Suprema CORTE DI CASSAZIONE
sezione II
SENTENZA 18 giugno 2014, n. 13882
Ritenuto in fatto
Con citazione notificata il 29 gennaio 1999, S.G. e V.E. convenivano in giudizio, dinnanzi al Tribunale di Pordenone, M.R. e T.P. esponendo che avevano stipulato un contratto di appalto avente ad oggetto la costruzione di una casa di civile abitazione in (OMISSIS) nel gennaio 1995 con il M.; che progettista era stato il geom. T.; che l’opera aveva evidenziato, a seguito di una perizia eseguita il 28 luglio 1997 dal geom. Z., gravi vizi dipesi sia dalla cattiva esecuzione dei lavori sia da difetti di progettazione e direzione, che erano stati denunciati il 4 agosto 1997. Tanto premesso gli attori chiedevano la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni quantificati in L. 133.407.738.
Si costituiva il M. eccependo in via preliminare la decadenza e la prescrizione dell’azione proposta, in quanto i lavori di costruzione del grezzo erano stati terminati nell’autunno del 1995, sicchè la denuncia era tardiva. Nel merito chiedeva il rigetto della domanda, assumendo che i lavori erano stati eseguiti secondo le precise indicazioni degli attori, che in corso d’opera avevano richiesto modifiche.
Si costituiva anche il T. eccependo la prescrizione e la decadenza dell’azione e chiedendo nel merito il rigetto della domanda, precisando che era stato sostituito dall’Ing. Q. nella direzione dei lavori sin dall’agosto 1995. Chiedeva comunque di essere autorizzato a chiamare in causa la Giuliana Assicurazioni s.p.a. per essere da questa manlevato.
Quest’ultima si costituiva e chiedeva il rigetto delle domande proposte nei suoi confronti, non rientrando i vizi denunciati nella garanzia assicurativa.
Espletata una c.t.u. ed istruita la causa a mezzo esame dei testi indotti dalle parti, l’adito Tribunale condannava il M. a risarcire agli attori la somma di Euro 30.295,36, oltre agli interessi e alle spese; condannava gli attori a rifondere le spese in favore del T. e quest’ultimo a pagare le spese della Giuliana Assicurazioni.
Proponeva appello il M., cui resistevano il S. e la V., i quali proponevano altresì appello incidentale chiedendo che la condanna venisse estesa anche al T.;
quest’ultimo si costituiva e chiedeva il rigetto dell’appello incidentale.
L’adita Corte d’appello di Trieste, con sentenza depositata il 4 novembre 2006, in parziale accoglimento dell’appello principale e in accoglimento di quello incidentale, condannava il M. e il T. in solido tra loro al pagamento della somma di Euro 22.548,51, oltre interessi e rivalutazione monetaria, e rideterminava le spese del giudizio.
La Corte d’appello rigettava in primo luogo i motivi con i quali si faceva valere la tardività della denuncia dei vizi. Premesso che la domanda proposta doveva essere qualificata come azione extracontrattuale ex art. 1669 c.c., e che quindi il termine prescrizionale era di dieci anni e quello di decadenza di un anno dalla scoperta dei vizi, la Corte riteneva che non vi fosse alcun elemento in atti per supporre che la consapevolezza, da parte dei committenti, della esistenza dei vizi denunciati, della loro gravità e della responsabilità dell’appaltatore e del progettista-direttore dei lavori potesse essere maturata prima della perizia consegnata dal geom. Z. agli attori stessi nel luglio 1997. Osservava, in particolare, che nella specie si trattava di vizi inerenti ad una costruzione, difficilmente apprezzabili in assenza di cognizioni specialistiche, e che la consapevolezza in capo ai committenti doveva ritenersi acquisita solo con la perizia dai medesimi richiesta al geom. Z.. Nè poteva ritenersi che l’avvenuto pagamento di un acconto o anche del saldo comportasse l’accettazione dell’opera, atteso che la mera presa in consegna dell’opera non equivale ad accettazione; del resto, il contratto di appalto prevedeva un’accettazione da effettuare mediante verifica in contraddittorio e stesura di un verbale.
Nel merito, la Corte rilevava che le conclusioni del CTU avevano evidenziato l’esistenza di sei gruppi di vizi, il più problematico dei quali era quello relativo al tetto. In proposito, la Corte riteneva che, come denunciato dall’appellante principale, il CTU fosse incorso in una duplicazione parziale del risarcimento, avendo incluso una componente sia per il rifacimento delle opere interessate, sia per la perdita di valore del fabbricato per effetto della erronea esecuzione della copertura. Nella specie, escluso che potesse procedersi alla esecuzione in forma specifica mediante rifacimento del tetto, trattandosi di attività eccessivamente onerosa, la Corte riteneva che agli appellati dovesse essere riconosciuto il danno da perdita di valore e non anche quello per la nuova esecuzione delle opere; sicchè dalla somma indicata complessivamente dal CTU doveva essere detratto l’importo di 15.000.000 di lire, computate a titolo di rifacimento del tetto.
Per il resto, la Corte d’appello dava atto della natura strutturale di tutti i vizi denunciati, i quali erano a tal punto correlati tra di loro da non consentire una distinzione tra vizi meno gravi (art. 1667 c.c.) e vizi più gravi, soggetti alla disciplina di cui all’art. 1669 c.c..
In ordine alla quantificazione dei danni la Corte d’appello rilevava che dalla relazione del CTU emergeva chiaramente che i difetti esaminati e valutati erano tutti di tipo strutturale e non avevano a che fare nè con le rifiniture fatte eseguire dai committenti da altre imprese, nè con la modificazione delle tramezzature interne denunciate al Comune come variante al progetto approvato ed eseguito dalla impresa del M.. Ed ancora, la Corte escludeva la rilevanza della deduzione del M., secondo cui alcuni dei difetti contestatigli sarebbero stati riferibili a modifiche richiestegli dai committenti, non avendo il M. provato che vi fosse stata una qualche modifica concordata tra le parti, nè che fosse intervenuta l’autorizzazione scritta da parte del committente alle modifiche apportate unilateralmente dall’appaltatore.
La Corte accoglieva infine l’appello incidentale dei committenti, rilevando che erroneamente il Tribunale aveva ritenuto applicabile la disciplina di cui all’art. 2226 c.c., atteso che l’azione proposta era un’azione ex art. 1669 c.c., soggetta al diverso termine di prescrizione decennale, non maturato nella specie, sicchè il progettista-direttore dei lavori era tenuto a rispondere in solido con l’appaltatore.
Per la cassazione di questa sentenza M.R. ha proposto ricorso sulla base di tre motivi; il T. ha proposto controricorso aderendo alle ragioni del ricorrente principale e ha a sua volta proposto ricorso incidentale affidato a due motivi; il S. e la V. hanno resistito con unico controricorso ad entrambi i ricorsi.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Deve preliminarmente essere disposta la riunione dei ricorsi in quanto rivolti avverso il medesimo provvedimento.
2. Con il primo motivo del ricorso principale, il ricorrente denuncia vizio di motivazione sul fatto controverso se determinati interventi inizialmente previsti siano stati omessi o variati su richiesta dei committenti, che in tal caso non avrebbero potuto pretendere il risarcimento loro liquidato, ovvero se ciò sia avvenuto per arbitraria iniziativa di esso ricorrente, con conseguente riconoscimento del danno ai committenti.
Il ricorrente sostiene, in particolare, di aver dedotto sin dalla sua costituzione in giudizio che le specifiche variazioni, in relazione alle quali erano stati ravvisati i vizi, erano state espressamente richieste dai committenti.
E tale circostanza, suscettibile di essere provata per testimoni, era emersa chiaramente dalla istruttoria testimoniale, soprattutto con riferimento alla modificazione della conformazione del tetto rispetto a quella prevista nel progetto. Ma la sentenza impugnata, osserva conclusivamente il ricorrente, non ha fatto minimamente cenno a dette risultanze istruttorie, affermando che egli non aveva provato le richieste di modificazioni formulate dai committenti, e ha riconosciuto il risarcimento anche per opere non eseguite dall’impresa o per variazioni effettuate su esplicita richiesta dei committenti.
3. Con il secondo motivo il ricorrente principale deduce violazione dell’art. 1669 c.c., e vizio di motivazione omessa o comunque insufficiente con riferimento alla motivazione con la quale la Corte d’appello ha ritenuto sussistente la gravità dei vizi ai sensi dell’art. 1669 cod. civ., sol perchè l’opera era stata eseguita al grezzo, potendo difetti meno gravi interessare solo le finiture.
A conclusione del motivo formula il seguente quesito di diritto: ‘se cioè possono ricondursi alla responsabilità ex art. 1669, quali gravi difetti o invece all’ipotesi dell’art. 1667, difformità d’un edificio realizzato al rustico emendabili all’atto delle successive finiture o comunque tali da non incidere sull’assetto strutturale e sulla stabilità e che non comportano menomazioni alla funzionalità e al godimento dell’immobile’.
4. Con il terzo motivo, M.R. denuncia violazione degli artt. 1667 e 1669 c.c., con riguardo ai termini di decadenza e di prescrizione, nonchè omessa e comunque insufficiente motivazione sul punto. Il ricorrente sostiene che la gran parte dei vizi ritenuti sussistenti non avessero incidenza strutturale, sicchè, in relazione ad essi, operava il regime della decadenza e della prescrizione di cui all’art. 1667 cod. civ. Sostiene, altresì, che la Corte d’appello avrebbe apoditticamente affermato la inesistenza in atti di elementi di prova in ordine ad una conoscenza dei vizi, da parte dei committenti, anteriore rispetto alla perizia del luglio 1997, tanto più che lo stesso CTU ing. L. aveva rilevato che alcuni difetti erano facilmente riscontrabili. Inoltre, risultava dagli atti che dopo aver revocato l’incarico al T. i committenti avevano affidato un incarico ad un ingegnere strutturista, il quale ebbe a verificare i lavori eseguiti, a proporre alcune modificazioni e a consentire il pagamento del saldo dovuto; ed ancora, in appello era stato acquisito un ulteriore progetto con varianti, in relazione al quale era intervenuta un’autorizzazione in sanatoria. In sostanza, prima del 1997 vi erano stati interventi di tecnici incaricati dai committenti, e tuttavia nessun rilievo relativo a vizi strutturali o a difformità rispetto al progetto originario era stato effettuato dai committenti stessi. Del resto, non a caso nella relazione del geom. Z. si legge che il S. ebbe a mostrargli vizi e difetti, con il che risultando ammessa una precedente conoscenza della esistenza di quei vizi e di quei difetti.
A conclusione del motivo il ricorrente formula il seguente quesito di diritto: ‘se cioè la documentata assistenza prestata ai committenti da parte di due tecnici con specifica competenza in materia edilizia (ingegnere strutturista e geometra) – il primo dei quali effettuò un controllo sulle opere eseguite, dispose dei correttivi e quindi liquidò il saldo, mentre il secondo predispose un progetto di variante – non implichino quella conoscenza dello stato dell’opera da cui decorrono i termini per la denunzia previsti dal 1667 e dal 1669’.
5. Con il primo motivo del proprio ricorso, il ricorrente incidentale T. deduce violazione degli artt. 345 e 112 c.p.c., nonchè il vizio di omessa motivazione. Il T. si duole del fatto che la Corte d’appello non abbia risposto alla sua eccezione di novità della domanda proposta in appello, di affermazione della sua responsabilità in qualità di direttore dei lavori, atteso che in primo grado gli attori avevano limitato la domanda alla sua posizione di progettista.
A conclusione del motivo il ricorrente incidentale formula il seguente quesito di diritto: ‘se in una causa di risarcimento danni per responsabilità del professionista, che abbia svolto funzioni di progettista e direttore dei lavori, la domanda volta a farne dichiarare la responsabilità in qualità di direttore dei lavori costituisca domanda nuova rispetto a quella iniziale proposta per affermare la sua responsabilità in qualità di progettista e debba pertanto ritenersi soggetta alle preclusioni di cui all’art. 345 c.p.c.; se, inoltre, l’omessa pronuncia in ordine all’eccezione di ius novorum in appello, ritualmente proposta in causa ai sensi dell’art. 345 c.p.c., costituisca violazione dell’art. 112 c.p.c., che impone al giudice di pronunciarsi su tutta la domanda’.
6. Con il secondo motivo, il ricorrente incidentale lamenta insufficienza e contraddittorietà della motivazione in relazione all’applicazione degli artt. 1669 e 2226 c.c., dolendosi in particolare della mancata esplicitazione delle ragioni per cui tutti i difetti rilevati avessero natura strutturale.
7. Il primo motivo del ricorso principale è infondato. Occorre premettere che ‘il vizio di omessa od insufficiente motivazione, denunciabile con ricorso per Cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, sussiste solo quando nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile una obiettiva deficienza del criterio logico che lo ha condotto alla formazione del proprio convincimento, mentre il vizio di contraddittoria motivazione presuppone che le ragioni poste a fondamento della decisione risultino sostanzialmente contrastanti in guisa da elidersi a vicenda e da non consentire l’individuazione della ratio decidendi, e cioè l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione adottata. Questi vizi non possono consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo a detto giudice individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge in cui un valore legale è assegnato alla prova’ (Cass. n. 17076 del 2007; Cass. n. 6064 del 2008).
Nella specie, la Corte d’appello, confermando la valutazione già espressa in proposito dal Tribunale, oggetto di censura con riguardo all’apprezzamento delle risultanze testimoniali in ordine alla prova della richiesta di mutamenti da parte dei committenti nella realizzazione del progetto, ha ritenuto che la detta prova non sia stata in realtà offerta dall’appaltatore; e ha soggiunto che la ipotizzata richiesta da parte dei committenti avrebbe dovuto essere provata per iscritto. Orbene, con il motivo in esame il ricorrente, nel mentre cerca di dimostrare attraverso una parziale riproduzione delle dichiarazioni dei testi, la rispondenza delle variazioni alle richieste dei committenti, omette di considerare che la Corte d’appello ha ritenuto che l’edificio realizzato dall’impresa del ricorrente era affetto da gravi vizi ai sensi dell’art. 1669 c.c., e, sulla base della relazione del c.t.u. ing. L., che i difetti esaminati erano tutti di tipo strutturale e non avevano a che vedere nè con le rifiniture fatte eseguire dai committenti da altre ditte nè con le modifiche alle tramezzature interne denunciate al Comune come variante al progetto approvato. Risulta, quindi, del tutto evidente la irrilevanza delle risultanze istruttorie delle quali il ricorrente lamenta la omessa valutazione, in quanto sia nel caso in cui le opere fossero state eseguite in conformità a quanto richiesto in corso d’opera dai committenti – come sostenuto dal ricorrente -, sia nell’ipotesi in cui le stesse fossero state realizzate dall’appaltatore a prescindere dalla specifica richiesta, non si vede quale potrebbe essere la incidenza del relativo accertamento in ordine alla riferibilità dei vizi accertati alla condotta dell’appaltatore e del progettista direttore dei lavori.
8. Il secondo motivo del ricorso principale è inammissibile.
Le censure del ricorrente, invero, si appuntano su apprezzamenti di fatto in ordine alla valutazione della rilevanza dei vizi riscontrati dal c.t.u. nell’edificio realizzato dall’impresa del ricorrente. La Corte d’appello, aderendo alle conclusioni del c.t.u., ha ritenuto che non fosse possibile distinguere, ai fini dell’apprezzamento dei vizi, tra quelli inerenti alla struttura e quelli riferibili alle rifiniture, pacificamente non eseguite dal M.. Il ricorrente prospetta, invece, una diversa ricostruzione, sostenendo che alcuni dei vizi accertati sarebbero stati rimediabili proprio in sede di rifinitura.
In tal modo, peraltro, il ricorrente muove da una ricostruzione in fatto diversa da quella recepita – con motivazione immune da vizi logici o giuridici – dalla Corte d’appello; e tale difetto nella impostazione della censura risulta evidente dalla formulazione del quesito di diritto, nel quale, appunto, si chiede di affermare se i vizi accertati fossero riferibili all’art. 1669 c.c., o non piuttosto alla ipotesi di cui all’art. 1667 c.c., assumendo come accertate circostanze di fatto invece escluse dalla sentenza impugnata.
Del resto, non può non rilevarsi che, come chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte, ‘il difetto di costruzione che, a norma dell’art. 1669 c.c., legittima il committente all’azione di responsabilità extracontrattuale nei confronti dell’appaltatore, come del progettista, può consistere in una qualsiasi alterazione, conseguente ad un’insoddisfacente realizzazione dell’opera, che, pur non riguardando parti essenziali della stessa (e perciò non determinandone la rovina o il pericolo di rovina), bensì quegli elementi accessori o secondari che ne consentono l’impiego duraturo cui è destinata, incida negativamente e in modo considerevole sul godimento dell’immobile medesimo’ (Cass. n. 20307 del 2011). In sostanza, ‘i gravi difetti che, ai sensi dell’art. 1669 c.c., fanno sorgere la responsabilità dell’appaltatore nei confronti del committente e dei suoi aventi causa consistono in quelle alterazioni che, in modo apprezzabile, riducono il godimento del bene nella sua globalità, pregiudicandone la normale utilizzazione, in relazione alla sua funzione economica e pratica e secondo la sua intrinseca natura’ (Cass. n. 19868 del 2009).
E tale accertamento è stato dalla Corte d’appello effettuato, sulla scorta delle risultanza della c.t.u., con riferimento ai vizi riferibili alle opere eseguite dall’impresa del ricorrente.
9. Il terzo motivo del ricorso principale è infondato in tutti i profili in cui si articola.
La Corte d’appello ha, innanzi tutto, come rilevato, ritenuto che i vizi riscontrati dal c.t.u. fossero ascrivibili a quelli di cui all’art. 1669 c.c., osservando, in proposito, che la qualificazione della domanda come domanda ex art. 1669 c.c., non era stata contestata dalle parti convenute, era stata recepita dal giudice di primo grado, e non aveva formato oggetto di specifica impugnazione.
Ha quindi, facendo applicazione dei principi affermati da questa Corte, ritenuto che ‘il termine di un anno per la denuncia del pericolo di rovina o di gravi difetti della costruzione di un immobile, previsto dall’art. 1669 c.c., a pena di decadenza dall’azione di responsabilità contro l’appaltatore, decorre dal giorno in cui il committente consegua un apprezzabile grado di conoscenza oggettiva della gravità dei difetti e della loro derivazione causale dall’imperfetta esecuzione dell’opera, non essendo sufficienti, viceversa, manifestazioni di scarsa rilevanza e semplici sospetti’ (Cass. n. 81 del 2000), e che, ‘la conoscenza completa idonea a provocare la decorrenza del doppio termine (decadenziale e prescrizionale) deve ritenersi acquisita, in assenza di anteriori esaustivi elementi, solo all’atto dell’acquisizione delle disposte relazioni peritali’ (Cass. n. 11740 del 2003), non potendosi onerare il danneggiato della proposizione di azioni generiche a carattere esplorativo.
Ha poi verificato che, nel caso di specie, non era stata fornita, dall’appaltatore e dall’altro convenuto, la prova che i committenti avessero acquisito la consapevolezza della esistenza dei gravi difetti in un momento antecedente all’espletamento, su loro incarico, degli accertamenti da parte del geom. Z..
Orbene, deve qui rilevarsi che, secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 81 del 2000, cit., cui adde Cass. n. 4622 del 2002;
Cass. n. 2460 del 2008), l’accertamento del momento nel quale la conoscenza completa dei vizi o gravi difetti sia stata acquisita, ‘involgendo un apprezzamento di fatto, è riservato al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione congrua ed esente da vizi logici o da errori di diritto’.
Nel caso di specie, la Corte d’appello, con motivazione congrua, logica ed immune dai denunciati vizi, ha escluso l’esistenza in atti della prova che la detta conoscenza potesse essere stata acquista prima del momento indicato dai committenti. Le circostanze indicate dal ricorrente onde sostenere che la detta conoscenza era in realtà stata acquisita in precedenza non appaiono, secondo la stessa prospettazione del ricorrente, idonee ad indurre a differenti conclusioni, atteso che dal fatto che i committenti abbiano, dopo la conclusione dei lavori da parte dell’impresa del ricorrente, incaricato altri professionisti al fine di determinare l’importo ancora dovuto ovvero per presentare un progetto di variante presso la competente amministrazione comunale, non comporta necessariamente che i detti professionisti dovessero svolgere quegli accertamenti, poi svolti dal geom. Z., dai quali soltanto è emersa la riferibilità dei vizi e dei difetti all’attività dell’impresa del ricorrente e del progettista e direttore dei lavori. Del tutto plausibilmente, poi, la Corte d’appello ha ritenuto che la presa in consegna dell’opera non comportasse accettazione della stessa, atteso che il contratto di appalto prevedeva che il saldo dei lavori avvenisse a sessanta giorni dal compimento dei lavori previsti e contemplati nel preventivo, su verifica dell’impresa in contraddittorio con la direzione dei lavori, che avrebbero dovuto redigere e sottoscrivere apposito verbale di regolare esecuzione a regola d’arte. In proposito giova ricordare che la Corte d’appello si è attenuta al principio per cui ‘la presa in consegna dell’opera da parte del committente non equivale, ipso facto, ad accettazione della medesima senza riserve, con conseguente rinunzia all’azione per i difetti conosciuti o conoscibili della stessa, atteso che, integrando la ricezione senza riserve della res una ipotesi di accettazione tacita, occorre in concreto stabilire se, nel comportamento delle parti, siano o meno ravvisabili elementi contrastanti con la presunta volontà di accettare l’opera’ (Cass. n. 5121 del 1998; Cass. n. 9567 del 2002).
Il quesito di diritto con il quale si conclude l’illustrazione del motivo risulta, infine, affetto dai medesimi vizi di quello formulato a conclusione del secondo motivo, atteso che il ricorrente postula come accertata una circostanza – quella che i committenti avrebbero conferito un incarico professionale ad altri professionisti prima di quello affidato al geom. Z., volto alla ricerca di vizi o difetti – che la sentenza impugnata ha motivatamente escluso.
Il ricorso principale deve essere quindi rigettato.
11. Ad analoga conclusione deve pervenirsi per quanto concerne il ricorso incidentale.
11.1. Quanto al primo motivo, è appena il caso di osservare che dall’esame degli atti, al quale il Collegio può procedere in considerazione della natura della censura proposta, emerge che la qualità in capo al T. non solo di progettista, ma anche di direttore dei lavori, era stata esplicitata dai committenti sin dall’atto di citazione. Il fatto che nelle conclusioni di tale atto fosse stata sollecitata la condanna dei convenuti per i vizi e i difetti relativamente alla progettazione e costruzione dell’edificio commissionato dagli attori, odierni resistenti, non legittima affatto a ritenere che la Corte d’appello, nell’affermare la responsabilità anche del T. non solo come progettista (per avere omesso di presentare al committente e all’impresa esecutrice un progetto strutturale, e di specificare con appositi grafici alcuni importanti particolari costruttivi, concorrendo in tal modo a causare gli accertati difetti strutturali) ma anche come direttore dei lavori (per non avere vigilato nè sull’esatta realizzazione del progetto nè per evitare errori gravi nell’esecuzione delle opere in generale), abbia accolto una domanda non proposta.
11.2. Quanto al secondo motivo, deve rilevarsi che la Corte d’appello ha fatto corretta applicazione del principio per cui ‘quando l’opera eseguita in appalto presenta gravi difetti dipendenti da errata progettazione, il progettista è responsabile, con l’appaltatore, verso il committente, ai sensi dell’art. 1669 cod. civ., a nulla rilevando in contrario la natura e la diversità dei contratti cui si ricollega la responsabilità, perchè l’appaltatore ed il progettista, quando con le rispettive azioni od omissioni – costituenti autonomi e distinti illeciti o violazioni di norme giuridiche diverse, concorrono in modo efficiente a produrre uno degli eventi dannosi tipici indicati nell’art. 1669 c.c., si rendono entrambi responsabili dell’unico illecito extracontrattuale, e rispondono entrambi, a detto titolo, del danno cagionato. Trattandosi di responsabilità extracontrattuale, specificamente regolata anche in ordine alla decadenza ed alla prescrizione, non spiega alcun rilievo la disciplina dettata dagli artt. 2226 e 2330 c.c., e si rivela ininfluente la natura dell’obbligazione – se di risultato o di mezzi – che il professionista assume verso il cliente committente dell’opera data in appalto’ (Cass. n. 7992 del 1997; Cass. n. 8016 del 2012). Ovviamente, il principio trova applicazione anche nell’ipotesi in cui venga fatta valere la responsabilità, ex art. 1669 c.c., del direttore dei lavori; tanto più quando, come nel caso di specie, il direttore dei lavori sia stato anche progettista.
Nè può ritenersi sussistente la denunciata contraddittorietà della motivazione, atteso che la Corte d’appello ha chiaramente e univocamente ritenuto inquadrabili i vizi e difetti riscontrati dal c.t.u. nell’ambito di applicazione dell’art. 1669 c.c.; e tale valutazione risulta immune non solo dalle denunce svolte dal ricorrente principale, ma anche da quelle del ricorrente incidentale.
11.3 In conclusione, anche il ricorso incidentale deve essere rigettato.
12. In applicazione del principio della soccombenza, il ricorrente principale e quello incidentale devono essere condannati, in solido tra loro in considerazione della unicità dell’atto difensivo dei resistenti, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta; condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 3.000,00 per compensi, oltre agli accessori di legge.
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