SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II
SENTENZA 25 marzo 2015, n.12638
Ritenuto in fatto
Con decreto del 25/09/2014, la Corte di Appello di Bologna confermava il decreto con il quale, in data 18/06/2013, il Tribunale di Modena aveva applicato a N.M. la misura di prevenzione della confisca dei beni ex d. lgs. n. 159 del 2011 in quanto soggetto pericoloso essendo dedito, nell’attività di ‘mago e guaritore’ che pubblicamente svolgeva, molteplici reati (reiterate truffe; circonvenzione di incapaci; abuso della professione medica; evasione totale dei redditi) a seguito delle quali induceva gli assistiti ad interrompere le cure mediche, falsificava prescrizioni mediche, evadeva sistematicamente il fisco.
Avverso il suddetto decreto, il proposto, a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione deducendo i seguenti motivi:
2.1. motivazione apparente o omessa in ordine alla sussistenza del delitto di truffa: il ricorrente sostiene che, in realtà, la sua attività, a tutto concedere, avrebbe dovuto essere qualificata come violativa di norme contravvenzionali e/o amministrative (art. 121/u.c. TULPS che espressamente vieta il mestiere di ciarlatano e art. 231 del relativo regolamento). Infatti, la prova si fondava solo su alcune querele presentate da un numero limitatissimo di persone (su una clientela di quasi settemila persone) le cui doglianze (recepite al di fuori di ogni qualsiasi contraddittorio) risultavano smentite dalle dichiarazioni di altre persone che, invece, si erano dichiarate completamente soddisfatte. In altri termini, il ricorrente lamenta una motivazione omessa o apparente in ordine alla circostanza che egli fosse stato ritenuto dedito ai reati di truffa laddove il sottile confine tra truffa e reati contravvenzionali non consentiva la perentoria conclusione alla quale erano pervenuti entrambi i giudici di merito. Privo di ogni riscontro era rimasto poi il paventato delitto di esercizio abusivo della professione medica. Erroneamente la Corte aveva ritenuto che l’attività esercitata dal ricorrente di sensitivo-paragnosta fosse sempre e comunque connotata da illiceità delittuosa;
2.2. violazione dell’art. 2 bis/6 bis L. 575/1965: il ricorrente sostiene che la norma contenuta nella suddetta disposizione di legge (introdotta con la L. 125/2008) e che aveva esteso la confisca di prevenzione alle categorie di ‘pericolosità generica’ e non solo a quella mafiosa, non aveva effetti retroattivi e, quindi non avrebbe potuto essere a lui applicata in quanto egli svolgeva quella attività fin dal 1996;
2.3. violazione dell’art. 24/1 dlgs 159/2011: il ricorrente contesta che i redditi provenienti dall’evasione fiscale possano essere considerati di illegittima provenienza e, quindi, soggetti a confisca;
2.4. Infine, il ricorrente solleva questione di illegittimità costituzionale della suddetta norma in quanto contrastante con gli artt. 23-24-25 Cost. e art. 1 CEDU.
Considerato in diritto
Il ricorso deve essere rigettato, per essere infondate tutte le questioni proposte.
3.1. Con il primo motivo il ricorrente sostiene che la misura di prevenzione reale, in mancanza di una effettiva provata correlazione tra risorsa confiscata e la pregressa attività delittuosa, non potrebbe essere applicata, trattandosi di misura avente natura sanzionatoria e, quindi, non applicabile retroattivamente.
La doglianza è infondata.
Al ricorrente i beni sono stati confiscati, a seguito della proposta depositata in data 26/02/2013 dal Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Modena, ai sensi del d. lgs n. 159 del 2011.
La suddetta misura, avente come dichiarato fine quello di sottrarre dal circuito economico beni appartenenti a soggetti ritenuti pericolosi socialmente, è stata tradizionalmente qualificata come una misura di prevenzione che, in quanto tale, si distingue dalle altre tipologie di confische previste nell’ordinamento (ad es. art. 240 cod. pen.; confisca per equivalente) che, hanno, invece, un carattere sanzionatorio.
Infatti, la caratteristica fondamentale della confisca di prevenzione è che è comminata anche ed indipendentemente dalla commissione di un singolo reato da parte del proposto: quello che, infatti, la legge intende colpire è, come si è detto, l’accumulo di ricchezze illegali che inquinano il circuito economico tant’è che tale sanzione, con il decreto legislativo citato, è stata allargata a qualsiasi tipo di pericolosità (cosiddetta generica, in contrapposizione a quella specifica prima prevista dalla previgente legislazione che la limitava solo a soggetti dediti a determinati reati).
Proprio questa caratteristica, ha fatto ritenere, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, che la suddetta confisca, avente natura di prevenzione, sfugga al divieto del principio di retroattività di cui all’art. 2 del cod. pen., dovendosi, al contrario, applicare quello previsto dall’art. 200 cod. pen. in base alla quale “le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione” e, quindi, nella specie, dal d. lgs. n. 159 del 2011 (sez. 2 n. 3655 del 03/10/1996, Rv. 207140; sez. 2, n. 33597 del 14/05/2009, Rv. 245251; sez. U. n. 13426 del 25/3/2010, Rv. 246272).
Dalla ritenuta natura giuridica della confisca come mezzo di prevenzione, consegue quindi che:
– la circostanza che l’art. 117/1 d d. lgs. n. 159 del 2011 disponga che “le disposizioni contenute nel libro primo non si applicano ai procedimenti nei quali, alla data di entrata in vigore del presente decreto, sia già stata formulata proposta di applicazione della misura di prevenzione. In tali casi continuano ad applicarsi le norme previgenti”, non comporta che non possano essere confiscati i beni acquisiti dal proposto in epoca antecedente;
– “Il principio di reciproca autonomia tra le misure personali e patrimoniali deve essere inteso nel senso che è consentito applicare la confisca prescindendo dal requisito della pericolosità del proposto al momento dell’adozione della misura, ma è comunque necessario che tale pericolosità sia accertata con riferimento all’epoca dell’acquisto del bene oggetto della richiesta ablatoria” (sez. 2 n. 24276 del 29/4/2014, Rv. 260296; sez. 1 n. 32398 del 21/3/2014, Rv. 260281).
La suddetta normativa, ha più volte superato il vaglio di legittimità costituzionale costituzionalità (Corte Cost. ord. n. 368 del 1964; Corte Cost. ord. n. 721 del 1988; Corte Cost. sent. n. 465 del 1993; Corte Cost. sent. n. 487 del 1995; Corte Cost. sent. n. 335 del 1996, Corte Cost. sent. n. 21 del 2012; Corte Cost. sent. n. 216 del 2012) ed è stata ritenuta legittima dalla stessa Corte Europea de diritti dell’uomo (Corte EDU 2/02/1994, Raimondo c. Italia; Corte EDU, 04/09/2001 Riela c. Italia; 05/07/2001, Corte EDU Arcuri c. Italia; Corte EDU 05/01/2010, Bongiomo c. Italia; Corte EDU 06/07/2011, Pozzi c. Italia; Corte EDU, 17/05/2011 Capitani e Campanella e. Italia).
È stato, infatti, ritenuto dalla Corte Costituzionale che il sacrificio dei diritti, costituzionalmente tutelati, di proprietà e di iniziativa economica, ben può essere limitato nell’interesse delle esigenze di sicurezza e dell’utilità generale (art. 41 Cost., comma 2), nonché della funzione sociale della proprietà (art. 42 Cost., comma 2), secondo quelle finalità discrezionalmente riservate al legislatore, che, nel caso di specie, dovendosi individuare in quella di sottrarre i patrimoni accumulati illecitamente alla disponibilità dei soggetti che non possono dimostrarne la legittima provenienza, è certamente meritevole di tutela, interpretazione questa, come si è detto, avallata e fatta propria anche dalla Corte EDU nelle decisioni citate.
Alla stregua delle suddette considerazioni, pertanto, le questioni preliminari dedotte dal ricorrente ed illustrate nella presente parte narrativa devono ritenersi infondate, come ugualmente manifestamente infondata risulta la questione di illegittimità costituzionale prospettata nei motivi aggiunti.
3.2. Con il secondo motivo il ricorrente sostiene che, essendosi, al più, egli reso responsabile di reati contravvenzionali, la misura della confisca non avrebbe potuto essergli applicata.
In astratto, la censura è fondata in quanto, in effetti, il decreto legislativo citato ha come presupposto per l’applicabilità delle misure di prevenzione, la commissione, da parte del proposto di ‘delitti’ ex combinato disposto dell’art. 161 lett. a) e art. 4 e 1 d. lgs. n. 159 del 2011, con esclusione, quindi, dei reati contravvenzionali (sez. 2 n. 16348 del 23/3/2012, Rv. 252240).
La censura, però, è infondata, in punto di fatto, perché, prima il Tribunale (pag. 14) e, poi la Corte (pag. 4 del decreto impugnato), hanno escluso, sulla base di una motivazione amplissima e coerente con gli evidenziati elementi fattuali, che il ricorrente si limitasse alla pur vietata attività di ciarlatano (artt. 121 TULPS e 231 del relativo regolamento), in quanto, al contrario, la sua attività era improntata alla sistematica frode (elemento che differenzia la suddetta contravvenzione dalla truffa): il che, rende inammissibile la censura vertendo la medesima non su una violazione di legge (la sola consentita in sede di ricorso per cassazione), ma sulla motivazione.
Con riferimento al terzo motivo, con il quale si lamenta motivazione mancante o apparente in ordine alla sussistenza del delitto di truffa, vanno, in via preliminare, rammentati i principi di seguito indicati: la confisca di cui al d. lgs. 159 del 2011 presuppone che sia accertata la pericolosità del proposto anche se, a differenza delle misure personali, non occorre che la pericolosità sia attuale, essendo sufficiente che sia accertata con riferimento all’epoca dell’acquisto dei beni oggetto del provvedimento ablatorio. Quanto alla nozione di pericolosità sociale – cui fa ancora riferimento il combinato disposto dell’art. 161 lett. a), art. 4 e 1 decreto legislativo citato – è ancora valida la consolidata definizione che ne è stata data relativamente alla previgente legislazione e cioè che va intesa in senso lato, comprendente, da una parte, la semplice immoralità non costituente reato e, dall’altra, l’accertata predisposizione al delitto e la presunta vita delittuosa di una persona nei cui confronti non sia stata raggiunta una prova certa di reità (sez. 1 n. 632 del 6/3/1985, Rv. 168613; sez. 1 n. 3740 del 17/11/1986, Rv. 174864). Quindi il giudizio sulla pericolosità sociale, proprio perché la medesima non si correla necessariamente ad una affermazione di responsabilità in ordine ad un reato, va ricavata dal serio esame dell’intera personalità del soggetto e da situazioni oggettive che giustificano presunzioni, purché non siano frutto di apodittiche affermazioni ma appaiano fondate su elementi fattuali specifici ed accertati. Al tal fine possono essere adeguatamente valorizzate ad esempio: i precedenti penali (sez. 1 n. 3797 del 1/10/1993, Rv. 196212); i precedenti giudiziari, anche se negativi, possono essere utilizzati quali manifestazioni della personalità del soggetto, utili ai fini di un globale giudizio di pericolosità, specie se poi collegati ad altre imputazioni della stessa indole (sez. 1 n. 487 del 26/2/1990, Rv. 183673); le recenti denunce per gravi reati (sez. 1 n. 3797 del 1/10/1993, Rv. 196212); elementi di prova e/o indiziari tratti da procedimenti penali, benché non ancora conclusi, come ad esempio le intercettazioni purché legai (sez. U. n. 13426 del 25/3/2010, Rv. 246271), e, nel caso di processi definiti con sentenza irrevocabile, anche indipendentemente dalla natura delle statuizioni terminali in ordine all’accertamento della penale responsabilità dell’imputato, sicché anche una sentenza di assoluzione, pur irrevocabile, non comporta la automatica esclusione della pericolosità sociale (sez. 5 n. 32353 del 16/5/2014, Rv. 260482).
In altri termini, il giudizio di pericolosità deve fondarsi sull’oggettiva valutazione di fatti – sintomatici della condotta abituale e del tenore di vita del soggetto – accertati in modo da escludere valutazioni meramente soggettive ed incontrollabili da parte dell’autorità proponente: quindi, fatti certi (sez. 1 n. 6613 del 17/1/2008, Rv. 239358) e non sospetti, così come, invece, riteneva una ormai datata e non più condivisibile giurisprudenza (sez. 1 n. 487 del 26/2/1990, Rv. 183673).
Infatti, le stesse sezioni Unite con la sentenza n. 13426 del 2010 citata, hanno chiarito che “È consolidato l’orientamento secondo il quale, nel corso del procedimento di prevenzione, il giudice di merito è legittimato a servirsi di elementi di prova o di tipo indiziario tratti da procedimenti penali, anche se non ancora definiti con sentenza irrevocabile, e, in tale ultimo caso, anche a prescindere dalla natura delle statuizioni terminali in ordine all’accertamento della responsabilità. Sicché, pure l’assoluzione, anche se irrevocabile, dal delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen., non comporta la automatica esclusione della pericolosità sociale, potendosi il relativo scrutinio fondare sia sugli stessi fatti storici in ordine ai quali è stata esclusa la configurabilità di illiceità penale, sia su altri fatti acquisiti o autonomamente desunti nel giudizio di prevenzione. Ciò che rileva, si è osservato, è che il giudizio di pericolosità sia fondato su elementi certi, dai quali possa legittimamente farsi discendere l’affermazione dell’esistenza della pericolosità, sulla base di un ragionamento immune da vizi, fermo restando che gli indizi sulla cui base formulare il giudizio di pericolosità non devono necessariamente avere i caratteri di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 192 cod. proc. pen. (cfr., ex plurimis, Sez. I, 6 novembre 2008, n. 47764; Sez. II, 28 maggio 2008, n. 25919; Sez. I, 13 giugno 2007, n. 27655; Sez. VI, 30 settembre 2005, n. 39953). Nella medesima linea, d’altra parte, si è collocata pure la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la quale (Grande Camera, 1 marzo 6 aprile 2000, Labita c. Italia) ha ritenuto non in contrasto con i principi della CEDI) il fatto che le misure di prevenzione ‘siano applicate nei confronti di individui sospettati di appartenere alla mafia anche prima della loro condanna, poiché tendono ad impedire il compimento di atti criminali’; mentre ‘il proscioglimento eventualmente sopravvenuto non le priva necessariamente di ogni ragion d’essere: infatti, elementi concreti raccolti durante un processo, anche se insufficienti per giungere ad una condanna, possono tuttavia giustificare dei ragionevoli dubbi che l’individuo in questione possa in futuro commettere dei reati penali’. Il tutto in linea con ‘le profonde differenze, di procedimento e di sostanza’ che è possibile intravedere tra le due sedi, penale e di prevenzione: ‘la prima ricollegata a un determinato fatto-reato oggetto di verifica nel processo, a seguito dell’esercizio della azione penale; la seconda riferita a una complessiva notazione di pericolosità, espressa mediante condotte che non necessariamente costituiscono reato e che sono […] verificate in un procedimento che, pur se giurisdizionalizzato, vede quali titolari dell’’azione’ di prevenzione soggetti diversi, appartenenti all’amministrazione’ (v. Corte cost, sentenza n. 275 del 1996)”.
Non resta a questo punto che verificare se i giudici di merito si siano attenuti ai suddetti principi di diritto.
Dalla congiunta lettura del decreto pronunciato dal tribunale e da quello pronunciato dalla Corte territoriale, si evince che la pericolosità sociale è stata accertata sulla base dei seguenti dati fattuali:
a) denuncia querela sporta da S.P. , affetto da psicosi paranoide cronica, a seguito della quale il N. è indagato per il reato di circonvenzione di incapaci;
b) denuncia sporta da Na.An. , a seguito della quale il N. – successivamente arrestato in flagranza – è indagato per il reato di truffa aggravata ex art. 640/2 n 2 e 2 bis cod. pen.;
c) procedimento penale per abusivo esercizio della professione medica (art. 348 cod. pen.) e 476-482 cod. pen. (prescrizione di false ricette mediche);
d) denunce sporte da altri soggetti (ad es. V. e O. );
e) sequestro di ricette mediche false;
f) intercettazioni telefoniche confermative dei reati per cui è indagato;
g) evasione totale dei redditi ricavati dall’attività che esercitava: è stata sequestrata l’intera contabilità nera tenuta dal ricorrente;
h) tenore di vita incompatibile con la modesta dichiarazione dei redditi: cfr beni confiscati.
È stato, altresì, accertato (sulla base di oggettivi ed inconfutabili dati oggettivi: cfr pag. 13 decreto di primo grado): che la suddetta attività era proseguita, senza soluzione di continuità dal 1996 al 2013; che era un’attività per la quale il N. chiedeva denaro (mediamente Euro 100,00 a colloquio); che, grazie ai lauti introiti – mai dichiarati al fisco – aveva potuto accumulare il patrimonio, immobiliare e mobiliare confiscato, non avendo il ricorrente altre fonti di reddito né provato alcunché in contrario.
Alla stregua dei suddetti fatti, entrambi i giudici di merito hanno concluso per la pericolosità del ricorrente sotto un duplice profilo:
a) per l’attività di mago e guaritore grazie alla quale perpetrava, in modo sistematico, truffe, circonvenzioni, esercizio abusivo della professione medica, con gravi danni, non solo economici, alle persone che a lui si rivolgevano. Scrive, in proposito il tribunale (pag. 9-10): “Di speciale allarme sono gli episodi in cui, a fronte della prospettazione di gravi patologie, anche di natura più o meno ipoteticamente tumorale da parte dell’interlocutore il N. formulava giudizi a contenuto sostanzialmente diagnostico in cui, a volte, smentiva le diagnosi dei sanitari, e, comunque, induceva l’assistito a non ricorrere ad analisi e cure mediche, proponendo in alternativa i propri riti e predizioni come opere aventi efficacia diagnostica e curativa […] Il quadro d’allarme e di pericolo sociale appare tanto più evidente in quanto il N. , avvalendosi della propria fama di guaritore, risultava in grado di esercitare una sorta di dominio psicologico sui propri assistiti. Dominio che si fonda sulle componenti sinergiche costituite da: 1) prospettazione di gravi conseguenze in difetto dell’adesione ai suoi suggerimenti magici; 2) stato di prostrazione dei soggetti assistiti, tale da configurare a volte condizioni di minorata difesa (laddove non si traduca in una minorazione più radicale, come avvenuto per il S. )”;
b) per avere evaso, in modo sistematico, il fisco: sul punto, entrambi i giudici hanno richiamato, a sostegno, la sentenza n 33451 del 2014 delle sezioni Unite che, sul punto, ha ribadito il principio di diritto enunciato da Cass. 32032/2013 riv 256450 secondo la quale “in tema di misure di prevenzione, va considerato pericoloso ai sensi dell’art. 1 della l. 1423 del 1956 (attualmente sostituito dall’art. 1 del D.Lgs. n. 159 del 2011) il soggetto dedito in modo continuativo a condotte elusive degli obblighi contributivi e che reinvesta i relativi profitti in attività commerciali, vivendo così abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose” (sez. U. n. 33451 del 29/5/2014, Rv. 260244).
Si può, quindi, affermare che entrambi i giudici di merito si sono puntualmente adeguati ai principi di diritto di cui si è detto in quanto:
1) hanno fondato il giudizio di pericolosità su fatti e non su sospetti;
2) hanno chiarito le ragioni per le quali il ricorrente dovesse essere ritenuto pericoloso socialmente;
3) hanno accertato che la suddetta attività pericolosa si era svolta ininterrottamente dal 1996 al 2013 (data dell’arresto in flagranza);
4) hanno accertato che il patrimonio accumulato era stato acquistato con i proventi dell’attività in questione.
La difesa del ricorrente, pur non contestando i suddetti fatti, ha sostenuto: che i medesimi non erano sufficienti per l’emissione del provvedimento ablatorio, in quanto si trattava di poche denunce; che egli aveva prodotto le dichiarazioni di alcuni ‘clienti’ che si dichiaravano soddisfatti delle prestazioni ricevute; che le ricette mediche erano per uso personale di farmaci di cui egli aveva bisogno; che non era condivisibile l’interpretazione delle sezioni Unite citata, secondo la quale, ai fini delle dimostrazione della legittima provenienza dei beni, non poteva tenersi conto dei redditi sottratti all’imposizione fiscale.
Sennonché, è del tutto evidente, per come la doglianza è stata dedotta, che ci si trova di fronte non a censure aventi ad oggetto violazioni di legge (le uniche consentite avverso il decreto impugnato), ma ad una vera e propria doglianza che investe la motivazione sotto il profilo della illogicità, carenza e/o contraddittorietà, in quanto il ricorrente finisce con l’offrire una diversa ricostruzione dei fatti, alternativi a quelli ritenuti da entrambi i giudici di merito: il che comporta, sul punto, l’inammissibilità della censura, quanto meno riguardo il profilo della pericolosità accertata in relazione all’attività di mago e guaritore.
Resterebbe da valutare l’ulteriore profilo di pericolosità riguardo all’evasione fiscale in relazione alla quale il ricorrente ha dedotto una violazione di legge: ma, sul punto, il ricorrente non considera che quanto accertato da entrambi i giudici di merito, rientra proprio nell’ipotesi scrutinata dalla citata decisione delle Sezioni Unite, la quale ha fatto riferimento ai casi di colossale e sistematica evasione fiscale.
Giova, quindi, sul punto, ribadire che, entrambi i giudici di merito, con accertamento fondato su inequivoci dati oggettivi (non contestati neppure dal ricorrente), hanno con motivazione congrua ed insindacabile sul piano fattuale e nel merito, rilevato che la socialmente pericolosa attività svolta dal ricorrente, fruttava al medesimo notevoli introiti i quali, senza essere dichiarati al fisco, gli avevano consentito di acquistare i beni sottoposti a confisca.
Ecco, infatti, cosa scrivono le sezioni Unite “[…] Valutando poi la principale delle obiezioni che la dottrina sviluppa sul tema, e cioè la preoccupazione di incoerenza sistematica, posto che – si sostiene – con la soluzione qui adottata si verrebbe ad introdurre una confisca, per l’evasione fiscale, anche in casi in cui la legislazione specifica non la contempla, vale osservare che tale argomento non tiene conto del presupposto di base, e cioè che non si verte in ipotesi di mera evasione fiscale, ma di evasione compiuta da soggetto nel contempo giudicato, per la concreta ricorrenza di tutti i presupposti di legge, socialmente pericoloso. Non si tratta, infatti, di valutare in positivo l’evasione fiscale in sé come fonte di pericolosità sociale, ed in ciò radicare la confisca, ma di escludere (dunque in negativo) che la stessa possa essere addotta quale giustificazione (anche parziale) dell’illecito accumulo, in soggetto -vale ribadire – giudicato pericoloso aliunde.
Infine, il caso di specie – in cui è pacifico, essendo addirittura oggetto di aperta rivendicazione nei motivi di ricorso, che l’evasione fiscale è stata ripetuta negli anni, sistematica e ‘colossale’ – preclude di entrare nella valutazione della problematica circa la quota confiscabile (che avrebbe senso solo ove si trattasse di un’evasione puntuale, circoscritta ed un insussistente, senza effettivo reimpiego) essendosi di contro in realtà realizzato il reimpiego e la confusione totale tra profitti leciti ed illeciti; del resto, al di là dell’impossibilità pratica di accertare la concreta distinzione in caso di lunghi periodi, è del tutto evidente, per legge economica, che le attività lecite non sarebbero state le stesse (con quei volumi e con quei profitti) ove vi fosse stato impiego di capitali minori (solo quelli leciti): dunque l’inquinamento, per definizione e per legge logico-economica, non può non essere omnipervasivo e travolgente”.
Sulla base delle su esposte considerazioni si impone il rigetto del ricorso, per essere risultati infondati i motivi proposti. A ciò consegue, ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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