del dibattimento ex art. 512 cod. proc. pen., in considerazione delle cattive condizioni fisiche della sig.ra R. e del decesso sopravvenuto del sig. O. (capo 37). Tale prevedibile situazione poteva essere ovviata con l’espletamento dell’incidente probatorio. Erroneo poi sarebbe il riferimento ad analoghi episodi di cui si sarebbe resa responsabile la ricorrente; inoltre sarebbe stata ingiustificatamente trascurata la prova d’alibi tesa a dimostrare l’accertata presenza della ricorrente, poco tempo prima e poco tempo dopo del fatto criminoso, in una zona distante 200 km dal luogo di commissione del fatto stesso.
Analogamente per quanto riguarda i fatti commessi il 1 luglio 2010 (capi 2 e 3) la ricorrente contesta l’affermazione della sua responsabilità in base alla ritenuta sua presenza sul luogo della commissione del reato nonostante il 4 giugno fosse stata sottoposta ad un delicato intervento chirurgico e la dimostrata difficoltà a deambulare ancora alla data del 25 giugno 2010; contesta altresì che l’azione posta in essere dagli autori del reato, minaccia di portare la parte offesa al Commissariato, potesse costituire elemento idoneo a ritenere sussistenti i reati de quibus. Contesta poi l’attendibilità del riconoscimento della persona offesa e l’illegittimità dell’acquisizione delle dichiarazioni rese in sede di indagini. Neutri rispetto all’affermazione della sua responsabilità sarebbero il rinvenimento dei gioielli presso di lei e le immagini dell’autovettura, dello stesso modello di quella in possesso dell’imputata, riprese in occasione della commissione del reato contestato.
h) Capi 12 e 13; vizio di motivazione sui riconoscimenti; erronea applicazione dell’art. 56 cod. pen.; erronea applicazione dell’art. 494;
La ricorrente contesta l’attendibilità dei riconoscimenti operati dalle parti offese Ruzza e Calori e deduce l’erroneità della qualificazione giuridica del fatto contestato come tentativo di furto anziché come tentativo di truffa.
Al contrario doveva essere qualificato come tentativo e non reato consumato la condotta sussunta sub art. 494 cod. pen., essendo rimasta assente l’induzione in errore.
i) Capi 35 e 36 – illogicità della motivazione per contrasto con le ritanze dibattimentali.
La ricorrente contesta l’attendibilità della teste B. e la valutazione di positivo riscontro al contenuto delle dichiarazioni medesime, con riferimento all’individuazione dell’autrice del reato.
l) Con riguardo ai capi 43 e 44 – Illogicità della motivazione, mancanza di motivazione, violazione dell’art. 533 cod. proc. pen..
La ricorrente Va.An. contesta l’attendibilità delle dichiarazioni dei coniugi C. e N. con riferimento all’autrice dei reati in loro danno; in realtà la dichiarazione ricondotta ad entrambi i coniugi sarebbe stata effettuata esclusivamente dalla sig.ra N. , peraltro confermata con difficoltà in dibattimento.
m) Con riferimento al capo b) della contestazione suppletiva – violazione dell’art. 56, comma 3 cod. pen. – Illogicità della motivazione per travisamento delle risultanze probatorie.
La ricorrente censura anche in questo caso il mancato espletamento dell’incidente probatorio, che ha comportato l’acquisizione al dibattimento delle dichiarazioni rese in sede di indagini dalla parte offesa. Peraltro il riconoscimento avvenuto in tale sede aveva una percentuale di riferibilità all’imputata pari all’80%. Né i fotogrammi che hanno ripreso una donna dalle fattezze compatibili con l’imputata potrebbero fornire elementi utili ad una affermazione di responsabilità oltre ogni ragionevole dubbio. In ogni caso nella fattispecie in esame si sarebbe dovuto applicare l’istituto della desistenza volontaria, avendo appreso dalla persona offesa la circostanza che la figlia ricopriva l’ufficio di magistrato.
A.D. ha dedotto ai capi:
a) Violazione dell’art. 533 cod. proc. pen. per gli stessi motivi dedotti dalla I.S. al capo b) del suo ricorso;
b) Vizio di motivazione con conseguente erronea applicazione dell’art. 416 cod. proc. pen., per gli stessi motivi dedotti dalla I. al capo d) del suo ricorso, con l’aggiunta che all’A. sono stati contestati esclusivamente due episodi;
c) gli stessi motivi dedotti dalla I. al capo e);
d) gli stessi motivi dedotti dalla Va.An. al capo h) con l’aggiunta che all’epoca dei fatti l’A. si sarebbe trovato in Romania. Sottolinea inoltre come la documentazione prodotta sarebbe sicuramente sufficiente alla dimostrazione di quanto asserito. Non vi sarebbero inoltre gli elementi per qualificare come tentativo l’attività posta in essere nei due episodi.
Vi.Ro. ha dedotto:
a) Violazione di legge (art. 606, c. 1 lett. b) cod. proc. pen.. in relazione all’art. 416 cod. pen. e 125 comma 3 cod. proc. pen. e 546, comma 1 lett. e) cod. proc. pen. : nullità della sentenza per erronea applicazione della legge penale e carenza e contraddittorietà della motivazione.
La ricorrente censura le valutazioni dei giudici di merito che hanno ritenuto sussistente il reato associativo sulla base di indici insufficienti, quali i legami parentali e i rapporti di solidarietà derivati,nonostante la ridotta partecipazione nel tempo. Sottolinea come a suo carico non esiste alcuna possibilità di individuare il ritenuto interscambio nei ruoli, tra i vari componenti dell’associazione, in occasione della commissione dei reati; gli elementi raccolti al più sarebbero sufficienti a ritenere la sussistenza del concorso di persone nei reati.
b) Violazione di legge (art. 606, c. 1 lett. b) cod. proc. pen.. in relazione all’art. 416 cod. pen. e 125 comma 3 cod. proc. pen. e 546, comma 1 lett. e) cod. proc. pen.: nullità della sentenza per erronea applicazione della legge penale e carenza e contraddittorietà della motivazione in ordine alla responsabilità penale dell’imputata ed alla configurabilità della desistenza volontaria.
La ricorrente contesta l’attendibilità dei riconoscimenti avvenuti a suo carico dopo molti tentennamenti (S. ) per i capi 54 e 55, mentre per i capi 55 e 56, stante l’irripetibilità delle dichiarazioni della p.o. Br.El. , la sua responsabilità è stata riconosciuta attraverso l’acquisizione del riconoscimento avvenuto in sede di indagini; inoltre l’invio di una somma di denaro a titolo di risarcimento parziale non evidenzierebbe alcun elemento di natura confessoria; alle contestazioni suppletive di cui all’udienza del 13 giugno 2012, concernenti due tentate truffe, nei confronti delle medesime dovrebbe applicarsi l’istituto della desistenza.
c) Violazione di legge (art. 606, ci lett. b) cod. proc. pen.. in relazione all’art. 416 cod. pen. e 125 comma 3 cod. proc. pen. e 546, comma 1 lett. e) cod. proc. pen. : nullità della sentenza per erronea applicazione della legge penale e carenza e contraddittorietà della motivazione in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche.
La ricorrente contesta la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche in base al fatto che il risarcimento del danno in favore delle vittime sia stato solo simbolico. Se lo stesso fosse stato integrale d’altra parte l’attenuante invocata sarebbe stata quella di cui all’art. 62 n. 6 cod. pen..
Considerato in diritto
1. I ricorsi sono infondati.
2. Con riferimento alla censura dedotta con il motivo di cui al capo a) da I.S. osserva la Corte che, nel caso in esame, appare essere stato correttamente applicato il principio giurisprudenziale in base al quale, in tema di motivazione, in sede di impugnazione il giudice non è obbligato a motivare in ordine al mancato accoglimento di istanze, nel caso in cui esse appaiano improponibili sia per genericità, sia per manifesta infondatezza. Nella fattispecie in questione la ricorrente si duole del fatto che sia stata omessa una motivazione in ordine al mancato rinvio di una udienza celebrata in primo grado per genericità della documentazione prodotta, la cui qualità riconosce la stessa ricorrente. Di fronte ad una istanza manifestamente infondata ictu oculi deve ribadirsi che ha trovato corretta applicazione il principio enunciato (Sez. 5, n. 18732 del 31/01/2012 – dep. 16/05/2012, Riccitelli, Rv. 252522; Sez. 5, n. 4415 del 05/03/1999 – dep. 08/04/1999, Tedesco E, Rv. 213114).
2. Con riferimento alla censura sollevata dalla I. in relazione al motivo sub b) ritiene la Corte che, nel caso di specie, è stata fatta corretta applicazione del principio giurisprudenziale secondo il quale in tema di determinazione della pena nel reato continuato, deve ritenersi congruamente motivata la sentenza che faccia riferimento alle modalità dei fatti ed ai precedenti penali specifici degli imputati; non sussiste, invece, l’obbligo di specifica motivazione per gli aumenti di pena a titolo di continuazione, valendo a questi fini le ragioni a sostegno della quantificazione della pena-base (Sez. 5, n. 27382 del 28/04/2011 – dep. 13/07/2011, Franceschin e altro, Rv. 250465). Pertanto non incorre in difetto di motivazione anche la sentenza di condanna per reato continuato che dia adeguata giustificazione della sussistenza di una circostanza aggravante in riferimento al reato più grave e non anche in riferimento ai reati satellite, per i quali è parimenti affermata la stessa circostanza, dato che la pena è complessivamente determinata con un aumento, sino al triplo, della pena riferita al reato più grave. (Sez. 2, n. 23624 del 10/05/2011 – dep. 13/06/2011, P.G. in proc. Popolo, Rv. 250266).
3. Con riferimento alla censura sollevata dalla I. sub c), poiché ai fini della determinazione della pena per il reato continuato deve aversi riguardo alla violazione più grave considerata in astratto e non in concreto, nel caso di concorso fra delitto e contravvenzione la “violazione più grave” si individua nel delitto, in relazione al quale il giudizio di maggior gravità discende direttamente dalle scelte del legislatore. Peraltro la disposizione di cui all’art. 187 delle norme di attuazione del codice di rito, secondo cui, ai fini dell’applicazione della disciplina del reato continuato da parte del giudice dell’esecuzione, “si considera violazione più grave quella per la quale è stata inflitta la pena più grave”, deve ritenersi limitata alla sola fase esecutiva, alla cui regolamentazione è espressamente volta, ed è insuscettibile di applicazione generalizzata (Sez. U, n. 15 del 26/11/1997 – dep. 03/02/1998, PM in proc. Varnelli, Rv. 209485; Sez. 5, n. 13573 del 20/01/2012 – dep. 11/04/2012, P.G. in proc. Santoni, Rv. 253299).
4. Con riferimento alla lettera d) del ricorso, motivo con cui la I. contesta la sussistenza di elementi idonei a rendere configurabile il reato di associazione a delinquere osserva la Corte che la motivazione adottata dai giudici di merito appare esente da censure logico – giuridiche. I giudici di merito hanno evidenziato gli stretti legami parentali tra gli associati, il perdurare dell’affectio societatis nel tempo, l’omogeneità del gruppo, capace di dividersi in sottogruppi operanti secondo gli obiettivi (i reati fine da compiere) a prescindere dall’identità delle persone partecipanti, in ragione del previsto e assimilato interscambio dei ruoli. La qualità dell’associazione è emersa distintamente anche dalla programmazione di reati dello stesso tipo, furti, truffe, qualche volta rapina, compiute con modalità in larga parte sovrapponibili e in danno di persone anziane, con piani organizzati in modo articolato, attraverso l’attribuzione di uno specifico ruolo ad ogni compartecipe. L’elevata specializzazione acquisita dal gruppo, che a tal fine ha potuto sfruttare anche la capacità d’intesa dovuta alla sussistenza del vincolo familiare, ha consentito la consumazione di più reati nello stesso giorno, a dimostrazione di una serialità di programmazione collegata all’esistenza di una struttura associativa. Dimostrati sono stati poi i supporti organizzativi, (falsi tesserini, divise, autovetture, radio ricetrasmeittenti, capacità di acquisizioni di informazioni sulle vittime), che necessariamente postulavano l’esistenza di più soggetti e la predisposizione di specifiche risorse (v. pagg. 37 e 38 sentenza d’appello). Correttamente dunque nel caso in esame può trovare applicazione il principio giurisprudenziale, già fissato per l’associazione a delinquere al fine di spaccio di sostanze stupefacenti, secondo il quale in tema di associazione a delinquere, verificata la sussistenza dei requisiti richiesti per la configurabilità del reato associativo desumibili dalla continuità e sistematicità dell’attività criminosa (furti, truffe, rapine nei confronti di soggetti anziani nel caso di specie) e dalla predisposizione di una struttura operativa stabile, la costituzione del sodalizio criminoso non è esclusa per il fatto che lo stesso sia imperniato per lo più intorno a componenti della stessa famiglia perché, al contrario, i rapporti parentali o coniugali, sommandosi al vincolo associativo, lo rendono ancora più pericoloso,. (Sez. 1, n. 35992 del 14/06/2011 – dep. 04/10/2011, De Witt e altri, Rv. 250773; Sez. 6, n. 2772 del 09/01/1995 – dep. 16/03/1995, Lacedra ed altri, Rv. 201353).
Per quanto riguarda le censure delle modalità concernenti l’identificazione fotografica e la responsabilità per i reati contestati ai capi 17-18, 2-3, 8-9, 14,15,16 contestati a I.S. , al capo 37, ai capi 26-27 e 41 – 42 contestati ad V.A. e Vi.Ro. , al capo 37, ai capi 2 – 3, ai capi 12 -13, ai capi 35 -36 e ai capi 43 – 44 e al capo B) per le contestazioni suppletive contestati ad Va.An. , e ai capi 12 – 13 contestati a A.D. , e oggetto di impugnazione nei ricorsi presentati secondo le specifiche responsabilità, osserva la Corte che in apparenza si deducono vizi della motivazione ma, in realtà, si prospetta una valutazione delle prove diversa e più favorevole ai ricorrenti, ciò che non è consentito nel giudizio di legittimità; si prospettano, cioè, questioni di mero fatto che implicano una valutazione di merito preclusa in sede di legittimità, a fronte di una motivazione esaustiva, immune da vizi di logica, coerente con i principi di diritto enunciati da questa Corte, come quella del provvedimento impugnato che, pertanto, supera il vaglio di legittimità (Cass. sez. 4, 2.12.2003, Elia ed altri, 229369; SU n. 12/2000, Jakani, rv 216260); in particolare con il vaglio operato nei confronti delle affermazioni della sentenza di primo grado, analiticamente e criticamente rivisitate in appello, la motivazione presenta nei confronti di tutti i ricorrenti un risultato appagante sotto il profilo dell’attendibilità del risultato probatorio, (v. la sentenza d’appello pagg. 18 per la I. , pag. 20 per la I. e per V.A. , pag., 25, 26, 27, 28, 29, per Va.An. (oltre a pag. 11, 15, 24, 28, 31) e V.A. (per quest’ultimo anche pag. 30, 34, 35), pag. 30, 34, 35, 36 per Vinotti Rosa e pagg. 15, 16 per A.D. ).
In tutti questi casi è stata spesso contestata l’acquisizione ai sensi dell’art. 512 cod. proc. pen. delle dichiarazioni rese in sede di indagini preliminari dalle persone offese. Osserva la Corte che le censure appaiono infondate sia perché delle dichiarazioni predibattimentali è stata data lettura in giudizio per sopravvenuta impossibilità di ripetizione, a causa della morte sopravvenuta della persona offesa ovvero della situazione ingravescente in cui la stessa si trovava, e poi sono state valutate non solo sulla base della credibilità, sia soggettiva che oggettiva, del/della dichiarante, ma anche in relazione agli altri elementi emergenti dalle risultanze processuali (Sez. 2, n. 13387 del 14/03/2012 – dep. 10/04/2012, Cociu e altro, Rv. 252708), a cominciare dalle deposizioni testimoniali degli operanti, dei familiari, dal recupero di refurtiva, da comportamenti sostanzialmente confessori, come l’offerta di risarcimento del danno da parte di I.S. , di Vinotti Rosa. Ai fini dell’operatività del disposto di cui all’art. 512 cod. proc. pen., in base al quale è consentita la lettura di dichiarazioni predibattimentali quando l’esame dibattimentale del dichiarante risulti impossibile per fatti o circostanze non prevedibili dalla parte processuale interessata, l’impreve-dibilità va valutata con riferimento alle conoscenze di cui la stessa parte poteva disporre fino alla scadenza del termine entro il quale avrebbe potuto chiedere l’incidente probatorio. (Sez. 3, n. 25110 del 13/02/2007 – dep. 02/07/2007, La Tela, Rv. 236962). D’altra parte la giurisprudenza è costante nel ritenere che l’imprevedibilità dei fatti e delle circostanze, che rendono impossibile la ripetizione degli atti assunti dal P.M. (o contenuti nel fascicolo del P.M., secondo la formula modificata dalla legge 7 agosto 1992, n. 356), deve essere riguardata non con riferimento al momento dibattimentale, ma a quello delle indagini preliminari, nel quale sarebbe stato alternativamente possibile – ove fosse sorta, per fondato motivo, la contraria prevedibilità dell’assenza del testimone nel dibattimento – accedere all’incidente probatorio. È a tale momento, comunque, che il giudice dibattimentale deve ricondursi, con criterio “ex ante”, per formulare diagnosi di prevedibilità o di imprevedibilità, che non debbono basarsi, naturalmente, su possibilità o evenienze astratte ed ipotetiche, ma su argomenti concreti che lascino pronosticare secondo l’”id quod plerumque accidit”, e cioè secondo l’esperienza corrente, un futuro comportamento del soggetto-testimone, senza che possa attribuirsi rilevanza all’accertamento “ex post”, positivo o negativo, della condotta stessa. (Sez. 1, n. 12060 del 11/11/1992 – dep. 19/12/1992, Betancor ed altri, Rv. 193437). In ogni caso, secondo la Corte, nel caso di specie, la sopravvenuta impossibilità, per fatti o circostanze imprevedibili, della ripetizione di atti assunti dalla polizia giudiziaria, nel corso delle indagini preliminari, è stata liberamente apprezzata dal giudice di merito, con una valutazione, adeguatamente e logicamente motivata, non sindacabile in sede di giudizio di legittimità; le condizioni delle persone offese, all’epoca dei fatti e durante la fase delle indagini preliminari, erano buone e non lasciavano individuare margini concreti o situazioni necessitate per l’espletamento dell’incidente probatorio (v. Sez. 3, n. 42926 del 23/10/2002 – dep. 19/12/2002, Manazza ed altri, Rv. 223090). Appare opportuno aggiungere che, con riferimento alle censure, sostanzialmente tra loro analoghe in ordine al metodo utilizzato dalla polizia giudiziaria in sede di esecuzione di riconoscimento fotografico, ritiene la Corte che le stesse siano state effettuate e valutate secondo il rispetto di consolidati canoni giurisprudenziali. È assolutamente condiviso dal Collegio l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale il riconoscimento fotografico operato in sede di indagini di P.G. e non regolato dal codice di rito, costituisce un accertamento di fatto e, come tale, è utilizzabile nel giudizio in base al principio della non tassatività dei mezzi di prova ed a quello del libero convincimento del giudice. (Sez. 2, n. 8315 del 13/01/2009 – dep. 24/02/2009, Lovacovic, Rv. 243301). Pertanto il giudice di merito può trarre il proprio convincimento anche da ricognizioni non formali, potendo attribuire concreto valore indiziante all’identificazione dell’autore del reato mediante riconoscimento fotografico(Sez. 4, n. 45496 del 14/10/2008 – dep. 09/12/2008, Capraro e altri, Rv. 242029), la cui affidabilità non deriva dal riconoscimento in sé, ma dalla credibilità della deposizione di chi, avendo esaminato la fotografia si dica certo della sua identificazione, completamente o in misura largamente e percentualmente apprezzabile; tale deposizione costituisce, poi, una manifestazione riproduttiva di una percezione visiva che rappresenta una specie del più generale concetto di dichiarazione, soggetta, alla stregua della deposizione testimoniale, alle regole processuali che consentono l’utilizzabilità in dibattimento di dichiarazioni rese da un teste nella fase delle indagini preliminari, essendo possibile contestare al teste, in sede dibattimentale,ove necessario, le certezze sul punto manifestate nel corso delle indagini preliminari e supportare l’attendibilità delle stesse con altri elementi probatori acquisiti nel corso del processo, come è avvenuto nel caso in esame. (Sez. 2, n. 50954 del 03/12/2013 – dep. 17/12/2013, Corcione, Rv. 257985). Le valutazioni operate dai giudici di merito, in tutti i casi in cui hanno affrontato il tema in questione hanno, con motivazione esente da censure logico giuridiche, espresso delle conclusioni finali aderenti al percorso giurisprudenziale sopra evidenziato (si veda la sent. d’appello pagg. 11, 13, 14, 15,16, 18, 20, 22, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 32, 33, 34, 35, 36, 37).
In relazione ai motivi propri di V.A. concernente l’ipotizzabilità del solo reato di truffa in relazione ai capi 26 e 27 (art. 640 cod. pen. e 628 cod. pen.), di Va.An. , in relazione alla prova d’alibi per la rapina di cui al capo 37, alla configurazione del reato di cui all’art. 494 e dell’art. 56 cod. pen. per i capi 12 e 13, alla omessa concessione delle circostanze attenuanti generiche con un giudizio di prevalenza sulle contestate aggravanti, i motivi sono infondati avendo i giudici di merito, oltre che con le considerazioni sopraevidenziate, svolto le loro valutazioni attraverso un’analisi specifica dei singoli elementi in contestazione e con un opportuno vaglio critico, che emerge dall’analisi complessiva della motivazione, che appare esente, come già detto, da censure logico giuridiche. Anche la specificità del motivo dell’A. di cui alle lettera d) concernente il suo soggiorno in Romania, nel periodo in cui vennero consumati i reati di cui ai capi 12 e 13, è stato coerentemente valutato dai giudici di merito che hanno ritenuto assolutamente inidonea la documentazione prodotta a sostegno dell’alibi, anche con riferimento agli ulteriori elementi probatori acquisiti a suo carico (si vedano le individuazioni effettuate da Ruzza e Calori, con certezza sia nella fase delle indagini, che, sostanzialmente al dibattimento oltre che nei confronti dell’A. anche della sua complice Va.An. ). Analoghe considerazioni vanno effettuate per la lamentata mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche in favore della Vi.Ro. , dove non appare censurabile in questa sede la scelta effettuata dai giudici di merito, avendo gli stessi fatto motivatamente riferimento alla eccessiva esiguità del risarcimento del danno, sostanzialmente simbolico, eseguito dall’imputata.
5. Alla luce delle suesposte considerazioni tutti i ricorsi devono essere rigettati e i ricorrenti devono essere condannati al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Leave a Reply