Suprema Corte di Cassazione
sezione II
sentenza 24 febbraio 2015, n. 8170
Fatto
1. Con sentenza del 19/12/2013, la Corte di Appello di Napoli – pur riducendo la pena – confermava la sentenza pronunciata in data 15/05/2013 dal giudice dell’udienza preliminare del tribunale di Nola nella parte in cui aveva ritenuto M.S.E. ed E.A. colpevoli dei seguenti reati: “Entrambi: del reato di agli artt. 110, 629 c.p., perché in concorso e previo accordo fra di loro, attribuendosi il M. un falso nome e il falso stato di appartenente all’amministrazione finanziaria, mediante minaccia di effettuare un controllo fiscale nei confronti dell’attività commerciale di studio fotografico gestita da T.G. , ove quest’ultimo non gli avesse pagato una somma di denaro per evitarlo, costringendo il predetto al pagamento della somma di Euro 3.000,00 si procuravano un ingiusto profitto con altrui danno, in (omissis) ;
E.A. : b) del reato di cui all’art. 629 c.p., perché attribuendosi il falso stato di appartenente all’Agenzia delle Entrate (presso la quale Amministrazione invece egli aveva cessato servizio già dal 2004) mediante minaccia di un imminente accertamento fiscale nei confronti dell’attività commerciale di studio fotografico gestita da T.G. , ove quest’ultimo non avesse pagato una somma di denaro per evitarlo, costringendo predetto al pagamento della somma di Euro 3.000,00, si procurava un ingiusto profitto con altrui danno. In (omissis) .
M.S.E. : c) del delitto p. e p. dagli arti. 61 n. 2 e 497 ter perché, al fine di eseguire il reato di cui al capo a), illecitamente deteneva segni distintivi contrassegni e documenti di identificazione in uso al Corpo della Guardia di Finanza ovvero oggetti che ne simulano la funzione, in (omissis) . Con la recidiva infraquinquennale per M.S.E. ”.
Il fatto veniva ricostruito dalla Corte territoriale nei seguenti termini: “Il T. aveva riferito alla p.g. che: presso il suo studio si era presentato una persona che si era qualificata ispettore in servizio presso l’Agenzia delle Entrate e che lo aveva invitato, per sottrarsi alle attività di controllo, a corrispondere una somma di Euro tremila; aveva concordato con il predetto un appuntamento per procedere al versamento del danaro. In quella sede la persona offesa, dopo avere comunicato la data ed il luogo dell’incontro alle forze dell’ordine, aveva, d’ accordo con le predette, fotocopiato e siglato le banconote e si era recato nel posto fissato. La polizia, che controllava i luoghi, dopo aver assistito alla consegna del danaro, era intervenuta ed aveva proceduto all’arresto del soggetto, che veniva identificato nell’attuale imputato M. . Dalle intercettazioni che erano state disposte si desumeva che l’imputato aveva agito sotto la direzione di tale E. , licenziato dall’ufficio dell’Agenzia delle Entrate e conoscente della persona offesa. Sulla base delle dichiarazioni rese dal T. , il quale presentava denuncia anche in relazione ad un pregresso episodio da lui subito ad opera dell’E. , che lo aveva estorto qualche anno prima, il Tribunale perveniva all’affermazione della responsabilità anche del predetto in relazione ad un ulteriore reato di estorsione”.
La Corte – nel respingere il comune motivo di appello comune ad entrambi gli imputati, secondo il quale la condotta posta in essere avrebbe dovuto essere inquadrata nel reato di truffa – riteneva “che la condotta posta in essere dagli imputati, sia quella del M. , il quale si è presentato come ispettore delle Agenzie delle Entrate che quella posta in essere dall’E. , già noto alla persona offesa, integrano il delitto di estorsione e non quello di truffa atteso che gli agenti hanno indotto la persona offesa a versare somme di danaro proprio per scongiurare future ispezioni e verbali di contravvenzione. È evidente ed inequivocamente dimostrato, attraverso le dichiarazioni della stessa persona offesa, che questa si è determinata a corrispondere il danaro proprio per essere stata destinataria della minaccia detta e per aver inteso come certo e proveniente dalle controparti e, comunque, da ambienti alle predette legati, il pericolo stesso. La condotta contestata correttamente è stata, quindi, inquadrata in modo coerente alle risultanze investigative dal primo giudice che ha ravvisato i reati di estorsione e li ha ritenuti integrati in tutti gli elementi”.
2. Avverso la suddetta sentenza, entrambi gli imputati, a mezzo dei rispettivi difensori, hanno proposto separati ricorsi per cassazione.
3. M.S.E. , ha dedotto l’errata qualificazione giuridica del fatto: sostiene il ricorrente che, nel fatto addebitatogli, sarebbe configurabile, al più, il reato di truffa aggravata e non quello di estorsione come ritenuto peraltro da una parte della giurisprudenza di legittimità.
4. E.A. ha dedotto:
4.1. l’ERRATA QUALIFICAZIONE GIURIDICA DEL FATTO: Si tratta della medesima doglianza dedotta dal M. ;
4.2. violazione dell’art. 56 cod. pen.: il ricorrente sostiene che il fatto di cui al capo sub b) avrebbe dovuto essere qualificato come tentativo e non come reato consumato in quanto la consegna del denaro si era svolta sotto il controllo della Polizia Giudiziaria.
Diritto
1. errata qualificazione giuridica del fatto: la censura proposta da entrambi i ricorrenti relativamente ai capi sub a) e b) della rubrica, è fondata per le ragioni di seguito indicate.
Questa Corte, di recente, ha affrontato la suddetta problematica e, rimeditando l’indirizzo giurisprudenziale al quale, con tutta evidenza si sono adeguati entrambi i giudici di merito, ha sostenuto che, in fattispecie simili a quelle per cui è processo, il reato configurabile è quello di truffa aggravata ex art. 640/2 n. 2 cod. pen. e non quello di estorsione.
1.1. La suddetta sentenza (Cass. sez. II n. 52121/2014 Rv. 261328), la cui decisione questa Corte ritiene di ribadire, facendola propria, ha così motivato: “[…] 2. L’art. 640/2 n. 2 cod. pen. prevede l’aggravamento della pena se il fatto è commesso ingenerando nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario o l’erroneo convincimento di dovere eseguire un ordine dell’autorità.
Poiché la prospettazione di un pericolo – sebbene immaginario – determina nella vittima una forma di coartazione della volontà, si è posto il problema di identificare gli elementi che consentano di differenziare la truffa aggravata dall’estorsione.
Il suddetto problema era già presente all’attenzione del legislatore: infatti, al p.750 voi V, parte II della Relazione sui Libri II e III del Progetto dei Lavori preparatori del cod. pen. e del cod. proc. pen. si legge: Si è domandato da alcuno perché è stato considerato come un ipotesi di truffa il fatto di chi, con un artificio o raggiro, tende ad ingenerare nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario o l’erroneo convincimento di dovere eseguire un ordine dell’Autorità, sembrando che tale fatto debba piuttosto costituire delitto di estorsione. L’osservazione non tiene presente che il Progetto si riferisce all’uso di artifici o raggiri, ossia a mezzi, che non realizzano una costrizione della volontà ma una induzione in errore, e perciò la definizione giuridica del fatto non può essere che quella di truffa.
La ratio legis va, quindi, individuata nel fatto che il legislatore, nella sua insindacabilità, ha ritenuto che quella determinata modalità di raggiro o artifizio, fosse particolarmente pericolosa ed insidiosa e che, pertanto, meritasse di essere qualificata come una aggravante.
In altri termini, mentre il legislatore, per la truffa semplice di cui al primo comma dell’art. 640 cod. pen., si è limitato ad enunciare come elemento oggettivo del reato, gli artifizi o raggiri, lasciando all’interprete di stabilire, di volta in volta, se un determinato comportamento sia qualificabile come artifizio o raggiro, al contrario, ha tipizzato una particolare categoria di artifizi e raggiri, stabilendo che, appunto, quando l’agente, induce taluno in errore procurando a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, mediante artifizi o raggiri consistenti nell’ingenerare nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario, questa ipotesi dev’essere considerata aggravata.
La peculiarità dell’ipotesi in esame consiste, quindi, nella circostanza che ingenerare nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario, costituisce il particolare mezzo (rectius: artifizio o raggiro) grazie al quale l’agente induce in errore la parte offesa.
I chiarimenti offerti dallo stesso Guardasigilli, non hanno però dissipato tutti i dubbi sull’individuazione della linea di demarcazione fra truffa aggravata e estorsione.
Infatti, nell’ambito della giurisprudenza di questa stessa Corte di legittimità, si registrano due opinioni.
2.1. Secondo una prima tesi, uno dei criteri distintivi tra l’estorsione e la truffa per ingenerato timore è da ravvisare nella particolare posizione dell’agente nei rapporti con lo stato d’animo del soggetto passivo. Nella estorsione, infatti, l’agente incute direttamente od indirettamente, il timore di un danno che fa apparire certo in caso di rifiuto e proveniente da lui (o da persona a lui legata da un rapporto qualsiasi), di guisa che l’adesione della vittima è il frutto di una determinazione per volontà coartata; l’attuazione del male minacciato deve presentarsi in forma di possibilità concreta dipendente dalla volontà dell’agente o di persona legata allo stesso. Nella truffa vessatoria, invece, il danno è prospettato solo in termini di eventualità obiettiva e giammai derivante in modo diretto od indiretto dalla volontà dell’agente, di guisa che l’offeso agisce non perché coartato, ma tratto in inganno, anche se il timore contribuisce ad ingenerare l’errore nel processo formativo della volontà; ex plurimis Cass. 5244/1975 riv 133309; Cass. 11622/1982 riv 156497; Cass. 710/1986 riv 174914; Cass. 5845/1995 riv 201333; Cass. 4180/2000 riv 215705; Cass. 29704/2003 riv 226057; Cass. 35346/2010 riv 248402; Cass. 36906/2011 riv 251149.
La suddetta opinione, quindi, individua i seguenti criteri differenziali:
a) lo stato d’animo del soggetto passivo, il quale, nell’estorsione agisce con la volontà coartata, mentre nella truffa vessatoria agisce perché tratto in inganno, sia pure attraverso l’eccitazione di un timore: Cass. 5244/1975 RV 133309;
b) la realizzazione del danno minacciato: infatti, si ha estorsione, quando il danno viene minacciato come una possibilità concreta, che dipende direttamente o indirettamente dallo stesso agente, il quale si mostra in grado di determinare, o meno, la situazione prospettata, mentre si ha truffa per ingenerato timore, quando il male rappresentato non dipende, neppure in parte dall’agente, il quale resta del tutto estraneo all’evento, artatamente rappresentato, sì che il soggetto passivo si determina all’azione versando in stato di errore: Cass. Sez. I, 6693/1979 RV 142629; Sez. II, 1616/1987 RV 175101; 5838/1995 RV 201514; 7889/1996 RV 205606.
In altri termini, la tesi illustrata, pone il baricentro del criterio distintivo fra i due reati, sul diverso modo di atteggiarsi della condotta lesiva e sulla sua incidenza nella sfera soggettiva del soggetto passivo: ricorre la truffa se il male viene ventilato come possibile ed eventuale e comunque non proveniente direttamente o indirettamente da chi lo prospetta in modo che l’offeso non è coartato nella sua volontà, ma si determina alla prestazione, costituente l’ingiusto profitto dell’agente, perché tratto in errore dalla esposizione di un pericolo inesistente; mentre si configura l’estorsione se il male viene indicato come certo e realizzabile ad opera del reo o di altri, onde l’offeso è posto nella ineluttabile alternativa di far conseguire all’agente il preteso profitto o di subire il male minacciato.
Si tratta, quindi, di una tesi che, da una parte, guarda alle modalità della condotta lesiva (nell’estorsione, il male viene indicato come certo e realizzabile ad opera del reo o di altri; nella truffa, il male viene ventilato come possibile ed eventuale e comunque non proveniente direttamente o indirettamente da chi lo prospetta), dall’altra, all’atteggiamento psicologico della vittima (nell’estorsione, l’offeso è posto nella ineluttabile alternativa di far conseguire all’agente il preteso profitto o di subire il male minacciato; nella truffa, l’offeso non è coartato nella sua volontà, ma si determina alla prestazione, costituente l’ingiusto profitto dell’agente, perché tratto in errore dalla esposizione di un pericolo inesistente).
Questa tesi, poi, comporta due corollari:
a) l’indagine va effettuata ex ante e cioè al momento della consumazione del reato;
b) del sintagma pericolo immaginario è data un’interpretazione restrittiva. Si è, infatti, affermato che Il significato proprio dell’aggettivo immaginario indica tutto ciò che è effetto dell’immaginazione, ossia che esiste soltanto nell’immaginazione e non ha alcun fondamento nella realtà. Di conseguenza, nell’estorsione l’agente rappresenta un pericolo dato come reale e da lui dipendente; nella truffa vessatoria l’agente crea un pericolo immaginario, costruito come fatto a sé stante separato dalle determinazioni del truffatore, tale che un comune discernimento potrebbe essere in grado di individuare come non reale. In genere, ma non necessariamente, il pericolo immaginario è correlato a forze occulte o a credenze superstiziose: Cass. 4180/2000 riv 215705 (in motivazione).
Sulla base di questa interpretazione, pertanto, si è, sostenuto che Integra il reato di truffa aggravata il comportamento di colui che, sfruttando la fama di mago, chiromante, occultista o guaritore, ingeneri nelle persone offese la convinzione dell’esistenza di gravi pericoli gravanti su di esse o sui loro familiari e, facendo loro credere di poter scongiurare i prospettati pericoli con i rituali magici da lui praticati, le induca in errore, così procurandosi l’ingiusto profitto consistente nell’incameramento delle somme di denaro elargitegli con correlativo danno per le medesime: Cass. 5265/1996 riv 205106; Cass. 1862/2005 riv 233361; Cass. 1910/2004 riv 230694; Cass. 26107/2003 riv 225872; Cass. 42445/2012 riv 253647.
Al contrario, integra il reato di estorsione, a nulla rilevando che la minaccia, se credibile, non sia concretamente attuabile:
– la richiesta di una somma di danaro per la restituzione di un motociclo rubato formulata da un soggetto che aveva tratto in inganno il derubato falsamente affermando di avere la disponibilità del mezzo: Cass. 7889/1996 riv 205606;
– il caso in cui l’agente, falsamente qualificandosi come vigile urbano, si era fatto corrispondere una somma di denaro dal proprietario di un immobile minacciando di sospendere l’esecuzione dei lavori di ristrutturazione che ivi si svolgevano: Cass. 4180/2000 riv 215705;
– il caso in cui gli imputati si fecero consegnare varie somme da due extracomunitari, con la minaccia di sottoporli, simulando la qualità di agenti della P.S., a controlli amministrativi e di verificare l’addotta provenienza delittuosa del denaro posseduto dai predetti: Cass. 35346/2010 riv 248402;
– la condotta di colui che con l’esibizione di un (falso) tesserino USL costringa due ristoratori ad acquistare mercé onde scongiurare future ispezioni, in quanto il male ingiusto è prospettato tramite una minaccia e non attraverso un inganno: Cass. 36906/2011 riv 251149.
2.2. La seconda tesi, invece, giunge, in fattispecie simili, ad opposta conclusione ritenendo che il criterio distintivo fra i due reati debba essere di natura oggettiva in quanto ciò che rileva è solo il mezzo utilizzato (ossia gli artifizi e raggiri) e non gli effetti che i medesimi hanno sulla volontà della vittima.
Si è, infatti, sostenuto che mentre gli elementi caratterizzanti la condotta estorsiva sono la violenza e la minaccia, quelli qualificanti il comportamento truffaldino – anche nell’ipotesi aggravata della prospettazione del pericolo immaginario – sono, pur sempre, gli artifizi e raggiri: in quest’ultima ipotesi infatti la minaccia, poiché riguarda un male non reale, ma immaginario, assume i contorni dell’inganno perché contribuisce alla induzione in errore della parte offesa del reato attraverso la prospettazione del falso pericolo: nella specie, è stato ritenuto configurabile il reato di truffa nel fatto di un soggetto che, spacciandosi per ufficiale della guardia di finanza, aveva richiesto ed ottenuto una somma di danaro per non procedere ad una verifica fiscale: Cass. 8456/1995 riv 202347; Cass. 8974/1996 riv 206281 secondo la quale il ventilato asporto dei beni mobili dall’abitazione prospettato da soggetti falsamente qualificatisi come ufficiali giudiziari, in quanto deve escludersi il carattere immaginario del male così minacciato, risultando il predetto asporto consentito dalla normativa di cui agli artt. 520 e 521 cod. proc. civ., i quali espressamente prevedono che ai fini della conservazione delle cose pignorate l’ufficiale giudiziario autorizza il custode a trasportarle altrove; Cass. 28390/2013 riv 256459 secondo la quale integra gli estremi del delitto di truffa, e non di estorsione, la condotta di chi, al fine di procurarsi un ingiusto profitto, rappresenti falsamente alla vittima un pericolo immaginario proveniente da terzi, in sé non ingiusto ma anzi astrattamente legittimo (nella specie, la possibile revoca della pensione da parte dell’INPS ed il mancato pagamento degli arretrati), e si offra di adoperarsi per evitargli tale conseguenza in cambio di denaro.
2.3. Questa Corte ritiene di aderire a quest’ultimo orientamento per le ragioni di seguito indicate.
Il punto di partenza non può che essere l’esegesi della norma.
Ora, in ordine al significato da attribuire al sintagma pericolo immaginario, si può pienamente concordare con quanto si è sostenuto nella giurisprudenza di questa Corte e cioè che la nozione di pericolo immaginario corrisponde a quella di pericolo inesistente (Cass. 8974/1996 cit.), ovvero a tutto ciò che è effetto dell’immaginazione, ossia che esiste soltanto nell’immaginazione e non ha alcun fondamento nella realtà (Cass. 4180/2000 cit.).
La norma, però, qui si arresta e non dice – neppure per implicito – quello che le si vuoi far dire e cioè che la configurabilità del reato dipende dall’atteggiamento psicologico della vittima e che, per essere la truffa aggravata il danno prospettato non deve mai provenire direttamente o indirettamente dall’imputato.
In realtà, a ben vedere, questa concezione soggettiva e psicologica, non solo urta contro la lapidaria ed asettica formulazione della norma, ma anche contro la ratio legis ben evidenziata dal Guardasigilli che, a fronte delle medesime obiezioni, si limitò a rilevare che la differenza fra il reato di truffa aggravata e l’estorsione consisteva in un dato puramente oggettivo e cioè nell’uso di artifici o raggiri, ossia a mezzi, che non realizzano una costrizione della volontà ma una induzione in errore.
In secondo luogo, è proprio sul piano fattuale, che la tesi qui non condivisa, mostra tutti i suoi limiti rendendo inafferrabile, in concreto, la differenza fra i due reati.
Infatti, se è vero – come pure sostiene la tesi contraria – che il pericolo immaginario è sia il pericolo oggettivamente inesistente sia quello frutto della mera immaginazione, è allora evidente che tale indagine non può essere effettuata ex ante (ossia dal punto di vista della parte offesa nel momento in cui resta vittima del reato) per la semplice ed ovvia ragione che, nel momento in cui il reato si consuma, la vittima in tanto è indotta in errore in quanto, per effetto di quella particolare forma di raggiro o artifizio prevista dall’art. 640/2 n. 2 cod. pen., crede effettivamente e realmente che l’agente (direttamente o indirettamente non importa) sia in grado di realizzare il pericolo (immaginario) prospettatole perché, se così non fosse (e cioè se si accorgesse che il pericolo è, appunto immaginario o inesistente in quanto l’agente non è in grado di realizzarlo), è chiaro che non cadrebbe nella rete truffaldina tesagli dall’agente.
È evidente, allora, che l’indagine sul pericolo immaginario va condotta ex post, sia perché non vi è motivo di discostarsi dall’insegnamento tradizionale secondo il quale l’induzione in errore va giudicata ex post (in terminis Cass. 26107/2003 riv 225872, in motivazione), sia perché questo è il solo metodo che consente, in modo oggettivo, di valutare se il fatto addebitato all’imputato sia sussumibile nell’ambito della truffa aggravata ovvero dell’estorsione secondo il tradizionale criterio distintivo dei raggiri o artifizi (truffa) o della violenza o minaccia (estorsione).
In altri termini, l’atteggiamento psicologico della vittima a fronte del pericolo immaginario (che può essere indotto anche con minacce) prospettato dall’agente, è identico sia che si tratti di estorsione che di truffa aggravata proprio perché, per la vittima, la minaccia prospettatagli dall’agente è come se fosse reale ed attuabile da parte dello stesso agente direttamente o indirettamente: la volontà della vittima, cioè, ove valutata ex ante, risulta sempre, per assioma, coartata perché si trova di fronte ad una minaccia che egli crede seria proprio perché, è perfettamente identica sia che si tratti di estorsione che di truffa.
La vittima, invero, proprio a causa del raggiro, pensa di trovarsi di fronte ad una richiesta estorsiva essendole del tutto indifferente che il male minacciato (rectius: il pericolo immaginario) sia attuabile dall’agente direttamente o indirettamente: la truffa, infatti, consiste proprio nella simulazione, da parte dell’agente, di un’estorsione.
Solo successivamente, con valutazione ex post, invece, si può verificare se la minaccia era immaginaria (inesistente) in quanto l’agente, né direttamente né indirettamente, era in grado di realizzarla, ovvero, era reale perché l’agente, ove la vittima non avesse ceduto alla richiesta minatoria, era in grado – direttamente o indirettamente – di attuarla.
È chiaro, poi, che seguendo l’avversa tesi, si finirebbe per svuotare, per gran parte, il campo di applicazione dell’art. 640/2 n. 2 cod. pen. che, in pratica, rimarrebbe confinato ai residuali casi in cui l’agente (mago, fattucchiere e simili) prospetti mali immaginari dipendenti da forze esterne ed occulte (quindi indipendenti dalla volontà dell’agente) sulle quali egli, dietro compenso, può intervenire.
Ma la norma non consente una tale soluzione per la semplice ragione che quel tipo particolare di pericolo immaginario indotto da abili truffatori (maghi, chiromanti et similia) è solo una delle modalità con le quali può realizzarsi la truffa.
Non senza considerare che il suddetto approdo ermeneutico, non appare coerente con la definizione che quella stessa giurisprudenza ha dato del sintagma pericolo immaginario ossia pericolo inesistente ovvero frutto dell’immaginazione, in genere, ma non necessariamente, correlato a forze occulte o a credenze superstiziose.
In conclusione, il problema interpretativo che pone la norma in esame, può essere racchiuso nel seguente quesito: l’agente dev’essere sanzionato per ciò che ha progettato e realizzato (truffa) o per quello che appare alla vittima (estorsione)?
La risposta, ad avviso di questa Corte, non può che essere nel senso del primo corno del dilemma perché è l’unica interpretazione che appare conforme al principio di legalità di cui all’art. 1 cod. pen. a norma del quale l’agente va sanzionato per il reato che ha commesso (nella specie: la truffa che simula un’estorsione) e non per quello che non ha mai commesso né intendeva commettere ma che la parte offesa credeva essere stato perpetrato nei propri confronti (l’estorsione) e di cui è rimasta vittima […]”.
1.2. La fondatezza di quanto si è appena sostenuto – desumibile anche da Cass. 27363/2012 Rv. 253313 secondo la quale “integra gli estremi del delitto di truffa, e non di estorsione, la condotta di chi, al fine di procurarsi un ingiusto profitto, rappresenti falsamente alla vittima un pericolo immaginario proveniente da terzi, in sé non ingiusto ma anzi astrattamente legittimo (nella specie, l’imminente esecuzione della misura cautelare della custodia in carcere, in realtà insussistente), e si offra di adoperarsi per assicurargli l’impunità in cambio di denaro” – si appalesa, in modo plastico, ove si rifletta sui seguenti esempi.
Primo esempio: Tizio, soggetto appartenente all’Amministrazione Finanziaria, durante un accertamento fiscale eseguito nei confronti di Caio – titolare di un’attività commerciale – costringe costui al pagamento di una determinata somma di denaro, minacciandolo, in caso contrario, di elevargli sanzioni di importo elevatissimo: in tal caso, non vi è alcun dubbio che la fattispecie debba essere sussunta nell’ambito dell’art. 317 cod. pen. (concussione).
Secondo esempio: stessa situazione di quella appena descritta, ma Tizio non è un soggetto appartenente all’Amministrazione Finanziaria, anche se per tale si spaccia e Caio, tale credendolo, cede alla minaccia.
Le due situazioni, come si può notare, dal punto di vista della vittima (Caio), sono perfettamente uguali; sono, invece, profondamente differenti da un punto di vista fattuale e, quindi, giuridico.
Infatti, nel primo esempio, se Caio non paga, Tizio è in grado di attuare la propria minaccia (anche se è indifferente se, poi, in concreto, la attui o meno): vera è la funzione ricoperta e vera è la minaccia.
Al contrario, nel secondo esempio, se Caio non paga, Tizio non è in grado di attuare la propria minaccia proprio perché, non appartenendo all’Amministrazione Finanziaria, non può elevare alcun verbale: falsa ed apparente è la funzione ricoperta e falsa ed apparente è la minaccia.
È, poi, appena il caso di rilevare che, nella suddetta ipotesi, se Caio, per un qualsiasi motivo, si rifiuta di pagare, ma Tizio continua a minacciarlo non più in modo specifico (elevare un verbale di infrazioni) ma, in modo generico, il tentativo di truffa si trasforma in estorsione. Infatti la “nuova e diversa” minaccia, poiché non è più esplicazione di una funzione (quella di pubblico ufficiale) che Tizio non ha, va ritenuta una minaccia generica che, in quanto astrattamente attuabile dall’agente, assume tutte le caratteristiche dell’elemento costitutivo previsto dal reato di estorsione.
È sufficiente, quindi, riflettere sui due esempi prospettati, per avvedersi che la differenza fra le due ipotesi va rinvenuta nelle seguenti due circostanze: a) l’agente con artifizi e raggiri (consistenti nello spacciarsi per un pubblico ufficiale) induce in errore la vittima; b) l’agente non è in grado di attuare la minaccia profferita.
Di conseguenza, poiché nella fattispecie gioca un ruolo preponderante l’induzione in errore e la stessa minaccia (inattuabile) è ad esso inscindibilmente connessa ed in esso trova la sua esclusiva causa, il fatto va sussunto nell’ipotesi di cui all’art. 640/2 n. 2 c.p. e non in quella dell’estorsione nella quale i suddetti requisiti sono del tutto assenti.
D’altra parte, essendo palese che le due ipotesi sono differenti anche nel disvalore, sarebbe incongruo e contrario – oltre che al principio di legalità di cui si è già detto – anche al principio di ragionevolezza e proporzionalità, sanzionarle allo stesso modo.
Pertanto, nel caso di specie, i reati di estorsione di cui ai capi sub a) e b) vanno riqualificati entrambi come truffe aggravate ex art. 640/2 n. 2 cod. pen. alla stregua del seguente principio di diritto: “il criterio differenziale fra il delitto di truffa aggravato dall’ingenerato timore di un pericolo immaginario e quello di estorsione, risiede solo ed esclusivamente nell’elemento oggettivo: si ha truffa aggravata quando il danno immaginario viene indotto nella persona offesa tramite raggiri o artifizi e l’agente non sia in grado, ove la persona offesa non intenda adempiere alla di lui richiesta, di attuare la minaccia profferita; si ha estorsione, invece, quando il danno è certo e sicuro ad opera del reo o di altri (indipendentemente dalla circostanza che la minaccia sia o no realizzata) ove la vittima non ceda alla richiesta minatoria.
La valutazione circa la sussistenza del danno immaginario (e, quindi, del reato di truffa aggravata) o del danno reale (e, quindi, del reato di estorsione) va effettuata ex post e non ex ante essendo irrilevante ogni valutazione in ordine alla provenienza del danno prospettato ovvero allo stato soggettivo della persona offesa.
Pertanto, risponde del reato di truffa aggravata e non di estorsione, chi, al fine di procurarsi un ingiusto profitto, spacciandosi alla parte offesa come un soggetto appartenente all’Amministrazione Finanziaria ed esibendo falsi segni distintivi, lo induce a consegnargli una somma di denaro, minacciandolo, in caso contrario, di sottoporlo ad un controllo fiscale”.
2. Infondata, infine, deve ritenersi la doglianza dedotta dall’E. in ordine alla pretesa violazione dell’art. 56 cod. pen.: sul punto, infatti, è sufficiente richiamare il consolidato principio di diritto (al quale la Corte territoriale si è correttamente adeguata) secondo il quale “non esclude la consumazione del delitto di estorsione la circostanza che la consegna del danaro all’estorsore da parte della vittima avvenga in presenza delle forze dell’ordine preventivamente allertate e appostate, ma intervenute dopo il conseguimento del possesso del danaro stesso, sia pure per una breve frazione temporale, da parte dell’estorsore, in quanto la consumazione del reato deve rapportarsi al momento e nel luogo in cui si è verificato l’ingiusto profitto con l’altrui danno”: Cass. 25666/2009 riv. 244165; Cass. 5663/2012 Rv. 254691.
3. In conclusione, la sentenza impugnata – essendo stati i fatti di cui ai capi sub a) e b) riqualificati come truffe aggravate ex art. 640/2 n. 2 cod. pen. – dev’essere annullata con rinvio davanti ad altra sezione della Corte di Appello di Napoli per la sola rideterminazione della pena.
P.Q.M.
Qualificato il reato come truffa aggravata ex art. 640/2 n. 2 cod. pen. annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Napoli per la rideterminazione della pena rigetta nel resto.
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