Suprema Corte di Cassazione
sezione II
sentenza 14 gennaio 2015, n. 1388
Ritenuto in fatto
Con la sentenza in epigrafe la corte di appello di Catania ha confermato la sentenza del tribunale di Caltagirone in data 14/4/2001, appellata dall’odierno ricorrente, di condanna dello stesso per il delitto di estorsione tentata per essere il B. entrato in un esercizio commerciale, per aver insistito per ottenere un esborso di denaro dal negoziante, per avere a tal punto pesantemente minacciato lo stesso ingaggiando infine una colluttazione, all’esito della quale si allontanava dal luogo del fatto. Nel ricorso presentato dall’imputatosi lamenta violazione di legge in relazione all’art. 56 cod. pen. in ordine al giudizio di penale responsabilità diffusamente argomentando in punto di diritto la qualificazione del fatto in termini di desistenza volontaria, o al pìù di recesso attivo.
La critica finale investe la pena, ritenuta eccessiva.
Considerato in diritto
La manifesta infondatezza dei ricorso discende da quanto segue.
In generale deve osservarsi che in tema di tentativo, può configurarsi la desistenza volontaria e il recesso attivo quando l’autore inverta con modalità inequivoche la situazione di cui ha ancora la piena disponibilità, il pieno dominio.
In particolare, l’ipotesi della desistenza volontaria presuppone una determinazione da parte del soggetto agente di non proseguire nell’azione criminosa indipendentemente dall’intervento di cause esterne che impediscano comunque la prosecuzione dell’azione o la rendano vana (esclusa, nella specie, la sussistenza della desistenza nella condotta dell’imputato che, entrato in un negozio brandendo all’indirizzo del commerciante un coltello dal manico nero, intimandogli di consegnargli tutti i soldi che aveva, era uscito precipitosamente perché la vittima sottrattasi alla sua signoria temporanea era riuscita a guadagnare la fuga, uscire dal negozio e chiamare in soccorso il commerciante esercente l’attività accanto alla sua) (Cass. sez. 2, 23.5.2014, n. 25681). Nel caso di specie, la condotte delittuosa è stata interrotta dalla decisione della vittima di venire alle mani con il processo aggressore.
Si ha recesso attivo quando, ad attività criminosa compiuta, e mentre è in svolgimento l’ormai autonomo processo naturale (che è in rapporto necessario di causa ed effetto tra una determinata condotta ed un determinato effetto cui la prima mette capo), l’agente si riattiva, interrompendo tale processo, così da impedire il verificarsi dell’evento (nella specie l’imputato, immediatamente
dopo aver colpito la vittima cagionandone gravissime lesioni, si era adoperato per soccorrerla, per un verso frenando l’emorragia dalle ferite con un asciugamano bagnato d’acqua avvolto attorno al capo e, per altro verso, altrettanto immediatamente adoperandosi per consentire il pronto intervento dei sanitari e di una ambulanza. Tale condotta aveva consentito il ricovero della vittima in ospedale e l’intervento chirurgico in tempi estremamente ravvicinati rispetto all’insorgenza delle patologie cagionate, dovendo, pertanto, essere preso in considerazione dai giudici del merito per stabilire la sussistenza gli estremi della diminuente di cui all’art. 56, comma 4, c.p.) (Cass. sez. 1,28/3/2014, n. 16274).
Ne discende l’inconfigurabilità dell’azione in termini di recesso attivo non essendo la stessa giunta al compimento attesa la violenta reazione della vittima.
Sul trattamento sanzionatorio, comunque ritenuto eccessivo, deve rilevarsi che il giudice d’appello, con motivazione congrua ed esaustiva, anche previo specifico esame degli argomenti difensivi attualmente riproposti, è giunto a una valutazione di merito come tale insindacabile nel giudizio di legittimità, quando – come nel caso di specie – il metodo di valutazione delle prove sia conforme ai principi giurisprudenziali e l’argomentare scevro da vizi logici (Cass. pen. sez. un., 24 novembre 1999, Spina, 214794), rilevando in particolare la sussistenza di precedenti penali, la prognosi negativa sulla personalità dell’imputato e la proporzione della pena inflitta alla gravità del fatto commesso.
Ne consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che, considerati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 1000.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000 in favore della Cassa delle ammende.
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