Suprema Corte di Cassazione
sezione II
sentenza 15ottobre 2014, n. 43130
Considerato in fatto
1. Con ordinanza in data 15 gennaio 2014 il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Salerno rigettava parzialmente la richiesta di applicazione di misure cautelari nei confronti di vari soggetti sottoposti ad indagini per una serie di delitti di riciclaggio. Rigettava, in particolare, la richiesta di applicazione nei confronti della commercialista C.T. della misura cautelare della custodia in carcere in ordine ai reati di riciclaggio contestati al capo C in concorso con S.N. e al capo F in concorso con lo stesso S. e il nipote di quest’ultimo V.E. (nei confronti dello S. , prelato con il titolo di monsignore sottoposto ad indagini anche per altri reati riciclaggio, veniva invece disposta l’applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari), con riferimento ad alcune simulate donazioni finanziarie di terzi finalizzate all’indebita introduzione nello Stato di denaro proveniente dai conti IOR dello S. e destinato all’estinzione di un mutuo gravante su una proprietà immobiliare dello stesso prelato. Pur ritenendo la gravità indiziaria, il giudice per le indagini preliminari riteneva che fosse insussistente nei confronti della C. il pericolo di reiterazione della condotta criminosa sia per l’occasionalità della condotta criminosa, sia perché la C. era stata allontanata e sostituita con altro commercialista dal coindagato S. , il quale era giunto a sospettare la professionista e il suo compagno L.M. di essere gli autori del furto di opere d’arte commesso nel suo appartamento di (…).
2. Con ordinanza in data 19 febbraio 2014 il Tribunale di Salerno ha parzialmente accolto l’appello del pubblico ministero avverso la predetta ordinanza dichiarando l’inammissibilità per intervenuta rinuncia relativamente alla posizione dello S. e del coindagato N. e disponendo nei confronti della C. la misura cautelare degli arresti domiciliari con il divieto di comunicare con persone diverse da quelle che con lei coabitano o che la assistono, sospendendo l’applicazione della misura fino alla sua irrevocabilità.
3. L’indagata C. ha proposto, tramite i difensori, ricorso per cassazione.
Con il ricorso si deduce:
1) la violazione dell’art. 274 lett. c) cod.proc.pen. e la mancanza e manifesta illogicità della motivazione per essere stata ritenuta sussistente la pericolosità dell’indagata anche solo generica e non legata ai suoi rapporti con monsignor S. , senza peraltro individuare condotte concrete rivelatrici dell’alta probabilità di commissione di reati della stessa specie e senza una approfondita valutazione della personalità della C. desunta, indipendentemente dalla gravità del fatto-reato per cui si procede, da comportamenti o atti concreti o dai precedenti penali; si sostiene che nel provvedimento impugnato si sarebbe omesso di considerare il lasso di tempo intercorso dalla presunta commissione dei fatti; indebitamente sarebbe stato valorizzato solo il fatto contestato, tralasciando di considerare circostanze concrete che escludevano il pericolo cautelare, alcune già rilevate dal giudice per le indagini preliminari nell’ordinanza appellata dal pubblico ministero e altre rappresentate nella memoria difensiva;
2) la violazione dell’art. 275 cod.proc.pen. e la mancanza e manifesta illogicità della motivazione quanto alla scelta della misura cautelare avvenuta in palese violazione dei criteri di adeguatezza, proporzionalità e minor sacrificio della libertà personale, senza tener conto della particolarità del caso e dell’impossibilità per la C. di entrare nuovamente in contatto con una persona come monsignor S. le cui disinvolte iniziative negoziali e finanziarie erano state agevolate dal rapporto di conoscenza e frequentazione con famiglie di imprenditori internazionali e dalla possibilità di accesso incontrollato allo IOR per le funzioni di amministratore dell’ente di gestione dei beni della Santa sede (APSA).
Ritenuto in diritto
4. Il ricorso va rigettato.
4.1. Il primo motivo è infondato.
Va premesso che la C. , secondo l’ipotesi accusatoria (non contestata dalla difesa), avrebbe partecipato attivamente, nella sua qualità di commercialista, alle operazioni di schermatura e ripulitura del denaro di provenienza illecita riferibile al coindagato S. .
Nel provvedimento impugnato il Tribunale – dopo una rassegna degli elementi posti a fondamento della gravità indiziaria che nemmeno la difesa contesta essendo il ricorso limitato alla confutazione della ritenuta sussistenza dell’esigenza cautelare prevista dall’art. 274 lett. c) cod.proc.pen. e dei criteri applicati per la scelta della misura – ha sostenuto che il pericolo di reiterazione di analoghe condotte criminose era, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice per le indagini preliminari, “concreto, elevato, persistente, non relegabile ad un ambito strettamente professionale della C. e, comunque, non collegabile solamente alla persona del monsignore S. , tenuto conto innanzitutto delle modalità delle condotte delittuose poste in essere che ne evidenziano una pericolosità anche generica e non soltanto canalizzata verso la persona dello S. “. Il giudice di merito ha quindi individuato le specifiche modalità delle condotte ascritte alla C. , in particolare di quella ascritta al capo C (ricezione da parte dello S. di 588.248,51 Euro in contanti prelevati dal prelato dal suo conto IOR, poi suddivise in cinquantasei “buste chiuse” contenenti importi non superiori a 10.000,00 Euro e consegnate a cinquanta soggetti compiacenti, scelti anche tra parenti, in relazione ai quali la commercialista aveva predisposto false certificazioni di donazione al precipuo scopo di dissimulare l’operazione di estinzione del mutuo ipotecario e ostacolare l’identificazione del denaro non “tracciato”, recandosi anche personalmente quale procuratore speciale del monsignore nell’istituto bancario romano mutuante per effettuare il deposito della somma necessaria) che denotava, anche per lo svolgimento di prestazioni non riconducibili all’ordinaria attività professionale di commercialista, una “radicata ed elevata inclinazione delinquenziale alla commissione di fattispecie criminose analoghe, facilità sfrontatezza, propensioni non comuni ad ideare ed attuare meccanismi ingannevoli e complessi volti a creare situazioni simulate ed artificiose per ripulire denaro di illecita provenienza”. Non ha mancato il giudice dell’appello cautelare di evidenziare che la C. non aveva negato la sua disponibilità per un’operazione illecita analoga, da attuare con le medesime modalità, come si evinceva dalla conversazione telefonica intercettata tra la C. e lo S. richiamata anche dal giudice per le indagini preliminari nell’ordinanza appellata.
Il giudice di merito ha così operato una valutazione che, in modo globale, ha preso in considerazione entrambi i criteri direttivi (specifiche modalità e circostanze del fatto, personalità della persona sottoposta ad indagini desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali) indicati dall’art. 274 lett. c) cod.proc.pen. (Cass. sez. II 23 ottobre 2012 n. 4820, Mellucci; sez. V 17 aprile 2009 n. 21441, Fiori; sez. IV 1 aprile 2004 n. 37566, Albanese). Lo stato di incensuratezza non dimostra, infatti automaticamente l’assenza di pericolosita, potendo questa essere desunta, come espressamente previsto dall’art. 274 lett. c) cod.proc.pen., dai comportamenti e dagli atti concreti dell’agente quale specifico elemento significativo per valutare la personalità dell’agente (Cass. sez. VI 2 ottobre 1998 n.2856, Mocci; sez.VI 21 novembre 2001 n. 45542, Russo; sez. III 13 novembre 2003 n. 48502, Plasencia; sez. IV 6 novembre 2003 n. 12150, Barbieri; sez. V 5 novembre 2004 n. 49373, Esposito; sez. III 18 marzo 2004 n. 19045, Ristia; sez. IV 19 gennaio 2005 n. 11179, Mirando; sez. IV 3 luglio 2007 n. 34271, Cavallari). Ai fini dell’affermazione della sussistenza del pericolo di reiterazione del reato, inoltre, questa Corte ha affermato che ben possono porsi a fondamento della valutazione della personalità dell’indagato le stesse modalità del fatto da cui è stata dedotta anche la gravità (Cass. sez. V 12 marzo 2013 n. 35265, Castelliti).
Quanto alla circostanza che lo S. abbia sostituito la commercialista C. con altro professionista, formalmente nell’anno 2013, il Tribunale ha rilevato che la cessazione del rapporto professionale è formalmente avvenuta solo nell’anno 2013 e che la C. risulta tuttora debitrice nei confronti del prelato che le aveva prestato una somma di denaro in corso di restituzione, aggiungendo peraltro che “la pericolosità della C. …non appare affatto canalizzata solo nei confronti dello S. o comunque relegabile e circoscrivibile ad un ambito strettamente professionale”. La Corte rileva che è comunque consolidato il principio giurisprudenziale – condiviso dal collegio, richiamato espressamente anche nell’ordinanza impugnata e riaffermato anche di recente (Cass. sez. VI 5 aprile 2013 n. 28618, Pmt in proc. Vignali; sez. IV 10 aprile 2012 n. 18851, P.M., p.o. e Schettino; sez. I 3 giugno 2009 n. 25214, Pallucchini; sez. III 26 marzo 2004 n. 26833, P.M. in proc. Torsello; sez. I 20 gennaio 2004 n. 10347. Catanzaro)- che in tema di misure cautelari personali, ai fini della valutazione del pericolo di reiterazione del reato, il requisito della concretezza non si identifica con quello dell’attualità, derivante dalla riconosciuta esistenza di occasioni prossime favorevoli alla commissione di nuovi reati, ma con quello dell’esistenza di elementi concreti sulla base dei quali è possibile affermare che l’indagato possa commettere delitti della stessa specie di quello per cui si procede, e cioè che offendono lo stesso bene giuridico.
4.2. Il secondo motivo è del pari infondato.
Come rilevato nell’ordinanza impugnata, la propensione a commettere delitti della stessa specie non poteva essere venuta meno per effetto del decorso del tempo, peraltro insignificante nel caso di specie essendo la seconda condotta delittuosa, contestata al capo F, risalente all’anno 2012. Peraltro il tempo trascorso dalla commissione del reato non esclude automaticamente l’attualità e la concretezza del pericolo di reiterazione, che può essere desunto dai criteri stabiliti dall’art. 133 cod.pen., tra i quali le modalità e la gravità del fatto, sicché deve essere considerato non il tipo di reato o la sua ipotetica gravità, ma situazioni correlate con i fatti del procedimento ed inerenti ad elementi sintomatici della pericolosità dell’indagato (Cass. sez. II 8 ottobre 2013 n. 49453, Scortechini e altro; sez. IV 24 gennaio 2013 n. 6797, Canessa; sez. IV 26 giugno 2007 n. 6717, Rocchetti).
Nell’ordinanza impugnata è specificamente e congruamente motivata, inoltre, l’inadeguatezza di altre misure cautelari meno afflittive di quella degli arresti domiciliari (il pubblico ministero aveva richiesto al giudice per le indagini preliminari la misura della custodia cautelare in carcere), ritenute inidonee a fronteggiare nel caso concreto il pericolo di recidivanza (misura interdittiva, che spiegherebbe la sua concreta utilità solo con riferimento al pericolo di recidiva circoscritto all’ambito professionale; misure non custodiali, che lascerebbero l’indagata libera di operare e di entrare in contatto con qualsivoglia soggetto senza particolari controlli).
5. Al rigetto del ricorso consegue ex art. 616 c.p.p. la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
La cancelleria dovrà provvedere a norma dell’art.28 Reg. esec. cod.proc.pen..
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Si provveda a norma dell’art.28 Reg. esec. cod.proc.pen..
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