Suprema Corte di Cassazione
sezione I
sentenza 6 febbraio 2015, n. 5697
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CORTESE Arturo – Presidente
Dott. CAIAZZO Luigi – Consigliere
Dott. CAVALLO Aldo – rel. Consigliere
Dott. BONITO Francesco Maria – Consigliere
Dott. MAGI Raffaello – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA;
nei confronti di:
(OMISSIS) N. IL (OMISSIS);
avverso l’ordinanza n. 7316/2013 GIUD. SORVEGLIANZA di VENEZIA, del 06/02/2014;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. ALDO CAVALLO;
lette le conclusioni del PG Dott. Antonio Gialanella, il quale ha chiesto di qualificare il ricorso come reclamo.
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CORTESE Arturo – Presidente
Dott. CAIAZZO Luigi – Consigliere
Dott. CAVALLO Aldo – rel. Consigliere
Dott. BONITO Francesco Maria – Consigliere
Dott. MAGI Raffaello – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA;
nei confronti di:
(OMISSIS) N. IL (OMISSIS);
avverso l’ordinanza n. 7316/2013 GIUD. SORVEGLIANZA di VENEZIA, del 06/02/2014;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. ALDO CAVALLO;
lette le conclusioni del PG Dott. Antonio Gialanella, il quale ha chiesto di qualificare il ricorso come reclamo.
RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza, deliberata il 6 febbraio 2014, il Magistrato di sorveglianza di Venezia, in relazione al reclamo del detenuto in epigrafe indicato, deliberando in contraddittorio con l’Amministrazione penitenziaria, costituitasi e resistente con memoria del 27 gennaio 2014, ha disposto l’allocazione del reclamante presso una stanza di pernottamento, con superficie calpestabile pro capite non inferiore a tre metri quadrati; ha rigettato la ulteriore istanze dell’interessato di assegnazione a cella di piu’ ampia superficie e le doglianze in ordine ai servizi igienici, alle condizioni di illuminazione e di areazione, alla durata della permanenza giornaliera fuori cella; ha, infine, dichiarato non doversi procedere al regolamento delle spese del procedimento.
1.1 In particolare il Magistrato di sorveglianza, sulla base dei dati forniti dalla Amministrazione penitenziaria, in ordine alla “metratura delle stanze di pernottamento” nelle quali e’ stato ristretto, di volta in volta, il reclamante, allo “spazio occupato dalle suppellettili” e al numero degli occupanti, ha accertato che “sempre o quasi sempre” e “anche senza tenere conto dell’ingombro costituito da letto, armadio e lavabo”, lo spazio intramurario assicurato al detenuto e ai compagni di cella era inferiore a tre metri quadrati pro capite.
1.2 Quindi, pur riconosciuta l’esattezza del rilievo della Avvocatura distrettuale dello Stato sul punto che “nessuna norma di legge prevede la indicazione numerica della superficie che deve avere la cella per potere essere considerata adeguata e sufficiente alla al trattamento umano del detenuto”, il Giudice a quo ha richiamato i criteri affermati dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo e, in particolare, dalla sentenza pilota dell’8 gennaio 2013, Torreggiani, circa la determinazione dello “spazio vitale minimo” delle celle “al di sotto del quale … e’ ravvisabile la patente violazione” del divieto dei trattamenti inumani o degradanti stabilito dall’articolo 3 CEDU.
E ha concluso per la fondatezza della doglianza dei reclamante, circa la insufficienza della ampiezza della camera di pernottamento e la inosservanza da parte della Amministrazione Penitenziaria della disposizione dell’articolo 6 dell’Ordinamento penitenziario.
1.3 In ordine al regolamento delle spese, il Magistrato di sorveglianza ha divisato che la natura del procedimento “riconducibile a quello di esecuzione” esclude la applicazione del principio della soccombenza.
2. Il Ministero della Giustizia, in persona del Ministro in carica pro tempore, organicamente rappresentato e legalmente difeso dalla competente Avvocatura distrettuale dello Stato di Venezia, ha proposto ricorso per cassazione mediante atto recante la data del 19 febbraio 2014 (depositato il 20 febbraio 2014), col quale ha sviluppato due motivi.
2.1 Con il primo motivo di ricorso l’Avvocatura distrettuale ha denunziato violazione degli articoli 3, 46 CEDU, dell’articolo 10 Costituzione, dell’articolo 6 dell’Ordinamento penitenziario e del Decreto del Presidente della Repubblica 25 marzo 1998, n. 138, Allegato C.
Dopo aver censurato che l’accertamento del Magistrato di sorveglianza sul punto che “la superficie della cella in cui il reclamante e’ ristretto fosse inferiore a tre metri quadrati”, sarebbe stato non puntuale, bensi’ “desunto in base a una valutazione di massima di natura probabilistica”, la ricorrente nega, con vari argomenti e con richiamo alla sentenza della Corte EDU, 5 marzo 2012, caso Teilissi, che l’Amministrazione penitenziaria sia obbligata “ad assegnare il detenuto a spazi netti non inferiori a tre meri quadrati”; e oppone che si deve, invece, tenere conto della superficie lorda dei vani e, a tal fine, conteggiarsi “persine lo spessore dei muri interni e perimetrali sino a cinquanta centimetri”, secondo le disposizioni che disciplinano il computo della superficie catastale.
2.2 Con il secondo motivo di ricorso l’Avvocatura distrettuale ha denunziato violazione degli articoli 90, 91, 92 e 112 c.p.c., articoli 8 e 158 del Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, approvato con Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, censurando l’omesso regolamento delle spese del procedimento,
3. Il Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte suprema di cassazione, nella sua requisitoria in atti, ha osservato: il reclamo del detenuto, riguardando diritti soggettivi del detenuto deve ritenersi senz’altro proposto ai sensi dell’articolo 35 bis, dell’Ordinamento penitenziario; tale disposizione, successivamente alla proposizione del reclamo, ha subito delle modifiche che prevedono che avverso il provvedimento del magistrato di sorveglianza e’ ammesso reclamo al tribunale di sorveglianza; in assenza di una normativa transitoria occorre fare riferimento al principio tempus regit actum (in base al quale vanno applicate le regole sulla competenza vigenti al tempo in cui una determinata attivita’ giurisdizionale deve essere compiuta), sicche’ le nuove disposizioni devono ritenersi applicabili a tutti i procedimenti pendenti, con la conseguenza che il ricorso deve essere qualificato come reclamo al Tribunale di sorveglianza, con conseguente trasmissione degli atti a quell’ufficio.
1.1 In particolare il Magistrato di sorveglianza, sulla base dei dati forniti dalla Amministrazione penitenziaria, in ordine alla “metratura delle stanze di pernottamento” nelle quali e’ stato ristretto, di volta in volta, il reclamante, allo “spazio occupato dalle suppellettili” e al numero degli occupanti, ha accertato che “sempre o quasi sempre” e “anche senza tenere conto dell’ingombro costituito da letto, armadio e lavabo”, lo spazio intramurario assicurato al detenuto e ai compagni di cella era inferiore a tre metri quadrati pro capite.
1.2 Quindi, pur riconosciuta l’esattezza del rilievo della Avvocatura distrettuale dello Stato sul punto che “nessuna norma di legge prevede la indicazione numerica della superficie che deve avere la cella per potere essere considerata adeguata e sufficiente alla al trattamento umano del detenuto”, il Giudice a quo ha richiamato i criteri affermati dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo e, in particolare, dalla sentenza pilota dell’8 gennaio 2013, Torreggiani, circa la determinazione dello “spazio vitale minimo” delle celle “al di sotto del quale … e’ ravvisabile la patente violazione” del divieto dei trattamenti inumani o degradanti stabilito dall’articolo 3 CEDU.
E ha concluso per la fondatezza della doglianza dei reclamante, circa la insufficienza della ampiezza della camera di pernottamento e la inosservanza da parte della Amministrazione Penitenziaria della disposizione dell’articolo 6 dell’Ordinamento penitenziario.
1.3 In ordine al regolamento delle spese, il Magistrato di sorveglianza ha divisato che la natura del procedimento “riconducibile a quello di esecuzione” esclude la applicazione del principio della soccombenza.
2. Il Ministero della Giustizia, in persona del Ministro in carica pro tempore, organicamente rappresentato e legalmente difeso dalla competente Avvocatura distrettuale dello Stato di Venezia, ha proposto ricorso per cassazione mediante atto recante la data del 19 febbraio 2014 (depositato il 20 febbraio 2014), col quale ha sviluppato due motivi.
2.1 Con il primo motivo di ricorso l’Avvocatura distrettuale ha denunziato violazione degli articoli 3, 46 CEDU, dell’articolo 10 Costituzione, dell’articolo 6 dell’Ordinamento penitenziario e del Decreto del Presidente della Repubblica 25 marzo 1998, n. 138, Allegato C.
Dopo aver censurato che l’accertamento del Magistrato di sorveglianza sul punto che “la superficie della cella in cui il reclamante e’ ristretto fosse inferiore a tre metri quadrati”, sarebbe stato non puntuale, bensi’ “desunto in base a una valutazione di massima di natura probabilistica”, la ricorrente nega, con vari argomenti e con richiamo alla sentenza della Corte EDU, 5 marzo 2012, caso Teilissi, che l’Amministrazione penitenziaria sia obbligata “ad assegnare il detenuto a spazi netti non inferiori a tre meri quadrati”; e oppone che si deve, invece, tenere conto della superficie lorda dei vani e, a tal fine, conteggiarsi “persine lo spessore dei muri interni e perimetrali sino a cinquanta centimetri”, secondo le disposizioni che disciplinano il computo della superficie catastale.
2.2 Con il secondo motivo di ricorso l’Avvocatura distrettuale ha denunziato violazione degli articoli 90, 91, 92 e 112 c.p.c., articoli 8 e 158 del Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, approvato con Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, censurando l’omesso regolamento delle spese del procedimento,
3. Il Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte suprema di cassazione, nella sua requisitoria in atti, ha osservato: il reclamo del detenuto, riguardando diritti soggettivi del detenuto deve ritenersi senz’altro proposto ai sensi dell’articolo 35 bis, dell’Ordinamento penitenziario; tale disposizione, successivamente alla proposizione del reclamo, ha subito delle modifiche che prevedono che avverso il provvedimento del magistrato di sorveglianza e’ ammesso reclamo al tribunale di sorveglianza; in assenza di una normativa transitoria occorre fare riferimento al principio tempus regit actum (in base al quale vanno applicate le regole sulla competenza vigenti al tempo in cui una determinata attivita’ giurisdizionale deve essere compiuta), sicche’ le nuove disposizioni devono ritenersi applicabili a tutti i procedimenti pendenti, con la conseguenza che il ricorso deve essere qualificato come reclamo al Tribunale di sorveglianza, con conseguente trasmissione degli atti a quell’ufficio.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso proposto dai Ministero della Giustizia prospetta dei motivi d’impugnazione infondati e va pertanto rigettato.
Questa Corte ha gia’ avuto occasione di rilevare con la sentenza n. 53011 del 27 novembre 2014 deliberata in analoga fattispecie, assume carattere preliminare la questione di diritto, in rito, della competenza di questa Corte di legittimita’, quale giudice della impugnazione, a conoscere il ricorso, e cio’ anche in considerazione della espressa richiesta del Procuratore generale di qualificazione dell’atto come reclamo e di inoltro al Tribunale di sorveglianza di Venezia.
1.1 Cio’ posto, la questione, conformemente alla citata decisione alla quale il Collegio intende dare continuita’, condividendola, deve essere risolta in senso positivo, in difformita’ della richiesta del Pubblico Ministero requirente.
Come gia’ affermato da questa Corte nella citata decisione, infatti, “l’articolo 35-bis dell’Ordinamento penitenziario dispone al comma 4, (modificato dalla Legge di conversione 21 febbraio 2014, n. 10, del decreto Legge 23 dicembre 2013, n. 146, che ha introdotto il citato articolo); “Avverso la decisione del magistrato di sorveglianza sul reclamo giurisdizionale e’ ammesso reclamo al tribunale di sorveglianza nel termine di quindici giorni dalla notificazione o comunicazione dell’avviso di deposito della decisione stessa”. Il successivo comma 4 bis (introdotto dalla citata legge di conversione) recita: “La decisione del tribunale di sorveglianza e’ ricorribile per cassazione per violazione di legge nel termine di quindici giorni dalla notificazione o comunicazione dell’avviso di deposito della decisione stessa”. Ma il ricorso e’ stato presentato dalla Avvocatura distrettuale dello Stato il 20 febbraio 2014, nel vigore dell’articolo 35 bis, comma 4, dell’Ordinamento penitenziario nel testo introdotto dal Decreto Legge 23 dicembre 2013, n. 146, articolo 3, comma 1, lettera b), prima delle modificazioni apportate dalla legge di conversione promulgata il giorno successivo (v. supra). La norma recitava: “4. Avverso la decisione del magistrato di sorveglianza e’ ammesso ricorso per cassazione per violazione di legge, nel termine di quindici giorni dalla notificazione o comunicazione dell’avviso di deposito”. L’Avvocatura distrettuale dello Stato aveva, pertanto, correttamente esperito il mezzo di impugnazione previsto illo tempore dalla legge vigente al momento della presentazione del ricorso.
Sicche’, nella specie, la quaestio iuris si focalizza nel quesito se le modificazioni apportate dal legislatore della conversione in legge al sistema delle impugnazioni (colla sostituzione del comma 4 dell’articolo 35 bis, dell’Ordinamento penitenziario e colla introduzione del comma 4 bis nel corpo nel medesimo articolo) incidano (escludendola) sulla competenza del giudice della impugnazione, gia’ adito dalla parte ricorrente (la Corte suprema di cassazione) e comportino, conseguentemente, la traslatio iudici a favore del giudice divenuto competente iure superveniente (il Tribunale di sorveglianza di Venezia). In carenza di veruna disciplina transitoria trova pacificamene applicazione il principio giuridico di determinazione della competenza del tempus regit actum.
Se non che nella giurisprudenza di questa Corte di legittimita’ e’ dato censire sensibili oscillazioni in merito alla individuazione dei criterio ulteriore di collegamento ai fini della applicazione del succitato principio, in materia di impugnazioni. Secondo un primo indirizzo lo ius superveniens trova immediata applicazione nei giudizi di impugnazione pendenti, non ostante che nel vigore della previgente disciplina il provvedimento impugnato sia stato deliberato e la impugnazione sia stata proposta, fatto salvo solo il caso della perpetualo iurisdictionis, reputato ricorrente qualora il giudice ad quem abbia gia’ “concretamente” incoato la trattazione della impugnazione (cosi’, per tutte, in tema di revisione: Sez. Un., n. 1 del 03/02/1990 – dep. 16/03/1990, La Rocca, Rv. 183699: “Le modifiche alle regole sulla determinazione della competenza del giudice dovute all’entrata in vigore di nuove norme legislative operano con effetti immediati anche se il procedimento sia iniziato prima dell’entrata in vigore della legge modificatrice; tale principio e’ temperato da quello della perpetuano iurisdictionis per effetto del quale la competenza per i procedimenti di cui sia gia’ iniziata la trattazione resta radicata presso il giudice competente ai sensi delle norme anteriormente vigenti”. Le Sezioni Unite hanno spiegato, nella citata sentenza, che, ai fini della perpetuano, “perche’ io iudicium possa considerarsi acceptum (con la conseguenza che ibi et finem accipere debet), non e’ sufficiente la semplice pendenza del procedimento davanti all’ufficio giudiziario, ma e’ necessario che il giudice abbia iniziato a conoscere del procedimento, abbia cioe’ esercitato attivita’ di giurisdizione. In altre parole … perche’ possa ritenersi operante il criterio della perpetuano iurisdictionis … e’ necessario che il giudice … abbia iniziato concretamente la trattazione del giudizio prima dell’entrata in vigore delle nuove norme”. Secondo un altro orientamento il criterio cronologico-procedimentale di collegamento e’ costituito dal momento della presentazione della impugnazione nel senso che la competenza del giudice ad quem si cristallizza alla stregua della disciplina in vigore all’epoca del deposito dell’atto e resta insensibile allo ius superveniens (Sez. 1, n. 5104 del 09/10/1996 – dep. 04/11/1996, Guarino A, Rv. 206145, in tema di riesame; Sez., 6, Sentenza n. 27858 del 22/05/2001 – dep. 11/07/2001, Bianco, Rv, 219974, in tema di appello delle sentenze di condanna alla sola pena della multa; Sez. 5, n. 17417 del 13/03/2007 – dep. 08/05/2007, Stampini e altri, Rv. 236553, in tema di appello della parte civile). Mentre bisognerebbe far riferimento alla scadenza del termine per la proposizione della impugnazione, nel senso che “lo ius superveniens … si’ applica esclusivamente alle ipotesi nelle quali i termini per la proposizione dell’appello non siano ancora decorsi”, secondo l’arresto della Sez. 5, n. 2883 del 17/05/2000 – dep. 12/06/2000, Moresco, Rv. 216500. Le Sezioni Unite, infine, sono ancora intervenute, modificando il loro precedente indirizzo, e hanno fissato il principio di diritto secondo il quale “ai fini dell’individuazione del regime applicabile in materia di impugnazioni, allorche’ si succedano nei tempo diverse discipline e non sia espressamente regolato, con disposizioni transitorie, il passaggio dall’una all’altra, l’applicazione del principio tempus regit actum impone di far riferimento al momento di emissione del provvedimento impugnato e non gia’ a quello della proposizione dell’impugnazione. (Sez., Un., n. 27614 del 29/03/2007 – dep. 12/07/2007, P.C., in proc. Lista, Rv. 236537). A tale principio questo Collegio si uniforma e, in applicazione del medesimo, afferma la propria competenza a conoscere il ricorso proposto dall’Avvocatura distrettuale dello Stato. Al momento, infatti, del deposito della ordinanza impugnata (6 febbraio 2014), era pacificamente esperibile il ricorso per cassazione avverso il provvedimento in parola, alla stregua (e indipendentemente dalla disposizione non convertita contenuta nell’originario articolo 35 bis, comma 4, dell’Ordinamento penitenziario) del combinato disposto degli articoli 35-bis, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario, 666 cod. proc. pen. (richiamato dal ridetto comma e recante la previsione del ricorso per cassazione) e della speciale disposizione dell’articolo 71 ter, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario.
2. Anche con riferimento al merito della proposta impugnazione, il Collegio ritiene di non doversi discostare da quanto gia’ affermato nella citata decisione n. 53011 del 27 novembre 2013.
2.1 Il primo motivo di ricorso, pertanto, deve ritenersi senz’altro inammissibile.
E’ appena il caso di premettere che palesemente non pertinente e’ il richiamo della ricorrente alla norme tributarie, in materia del computo della superficie degli immobili ai fini castali. Affatto diverso e’ infatti – alla evidenza – l’oggetto del procedimento.
2.2 Manifestamente infondata e’, poi, la denunzia della supposta violazione di norme di legge. In materia di spazi intramurari il legislatore non ha inteso stabilire precisi standard metrici di superficie, ne’ indici di densita’/affollamento della popolazione reclusa (v. infra), come, peraltro, sostenuto dalla ricorrente dinnanzi al giudice a quo. Sicche’ non e’ ravvisabile, in radice, alcuna inosservanza o erronea applicazione di norme di legge nella decisione impugnata, la quale e’, piuttosto, fondata sulla diversa valutazione del giudicante secondo il quale lo spazio intramurario nel quale il detenuto e’ ristretto comporta, per la esiguita’ della superficie, un “trattamento inumano o degradante”, vietato dalla legge. Eppero’, anche in relazione alle residue censure proposte dalla ricorrente col primo mezzo di impugnazione, giova ricordare che l’articolo 236 disp. coord. c.p.p., comma 2, (la norma dispone: “Nelle materie di competenza del tribunale di sorveglianza continuano ad applicarsi le disposizioni contenute dalla Legge 26 luglio 1975, n. 354, diverse da quelle contenute nel capo 2-bis del titolo 2 della stessa legge”) non reca alcun riferimento alle materie di competenza del magistrato di sorveglianza.
Consegue che l’articolo 71 ter dell’Ordinamento penitenziario (contenuto nel capo 2-bis del titolo 2) non e’ derogato in parte de qua dalla anzidetta norma di coordinamento (cfr. Cass., Sez. Un., 27 giugno 2006, n. 31461, Passamani, massima n. 234147, circa la intervenuta abrogazione delle disposizioni del suddetto capo 2-bis in relazione alle materie di competenza del tribunale di sorveglianza).
Sicche’ il ricorso per cassazione avverso i provvedimenti del magistrato di sorveglianza – ove ammesso – e’ esperibile esclusivamente per violazione di legge (Cass., Sez. Un., 26 febbraio 2003, n. 25079, Gianni; Sez. 1 , 12 novembre 2008, n. 44321, Araniti; Sez. 1 , 12 febbraio 2009, n. 9508, Testa, non massimate sul punto, e Sez. 1 , 20 ottobre 2010, n. 39314, Farinella, massima n. 248844).
Orbene, nella specie, oltre alla generica censura in ordine all’accertamento della superficie intramuraria, pro capite, calpestarle (peraltro incongruamente rappresentato come riferito alla superficie della cella), la ricorrente Avvocatura argomenta che il giudice a quo non si sarebbe attenuto al canone fissato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, colla sentenza del 5 marzo 2013, Teilissi, circa la determinazione dello spazio minimo intramurario da assicurare a ogni detenuto perche’ lo stato non incorra nella violazione del divieto dei trattamenti inumani e degradanti, stabilito dall’articolo 3 CEDU.
E sostiene che lo standard di superficie minima pro capite di tre metri quadrati, siccome apprezzato dal Giudice Europeo, deve “essere conteggiato al lordo includendo sia la superficie degli arredi che quella” del servizio igienico.
Nei sancire il divieto (della tortura,) delle pene e dei trattamenti inumani o degradanti, l’articolo 3 della Convenzione est. non ha tipizzato le condotte integratrici della violazione del divieto.
Analogamente neppure l’articolo 27 Cost., comma 2, stabilendo che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanita’”, ha stabilito alcuno specifico canone per la determinazione dei trattamenti vietati.
Con particolare riferimento agli spazi intramurari l’articolo 6, dell’Ordinamento penitenziario prescrive, al comma primo, che “i locali nei quali si svolge la vita dei detenuti devono essere di ampiezza sufficiente…” e, al comma secondo, che “i locali destinati al pernottamento consistono in camere dotate di uno o piu’ posti”.
La corrispondente disposizione dell’articolo 6, del Regolamento penitenziario non contiene alcuno standard o parametro metrico in ordine alle dimensioni dei locali destinati al soggiorno dei detenuti e delle celle di pernottamento.
Anche alla luce di criteri elaborati dal Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti disumani o degradanti, la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, mediante plurimi arresti, ha fissato canoni particolari in funzione di specifici standard dimensionali in ordine alla superficie degli spazi intramurari.
Adito dalla doglianza del detenuto, di sottoposizione a trattamento inumano o degradante, per essere ristretto in ambienti carcerari di ampiezza cosi’ esigua da non soddisfare i requisiti minimi della abitabilita’ intramuraria fissati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, il giudice del reclamo e’ chiamato ad accertare e valutare la condizione di fatto della carcerazione; e tale valutazione e’ operata esclusivamente alla stregua dei canoni e degli standard giurisprudenziali, in difetto di alcuna disposizione normativa e tampoco legislativa o codicistica.
Sicche’ lo scrutinio compiuto sulla base della regula di giudizio di matrice giurisprudenziale e’ sindacabile, sotto il profilo della violazione di legge, in relazione al vizio della motivazione, ai sensi dell’articolo 71 ter, dell’Ordinamento penitenziario in relazione all’articolo 125 c.p.p., comma 3, e, cioe’, esclusivamente sotto il profilo della mancanza di motivazione.
Tale vizio e’ pacificamente fuori discussione nel caso in esame.
Il giudice a quo ha dato conto adeguatamente – come illustrato nel paragrafo che precede sub 1. – delle ragioni della propria decisione, sorretta da motivazione congrua e, pertanto, sottratta a ogni sindacato nella sede del presente scrutinio di legittimita’.
Conclusivamente le censure del ricorrente, non essendo riconducibili ne’ alla inosservanza, ne’ alla erronea applicazione di alcuna norma di legge, si risolvono nella proposizione di motivi non consentiti dalla legge col ricorso per cassazione avverso i provvedimenti del magistrato di sorveglianza e, pertanto, sono inammissibili ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., comma 1, n. 3.
3. Anche il secondo motivo di ricorso, in punto di regolamento delle spese del procedimento, non e’ fondato.
Per vero non appare condivisibile l’assunto – posto dal giudice a quo a fondamento della declaratoria di non farsi luogo al regolamento della spese inter partes – della assimilazione del nuovo procedimento, di “reclamo giurisdizionale”, al procedimento di esecuzione.
Innanzi tutto e’ d’uopo considerare che l’adozione del rito camerale del procedimento di sorveglianza, a norma degli articoli 678 e 666 c.p.p., richiamati dall’articolo 35 bis, comma 1, prima parte, dell’Ordinamento penitenziario, di per se’ sola non comporta alcun ostacolo di ordine formale per la condanna della parte soccombente alla rifusione delle spese processuali a favore di quella vittoriosa.
La legge stabilisce che la decisione del magistrato di sorveglianza assume la forma della ordinanza. E, in astratto, tale tipologia di provvedimento puo’ certamente recare la statuizione di condanna al pagamento delle spese.
Conta, semmai, l’analisi contenutistica del procedimento del reclamo “giurisdizionale” per la tutela dei diritti soggettivi dei detenuto (gia’ enucleabile nel sostrato normativo deh’ articolo 69, comma 6 dell’Ordinamento penitenziario, nella previgente formulazione, siccome integrata dalla sentenza additiva della Corte costituzionale n. 26 dell’11 febbraio 1999, e ora compiutamente) disciplinato dall’articolo 35-bis in relazione all’articolo 68, comma 6, lettera b), dell’Ordinamento penitenziario.
Si tratta di un vero e proprio giudizio, di carattere contenzioso, vertente sull’accertamento, in contraddittorio, del “grave e attuale pregiudizio all’esercizio dei diritti” del detenuto, finalizzato alla adozione del provvedimento riparatorio del giudice (consistente nell’ordine di porre rimedio), e imperniato sui coessenziale antagonismo tra la parte privata reclamante (attrice necessaria ed esclusiva) e la amministrazione penitenziaria (contraddittore istituzionale), potenzialmente resistente.
Eppero’, a differenza del procedimento di esecuzione, il quale, in linea di principio, puo’ essere fungibilmente promosso, sullo stesso oggetto, sia dal Pubblico Ministero, sia dal condannato, affatto indifferentemente – l’incidente e’ “volto a stabilire, nell’interesse della giustizia, il concreto contenuto dell’esecuzione” (Sez. 4, n. 1622 del 22/05/1998 – dep. 04/06/1998, PM in proc. Sciarabba, Rv, 211627) – sicche’ non e’ configurabile alcuna soccombenza, la contraria soluzione si prospetta in relazione al reclamo giurisdizionale in questione.
Il rilievo non e’, tuttavia, decisivo per accreditare la conclusione del regolamento delle spese inter partes.
Neppure – al di la’ della considerazione che trattasi di ius superveniens giova l’accentuata caratterizzazione, in termini di domanda risarcitoria, impressa dal legislatore al reclamo giurisdizionale colla introduzione dell’articolo 35 ter dell’Ordinamento penitenziario, ai sensi del Decreto Legge 26 giugno 2014, n. 92, articolo 1, convertito nella Legge 11 agosto 2014, n. 117.
La disposizione prevede, nei casi stabiliti, la liquidazione di una somma, “a titolo di risarcimento del danno”, per ciascuna giornata di detenzione patita in condizioni “tali da violare l’articolo 3 Cost., per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali, ratificata e resa esecutiva ai sensi della legge 4 agosto 1955, n, 848”, e/o – sempre “a titolo di risarcimento del danno” – la riduzione della pena detentiva espianda in ragione di “un giorno per ogni dieci” giorni della detenzione espiata nelle condizioni de quibus.
La ridetta piu’ recente novella offre, piuttosto, ulteriore argomento a sostegno della esclusione del regolamento inter partes delle spese del procedimento di reclamo giurisdizionale davanti ai giudici di sorveglianza.
Il legislatore ha dettagliatamente disciplinato il procedimento all’articolo 35 bis (e all’articolo 35 ter, commi 1 e 2) dell’Ordinamento penitenziario.
Ha, quindi, attribuito, in sede civile, al tribunale ordinario (in composizione monocratica) del capoluogo del distretto di residenza dell’attore la competenza relativa alla speciale azione risarcitoria, nei casi di patita custodia cautelare infungibile e di intervenuta espiazione della pena, disciplinando il relativo procedimento contenzioso colie forme dell’articolo 737 c.p.c. e ss., sicche’ trovano applicazione le disposizioni dell’articolo 91 c.p.c. e segg. (Sez. 1 Civ., n, 12021 del 01/07/2004, Rv. 573979; cui adde Sez. 1 Civ., n. 22292 del 21/10/2009, Rv. 609743).
Orbene, la mancata inserzione di alcuna disposizione relativa ai regolamento delle spese inter partes nel procedimento di reclamo giurisdizionale davanti ai giudici di sorveglianza e, comunque, l’omesso richiamo degli articoli 91 – 97 c.p.c. – a fronte, peraltro, della attribuzione della medesima azione risarcitoria alla competenza del giudice civile, nei residui casi previsti – appare, per vero, espressione della evidente volonta’ del legislatore di escludere il regolamento ridetto.
Ne’ giova alla tesi della ricorrente Avvocatura distrettuale dello Stato il richiamo operato all’arresto, in materia di procedimento incidentale di liquidazione del compenso del custode, sulla opposizione della parte interessata (Sez. 4, n. 2489 del 30/06/1995 – dep. 27/07/1995, Ministero del Tesoro in proc. Pisanelli, Rv. 202335). Il precedente e’, oltretutto, inattuale. L’articolo 695 c.p.p., che disponeva: “Sulle questioni concernenti le materie previste nel presente titolo spese dei procedimenti penali decide il giudice della esecuzione, che provvede con le forme indicate nell’articolo 666 c.p.p.”, e’ stato abrogato dall’articolo 299, comma 1, del Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, approvato con Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115. Il procedimento de quo e’ attualmente regolato dall’articolo 170 del Testo Unico cit., che richiama la Legge 13 giugno 1942, n. 794, articolo 29. Comunque la giurisprudenza di legittimita’ (con la pronuncia citata dalla Avvocatura erariale) era pervenuta alla conclusione che la fase contenziosa del procedimento in parola dovesse essere disciplinata, in carenza di specifiche disposizioni, dalle “norme … del codice di procedura civile”. E tale non e’ il caso del reclamo giurisdizionale davanti ai giudici della sorveglianza.
La conclusione raggiunta, infine, si armonizza perfettamente colla tipologia del procedimento di sorveglianza cui, in linea di principio, e’ affatto estraneo il regolamento delle spese inter partes.
Esattamente, pertanto, il giudice a quo ha deliberato: “Nulla per le spese”.
Questa Corte ha gia’ avuto occasione di rilevare con la sentenza n. 53011 del 27 novembre 2014 deliberata in analoga fattispecie, assume carattere preliminare la questione di diritto, in rito, della competenza di questa Corte di legittimita’, quale giudice della impugnazione, a conoscere il ricorso, e cio’ anche in considerazione della espressa richiesta del Procuratore generale di qualificazione dell’atto come reclamo e di inoltro al Tribunale di sorveglianza di Venezia.
1.1 Cio’ posto, la questione, conformemente alla citata decisione alla quale il Collegio intende dare continuita’, condividendola, deve essere risolta in senso positivo, in difformita’ della richiesta del Pubblico Ministero requirente.
Come gia’ affermato da questa Corte nella citata decisione, infatti, “l’articolo 35-bis dell’Ordinamento penitenziario dispone al comma 4, (modificato dalla Legge di conversione 21 febbraio 2014, n. 10, del decreto Legge 23 dicembre 2013, n. 146, che ha introdotto il citato articolo); “Avverso la decisione del magistrato di sorveglianza sul reclamo giurisdizionale e’ ammesso reclamo al tribunale di sorveglianza nel termine di quindici giorni dalla notificazione o comunicazione dell’avviso di deposito della decisione stessa”. Il successivo comma 4 bis (introdotto dalla citata legge di conversione) recita: “La decisione del tribunale di sorveglianza e’ ricorribile per cassazione per violazione di legge nel termine di quindici giorni dalla notificazione o comunicazione dell’avviso di deposito della decisione stessa”. Ma il ricorso e’ stato presentato dalla Avvocatura distrettuale dello Stato il 20 febbraio 2014, nel vigore dell’articolo 35 bis, comma 4, dell’Ordinamento penitenziario nel testo introdotto dal Decreto Legge 23 dicembre 2013, n. 146, articolo 3, comma 1, lettera b), prima delle modificazioni apportate dalla legge di conversione promulgata il giorno successivo (v. supra). La norma recitava: “4. Avverso la decisione del magistrato di sorveglianza e’ ammesso ricorso per cassazione per violazione di legge, nel termine di quindici giorni dalla notificazione o comunicazione dell’avviso di deposito”. L’Avvocatura distrettuale dello Stato aveva, pertanto, correttamente esperito il mezzo di impugnazione previsto illo tempore dalla legge vigente al momento della presentazione del ricorso.
Sicche’, nella specie, la quaestio iuris si focalizza nel quesito se le modificazioni apportate dal legislatore della conversione in legge al sistema delle impugnazioni (colla sostituzione del comma 4 dell’articolo 35 bis, dell’Ordinamento penitenziario e colla introduzione del comma 4 bis nel corpo nel medesimo articolo) incidano (escludendola) sulla competenza del giudice della impugnazione, gia’ adito dalla parte ricorrente (la Corte suprema di cassazione) e comportino, conseguentemente, la traslatio iudici a favore del giudice divenuto competente iure superveniente (il Tribunale di sorveglianza di Venezia). In carenza di veruna disciplina transitoria trova pacificamene applicazione il principio giuridico di determinazione della competenza del tempus regit actum.
Se non che nella giurisprudenza di questa Corte di legittimita’ e’ dato censire sensibili oscillazioni in merito alla individuazione dei criterio ulteriore di collegamento ai fini della applicazione del succitato principio, in materia di impugnazioni. Secondo un primo indirizzo lo ius superveniens trova immediata applicazione nei giudizi di impugnazione pendenti, non ostante che nel vigore della previgente disciplina il provvedimento impugnato sia stato deliberato e la impugnazione sia stata proposta, fatto salvo solo il caso della perpetualo iurisdictionis, reputato ricorrente qualora il giudice ad quem abbia gia’ “concretamente” incoato la trattazione della impugnazione (cosi’, per tutte, in tema di revisione: Sez. Un., n. 1 del 03/02/1990 – dep. 16/03/1990, La Rocca, Rv. 183699: “Le modifiche alle regole sulla determinazione della competenza del giudice dovute all’entrata in vigore di nuove norme legislative operano con effetti immediati anche se il procedimento sia iniziato prima dell’entrata in vigore della legge modificatrice; tale principio e’ temperato da quello della perpetuano iurisdictionis per effetto del quale la competenza per i procedimenti di cui sia gia’ iniziata la trattazione resta radicata presso il giudice competente ai sensi delle norme anteriormente vigenti”. Le Sezioni Unite hanno spiegato, nella citata sentenza, che, ai fini della perpetuano, “perche’ io iudicium possa considerarsi acceptum (con la conseguenza che ibi et finem accipere debet), non e’ sufficiente la semplice pendenza del procedimento davanti all’ufficio giudiziario, ma e’ necessario che il giudice abbia iniziato a conoscere del procedimento, abbia cioe’ esercitato attivita’ di giurisdizione. In altre parole … perche’ possa ritenersi operante il criterio della perpetuano iurisdictionis … e’ necessario che il giudice … abbia iniziato concretamente la trattazione del giudizio prima dell’entrata in vigore delle nuove norme”. Secondo un altro orientamento il criterio cronologico-procedimentale di collegamento e’ costituito dal momento della presentazione della impugnazione nel senso che la competenza del giudice ad quem si cristallizza alla stregua della disciplina in vigore all’epoca del deposito dell’atto e resta insensibile allo ius superveniens (Sez. 1, n. 5104 del 09/10/1996 – dep. 04/11/1996, Guarino A, Rv. 206145, in tema di riesame; Sez., 6, Sentenza n. 27858 del 22/05/2001 – dep. 11/07/2001, Bianco, Rv, 219974, in tema di appello delle sentenze di condanna alla sola pena della multa; Sez. 5, n. 17417 del 13/03/2007 – dep. 08/05/2007, Stampini e altri, Rv. 236553, in tema di appello della parte civile). Mentre bisognerebbe far riferimento alla scadenza del termine per la proposizione della impugnazione, nel senso che “lo ius superveniens … si’ applica esclusivamente alle ipotesi nelle quali i termini per la proposizione dell’appello non siano ancora decorsi”, secondo l’arresto della Sez. 5, n. 2883 del 17/05/2000 – dep. 12/06/2000, Moresco, Rv. 216500. Le Sezioni Unite, infine, sono ancora intervenute, modificando il loro precedente indirizzo, e hanno fissato il principio di diritto secondo il quale “ai fini dell’individuazione del regime applicabile in materia di impugnazioni, allorche’ si succedano nei tempo diverse discipline e non sia espressamente regolato, con disposizioni transitorie, il passaggio dall’una all’altra, l’applicazione del principio tempus regit actum impone di far riferimento al momento di emissione del provvedimento impugnato e non gia’ a quello della proposizione dell’impugnazione. (Sez., Un., n. 27614 del 29/03/2007 – dep. 12/07/2007, P.C., in proc. Lista, Rv. 236537). A tale principio questo Collegio si uniforma e, in applicazione del medesimo, afferma la propria competenza a conoscere il ricorso proposto dall’Avvocatura distrettuale dello Stato. Al momento, infatti, del deposito della ordinanza impugnata (6 febbraio 2014), era pacificamente esperibile il ricorso per cassazione avverso il provvedimento in parola, alla stregua (e indipendentemente dalla disposizione non convertita contenuta nell’originario articolo 35 bis, comma 4, dell’Ordinamento penitenziario) del combinato disposto degli articoli 35-bis, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario, 666 cod. proc. pen. (richiamato dal ridetto comma e recante la previsione del ricorso per cassazione) e della speciale disposizione dell’articolo 71 ter, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario.
2. Anche con riferimento al merito della proposta impugnazione, il Collegio ritiene di non doversi discostare da quanto gia’ affermato nella citata decisione n. 53011 del 27 novembre 2013.
2.1 Il primo motivo di ricorso, pertanto, deve ritenersi senz’altro inammissibile.
E’ appena il caso di premettere che palesemente non pertinente e’ il richiamo della ricorrente alla norme tributarie, in materia del computo della superficie degli immobili ai fini castali. Affatto diverso e’ infatti – alla evidenza – l’oggetto del procedimento.
2.2 Manifestamente infondata e’, poi, la denunzia della supposta violazione di norme di legge. In materia di spazi intramurari il legislatore non ha inteso stabilire precisi standard metrici di superficie, ne’ indici di densita’/affollamento della popolazione reclusa (v. infra), come, peraltro, sostenuto dalla ricorrente dinnanzi al giudice a quo. Sicche’ non e’ ravvisabile, in radice, alcuna inosservanza o erronea applicazione di norme di legge nella decisione impugnata, la quale e’, piuttosto, fondata sulla diversa valutazione del giudicante secondo il quale lo spazio intramurario nel quale il detenuto e’ ristretto comporta, per la esiguita’ della superficie, un “trattamento inumano o degradante”, vietato dalla legge. Eppero’, anche in relazione alle residue censure proposte dalla ricorrente col primo mezzo di impugnazione, giova ricordare che l’articolo 236 disp. coord. c.p.p., comma 2, (la norma dispone: “Nelle materie di competenza del tribunale di sorveglianza continuano ad applicarsi le disposizioni contenute dalla Legge 26 luglio 1975, n. 354, diverse da quelle contenute nel capo 2-bis del titolo 2 della stessa legge”) non reca alcun riferimento alle materie di competenza del magistrato di sorveglianza.
Consegue che l’articolo 71 ter dell’Ordinamento penitenziario (contenuto nel capo 2-bis del titolo 2) non e’ derogato in parte de qua dalla anzidetta norma di coordinamento (cfr. Cass., Sez. Un., 27 giugno 2006, n. 31461, Passamani, massima n. 234147, circa la intervenuta abrogazione delle disposizioni del suddetto capo 2-bis in relazione alle materie di competenza del tribunale di sorveglianza).
Sicche’ il ricorso per cassazione avverso i provvedimenti del magistrato di sorveglianza – ove ammesso – e’ esperibile esclusivamente per violazione di legge (Cass., Sez. Un., 26 febbraio 2003, n. 25079, Gianni; Sez. 1 , 12 novembre 2008, n. 44321, Araniti; Sez. 1 , 12 febbraio 2009, n. 9508, Testa, non massimate sul punto, e Sez. 1 , 20 ottobre 2010, n. 39314, Farinella, massima n. 248844).
Orbene, nella specie, oltre alla generica censura in ordine all’accertamento della superficie intramuraria, pro capite, calpestarle (peraltro incongruamente rappresentato come riferito alla superficie della cella), la ricorrente Avvocatura argomenta che il giudice a quo non si sarebbe attenuto al canone fissato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, colla sentenza del 5 marzo 2013, Teilissi, circa la determinazione dello spazio minimo intramurario da assicurare a ogni detenuto perche’ lo stato non incorra nella violazione del divieto dei trattamenti inumani e degradanti, stabilito dall’articolo 3 CEDU.
E sostiene che lo standard di superficie minima pro capite di tre metri quadrati, siccome apprezzato dal Giudice Europeo, deve “essere conteggiato al lordo includendo sia la superficie degli arredi che quella” del servizio igienico.
Nei sancire il divieto (della tortura,) delle pene e dei trattamenti inumani o degradanti, l’articolo 3 della Convenzione est. non ha tipizzato le condotte integratrici della violazione del divieto.
Analogamente neppure l’articolo 27 Cost., comma 2, stabilendo che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanita’”, ha stabilito alcuno specifico canone per la determinazione dei trattamenti vietati.
Con particolare riferimento agli spazi intramurari l’articolo 6, dell’Ordinamento penitenziario prescrive, al comma primo, che “i locali nei quali si svolge la vita dei detenuti devono essere di ampiezza sufficiente…” e, al comma secondo, che “i locali destinati al pernottamento consistono in camere dotate di uno o piu’ posti”.
La corrispondente disposizione dell’articolo 6, del Regolamento penitenziario non contiene alcuno standard o parametro metrico in ordine alle dimensioni dei locali destinati al soggiorno dei detenuti e delle celle di pernottamento.
Anche alla luce di criteri elaborati dal Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti disumani o degradanti, la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, mediante plurimi arresti, ha fissato canoni particolari in funzione di specifici standard dimensionali in ordine alla superficie degli spazi intramurari.
Adito dalla doglianza del detenuto, di sottoposizione a trattamento inumano o degradante, per essere ristretto in ambienti carcerari di ampiezza cosi’ esigua da non soddisfare i requisiti minimi della abitabilita’ intramuraria fissati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, il giudice del reclamo e’ chiamato ad accertare e valutare la condizione di fatto della carcerazione; e tale valutazione e’ operata esclusivamente alla stregua dei canoni e degli standard giurisprudenziali, in difetto di alcuna disposizione normativa e tampoco legislativa o codicistica.
Sicche’ lo scrutinio compiuto sulla base della regula di giudizio di matrice giurisprudenziale e’ sindacabile, sotto il profilo della violazione di legge, in relazione al vizio della motivazione, ai sensi dell’articolo 71 ter, dell’Ordinamento penitenziario in relazione all’articolo 125 c.p.p., comma 3, e, cioe’, esclusivamente sotto il profilo della mancanza di motivazione.
Tale vizio e’ pacificamente fuori discussione nel caso in esame.
Il giudice a quo ha dato conto adeguatamente – come illustrato nel paragrafo che precede sub 1. – delle ragioni della propria decisione, sorretta da motivazione congrua e, pertanto, sottratta a ogni sindacato nella sede del presente scrutinio di legittimita’.
Conclusivamente le censure del ricorrente, non essendo riconducibili ne’ alla inosservanza, ne’ alla erronea applicazione di alcuna norma di legge, si risolvono nella proposizione di motivi non consentiti dalla legge col ricorso per cassazione avverso i provvedimenti del magistrato di sorveglianza e, pertanto, sono inammissibili ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., comma 1, n. 3.
3. Anche il secondo motivo di ricorso, in punto di regolamento delle spese del procedimento, non e’ fondato.
Per vero non appare condivisibile l’assunto – posto dal giudice a quo a fondamento della declaratoria di non farsi luogo al regolamento della spese inter partes – della assimilazione del nuovo procedimento, di “reclamo giurisdizionale”, al procedimento di esecuzione.
Innanzi tutto e’ d’uopo considerare che l’adozione del rito camerale del procedimento di sorveglianza, a norma degli articoli 678 e 666 c.p.p., richiamati dall’articolo 35 bis, comma 1, prima parte, dell’Ordinamento penitenziario, di per se’ sola non comporta alcun ostacolo di ordine formale per la condanna della parte soccombente alla rifusione delle spese processuali a favore di quella vittoriosa.
La legge stabilisce che la decisione del magistrato di sorveglianza assume la forma della ordinanza. E, in astratto, tale tipologia di provvedimento puo’ certamente recare la statuizione di condanna al pagamento delle spese.
Conta, semmai, l’analisi contenutistica del procedimento del reclamo “giurisdizionale” per la tutela dei diritti soggettivi dei detenuto (gia’ enucleabile nel sostrato normativo deh’ articolo 69, comma 6 dell’Ordinamento penitenziario, nella previgente formulazione, siccome integrata dalla sentenza additiva della Corte costituzionale n. 26 dell’11 febbraio 1999, e ora compiutamente) disciplinato dall’articolo 35-bis in relazione all’articolo 68, comma 6, lettera b), dell’Ordinamento penitenziario.
Si tratta di un vero e proprio giudizio, di carattere contenzioso, vertente sull’accertamento, in contraddittorio, del “grave e attuale pregiudizio all’esercizio dei diritti” del detenuto, finalizzato alla adozione del provvedimento riparatorio del giudice (consistente nell’ordine di porre rimedio), e imperniato sui coessenziale antagonismo tra la parte privata reclamante (attrice necessaria ed esclusiva) e la amministrazione penitenziaria (contraddittore istituzionale), potenzialmente resistente.
Eppero’, a differenza del procedimento di esecuzione, il quale, in linea di principio, puo’ essere fungibilmente promosso, sullo stesso oggetto, sia dal Pubblico Ministero, sia dal condannato, affatto indifferentemente – l’incidente e’ “volto a stabilire, nell’interesse della giustizia, il concreto contenuto dell’esecuzione” (Sez. 4, n. 1622 del 22/05/1998 – dep. 04/06/1998, PM in proc. Sciarabba, Rv, 211627) – sicche’ non e’ configurabile alcuna soccombenza, la contraria soluzione si prospetta in relazione al reclamo giurisdizionale in questione.
Il rilievo non e’, tuttavia, decisivo per accreditare la conclusione del regolamento delle spese inter partes.
Neppure – al di la’ della considerazione che trattasi di ius superveniens giova l’accentuata caratterizzazione, in termini di domanda risarcitoria, impressa dal legislatore al reclamo giurisdizionale colla introduzione dell’articolo 35 ter dell’Ordinamento penitenziario, ai sensi del Decreto Legge 26 giugno 2014, n. 92, articolo 1, convertito nella Legge 11 agosto 2014, n. 117.
La disposizione prevede, nei casi stabiliti, la liquidazione di una somma, “a titolo di risarcimento del danno”, per ciascuna giornata di detenzione patita in condizioni “tali da violare l’articolo 3 Cost., per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali, ratificata e resa esecutiva ai sensi della legge 4 agosto 1955, n, 848”, e/o – sempre “a titolo di risarcimento del danno” – la riduzione della pena detentiva espianda in ragione di “un giorno per ogni dieci” giorni della detenzione espiata nelle condizioni de quibus.
La ridetta piu’ recente novella offre, piuttosto, ulteriore argomento a sostegno della esclusione del regolamento inter partes delle spese del procedimento di reclamo giurisdizionale davanti ai giudici di sorveglianza.
Il legislatore ha dettagliatamente disciplinato il procedimento all’articolo 35 bis (e all’articolo 35 ter, commi 1 e 2) dell’Ordinamento penitenziario.
Ha, quindi, attribuito, in sede civile, al tribunale ordinario (in composizione monocratica) del capoluogo del distretto di residenza dell’attore la competenza relativa alla speciale azione risarcitoria, nei casi di patita custodia cautelare infungibile e di intervenuta espiazione della pena, disciplinando il relativo procedimento contenzioso colie forme dell’articolo 737 c.p.c. e ss., sicche’ trovano applicazione le disposizioni dell’articolo 91 c.p.c. e segg. (Sez. 1 Civ., n, 12021 del 01/07/2004, Rv. 573979; cui adde Sez. 1 Civ., n. 22292 del 21/10/2009, Rv. 609743).
Orbene, la mancata inserzione di alcuna disposizione relativa ai regolamento delle spese inter partes nel procedimento di reclamo giurisdizionale davanti ai giudici di sorveglianza e, comunque, l’omesso richiamo degli articoli 91 – 97 c.p.c. – a fronte, peraltro, della attribuzione della medesima azione risarcitoria alla competenza del giudice civile, nei residui casi previsti – appare, per vero, espressione della evidente volonta’ del legislatore di escludere il regolamento ridetto.
Ne’ giova alla tesi della ricorrente Avvocatura distrettuale dello Stato il richiamo operato all’arresto, in materia di procedimento incidentale di liquidazione del compenso del custode, sulla opposizione della parte interessata (Sez. 4, n. 2489 del 30/06/1995 – dep. 27/07/1995, Ministero del Tesoro in proc. Pisanelli, Rv. 202335). Il precedente e’, oltretutto, inattuale. L’articolo 695 c.p.p., che disponeva: “Sulle questioni concernenti le materie previste nel presente titolo spese dei procedimenti penali decide il giudice della esecuzione, che provvede con le forme indicate nell’articolo 666 c.p.p.”, e’ stato abrogato dall’articolo 299, comma 1, del Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, approvato con Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115. Il procedimento de quo e’ attualmente regolato dall’articolo 170 del Testo Unico cit., che richiama la Legge 13 giugno 1942, n. 794, articolo 29. Comunque la giurisprudenza di legittimita’ (con la pronuncia citata dalla Avvocatura erariale) era pervenuta alla conclusione che la fase contenziosa del procedimento in parola dovesse essere disciplinata, in carenza di specifiche disposizioni, dalle “norme … del codice di procedura civile”. E tale non e’ il caso del reclamo giurisdizionale davanti ai giudici della sorveglianza.
La conclusione raggiunta, infine, si armonizza perfettamente colla tipologia del procedimento di sorveglianza cui, in linea di principio, e’ affatto estraneo il regolamento delle spese inter partes.
Esattamente, pertanto, il giudice a quo ha deliberato: “Nulla per le spese”.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso
Leave a Reply