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La massima
Un colpo di pistola esploso in direzione non equivoca, ad altezza d’uomo e a pochi metri dal bersaglio costituisce condotta idonea a cagionare la morte. Ne consegue che l’autore del suddetto comportamento risponde del reato di tentato omicidio.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE I

SENTENZA 28 novembre 2012, n. 46254 

Ritenuto in fatto

 

1. Con sentenza del 2 maggio 2011 la Corte di appello di Roma, in parziale riforma della sentenza del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Rieti in data 21 dicembre 2006, ha ridotto la pena inflitta a P.G. da anni cinque ad anni tre e mesi quattro di reclusione, applicata, oltre alla riduzione per il rito abbreviato prescelto, la diminuzione per le già riconosciute attenuanti generiche (erroneamente ritenute equivalenti dal primo giudice benché il delitto più grave non fosse aggravato) e sostituita all’interdizione perpetua dai pubblici uffici quella temporanea.

Il P. è stato dichiarato responsabile dei delitti di tentato omicidio in danno di M.S. e Mo.Ri. (capo B) e di porto di una pistola calibro 357 Magnum (capo A), con la quale sparava due colpi di cui uno in direzione dei predetti; fatti commessi in (omissis) , ed unificati nella continuazione.

La Corte territoriale, disattendendo le conclusioni del pubblico ministero che aveva chiesto la derubricazione del delitto di omicidio a quello di lesione aggravata e i motivi proposti dall’appellante, ha ricostruito il fatto nei medesimi termini già ritenuti dal giudice di primo grado.

Il (omissis) il P. , in lite condominiale con il M. , abitante nella medesima palazzina al pianterreno mentre l’imputato risiedeva al primo piano, minacciò di morte l’antagonista mentre il M. , insieme a Mo.Ri. , era intento a collocare una rete alla finestra del proprio appartamento prospiciente il cortile comune, pronunziando al suo indirizzo le parole: ‘Vigliacco, delinquente, ladro, vattene di qui, io ti sparo, ti ammazzo’; contemporaneamente, esplose un primo colpo di pistola in direzione della finestra aperta, dove si trovavano il M. e il Mo. , ad una distanza di circa quattro metri, compiendo pertanto, secondo la contestazione, atti idonei a cagionare la morte degli stessi e non riuscendo nell’intento per errore nella mira (il colpo penetrò all’interno della stanza, ad una altezza di circa metri 2,50 dal pavimento, conficcandosi nell’architrave del muro interno) e per la pronta reazione delle vittime, le quali, accortesi del gesto contestuale alla minaccia, si gettarono a terra e si ripararono dietro il muro a lato della finestra; un secondo colpo di pistola fu sparato in direzione della facciata esterna dell’edificio, ad una distanza di circa tre metri dalla suddetta finestra, colpendo la trave sottostante il balcone del primo piano.

La Corte distrettuale ha respinto la diversa ricostruzione del fatto sostenuta dall’appellante, secondo la quale, dalle informazioni rese dal Mo. il (omissis) , apprezzato come fonte disinteressata non avendo mai avuto contrasti con l’imputato e non essendosi neppure costituito come parte civile nel processo, sarebbe emerso che il primo colpo fu quello sparato all’esterno del vano finestra e che il secondo colpo fu esploso quando il M. e il Mo., udite le minacce proferite dal P. , si erano già gettati a terra sottraendosi allo sparo. Secondo la Corte, il Mo. si era limitato a riferire una sua impressione circa l’ordine di successione dei colpi e, comunque, la sua prima dichiarazione resa nello stesso giorno del fatto, il 7 aprile, e ritenuta più attendibile, era di segno contrario avendo il testimone riferito che il P. contestualmente proferì le minacce e sparò il primo colpo in direzione del M. e dello stesso Mo. che erano alla finestra.

Analoga descrizione della dinamica del fatto era stata fatta dal M. nella denuncia-querela presentata il 7 aprile 2005 e nelle successive dichiarazioni rese il 15 aprile; e perfino il P. , interrogato in sede di convalida dell’arresto, aveva riconosciuto, secondo la Corte di merito, di aver sparato il primo colpo verso la finestra e il secondo verso la parte esterna del caseggiato.

Non assumeva rilievo, poi, ad avviso del decidente, la previa pronuncia delle minacce rispetto allo sparo per escludere l’animus necandi, posto che dalle informazioni assunte era emersa la contestualità tra le prime e il colpo esploso in direzione dell’interno della finestra.

Ha aggiunto la Corte territoriale che il P. non aveva esploso altri colpi, pur essendo l’arma caricata all’origine con sei munizioni, perché subito raggiunto dalla moglie che contribuì a farlo rientrare in sé, dopo il raptus di cui l’uomo fu preda al momento degli spari.

Il fatto, come sopra ricostruito, integrava dunque il tentativo di omicidio per l’idoneità della condotta e del mezzo utilizzato a cagionare la morte e per la direzione univoca dello sparo ad altezza d’uomo, come da rilievi tecnici e balistici. Correttamente, dunque, secondo la Corte territoriale, il giudice di primo grado aveva individuato nel fatto almeno il dolo alternativo compatibile, diversamente da quello eventuale, con il tentativo di omicidio.

Sussisteva, infine, anche il delitto di porto abusivo della pistola, legalmente detenuta dal P. , in luogo aperto pubblico, tale dovendo ritenersi la corte condominiale non recintata e accessibile a tutti, quale rappresentata nei rilievi fotografici agli atti.

2. Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il P. tramite il difensore, il quale deduce quattro motivi.

2.1. Con il primo, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), lamenta la violazione dell’art. 546, lett. e), del codice di rito, poiché il giudice a quo avrebbe attribuito credibilità alle dichiarazioni della parte civile, M. , senza effettuare un puntuale controllo di attendibilità di tale testimone ed assumendo quale elemento di riscontro la deposizione del testimone Mo. , che sarebbe stata di contenuto opposto; la Corte territoriale, in particolare, avrebbe travisato il contenuto della deposizione resa dal Mo. il 15 aprile 2005 in ordine alle modalità e all’ordine in cui si succedettero i due colpi di pistola e alla posizione del M. allorché fu esploso il colpo di arma da fuoco in direzione dell’interno della finestra. Il Mo., infatti, avrebbe riferito che il primo colpo fu sparato in direzione della facciata esterna del caseggiato e che il secondo fu esploso contro la finestra a bersaglio vuoto, essendosi il M. e il Mo., nel frattempo, già nascosti.

In ogni caso, se anche si ritenesse che il primo colpo fu indirizzato alla finestra, dalle risultanze di causa, travisate dai giudici di merito, emergerebbe che ciò avvenne non contemporaneamente ma dopo la pronuncia delle minacce, dando pertanto agli antagonisti il tempo di nascondersi e di uscire dall’obiettivo dello sparatore che non avrebbe avuto alcuna possibilità di attingerli.

Del tutto priva di riscontro nelle emergenze istruttorie sarebbe, poi, l’intervento della moglie del P. , quale causa dell’interruzione dell’azione criminosa, che, ove fosse stata effettivamente mirata all’uccisione del M. , sarebbe proseguita, poiché l’imputato aveva ancora colpi in canna e il suo antagonista era facilmente raggiungibile anche all’interno dell’appartamento.

2.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 56 e 575 cod. pen. per errata valutazione dei requisiti della idoneità ed univocità degli atti integranti il delitto tentato.

Tutti gli elementi raccolti, come sopra indicati, militerebbero nel configurare il fatto ascritto al P. al capo B) come minaccia aggravata e non tentato omicidio.

2.3. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta violazione di legge e difetto di motivazione per omessa derubricazione del delitto di porto di pistola in luogo aperto al pubblico, di cui al capo A), nel reato contravvenzionale previsto dall’art. 4 legge n. 110 del 1975, essendo il cortile dove avvenne il fatto recintato e, quindi, non accessibile a tutti, come emergerebbe dalla sopravvenuta consulenza tecnica d’ufficio, redatta il 16/04/2010 dal geometra Pe., nella causa civile intentata dal M. contro il P. davanti al Tribunale di Rieti.

2.4. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia violazione degli artt. 28 e 29 cod. pen. per omessa indicazione della durata della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici.

 

Considerato in diritto

 

1. Il ricorso non merita accoglimento.

1.1. Il primo motivo è infondato non sussistendo il vizio di motivazione per travisamento della prova denunciato dal ricorrente.

La Corte di appello ha rivisitato, alla luce delle censure mosse dall’imputato, il contenuto delle dichiarazioni di Mo.Ri. e M.S. e, con motivazione adeguata e coerente, scevra da vizi logici e giuridici, ha dato conto dei seguenti elementi: a) inesistenza della denunciata contraddizione tra le prime dichiarazioni, rese dal Mo. il (omissis) , immediatamente dopo il fatto, e le successive da lui rilasciate il 15 aprile 2005, poiché in quest’ultime il Mo. aveva riconosciuto di non essere in grado di precisare quale dei due colpi fosse stato sparato per primo e, al riguardo, si era limitato a riferire come sua ‘impressione’, così testualmente definita dallo stesso dichiarante, la precedenza del colpo sparato verso la facciata esterna dell’edificio rispetto a quello esploso in direzione del vano finestra dove egli era intento, insieme al M. , a montare una rete; b) attendibilità delle prime dichiarazioni del Mo. , in data (omissis) , nelle quali aveva affermato, senza incertezze, la contestualità tra le minacce rivolte dall’imputato al M. e l’esplosione del primo colpo contro quest’ultimo, immediatamente postosi al riparo insieme allo stesso Mo. , cui seguirono uno o due colpi sparati verso la facciata esterna del fabbricato; c) piena convergenza delle prime dichiarazioni del Mo. e di quelle rese dal M. nello stesso giorno del fatto, il (omissis) , ma alcune ore dopo le informazioni fornite dal Mo. (il M. , infatti, colto da malore, era stato portato in ospedale); d) apprezzata contestualità tra le minacce proferite dall’imputato, lo sparo in direzione del M. e l’immediato riparo cercato da quest’ultimo insieme al Mo. , abbassandosi e nascondendosi dietro il muro della stanza ai lati della finestra; e) ammissione dello stesso P. , nel corso dell’interrogatorio reso in sede di udienza di convalida del suo arresto, di aver sparato il primo colpo in direzione della finestra e il secondo contro la facciata esterna del caseggiato, pur avendo precisato che il M. stava lavorando ad un’altra finestra, circostanza quest’ultima smentita, come puntualmente rilevato dalla Corte di merito, dal fatto che sul cortile dove si trovava lo sparatore si apriva la sola finestra dell’appartamento posto al piano ammezzato, dove abitava il M. .

Ne discende, alla luce della completa e coerente motivazione del giudice di appello, che non solo non sussiste la contraddizione rilevata tre le deposizioni delle persone offese, sicché non si profila il travisamento delle prove denunciato, ma la priorità cronologica del colpo sparato in direzione degli occupanti il vano della finestra, rispetto a quello esploso contro la facciata esterna dell’edificio, risulta provata dalle convergenti dichiarazioni iniziali del Mo. e di quelle costantemente rese dal M. , nonché sostanzialmente ammessa dallo stesso imputato.

Né risulta omessa, come pure denunciato dal ricorrente, la valutazione di intrinseca attendibilità del M. , antagonista del P. e suo principale bersaglio, poiché la versione della persona offesa è stata sottoposta dai giudici di merito al rigoroso vaglio e confronto con le altre risultanze istruttorie e, in particolare, con le dichiarazioni – pure accuratamente vagliate – del Mo..

1.2. Anche il secondo motivo è infondato.

I giudici del doppio grado del giudizio di merito hanno correttamente qualificato il fatto come tentato omicidio, ravvisandone le componenti oggettiva e soggettiva, per l’idoneità dell’azione di sparo ad attingere i due uomini alla finestra, risultando il colpo, potenzialmente letale, esploso dal basso verso l’alto, ad altezza d’uomo e a breve distanza (pochi metri) dal bersaglio, come emerso, oltre che dal riferito testimoniale, dai pur richiamati esiti della consulenza tecnica e dagli accertamenti della polizia scientifica; e per l’univoca direzione del medesimo colpo ad attingere il M. , come rivelato anche dalle minacce di morte che lo accompagnarono senza soluzione di continuità, seguito dal pronto intervento della moglie dell’imputato, la quale contribuì ad arrestare il raptus omicida del P. .

1.3. Privo di fondamento è pure il terzo motivo, posto che il giudice di appello ha dato atto che il cortile, contrariamente all’assunto dell’appellante, non era recintato ma aperto a tutti, come reso visibile dalle foto scattate nell’immediatezza del fatto, sicché il porto della pistola doveva ritenersi avvenuto in luogo aperto al pubblico; mentre la consulenza tecnica d’ufficio che dimostrerebbe il contrario, allegata al ricorso a questa Corte, è stata espletata nel giudizio civile tra il M. e il P. svoltosi alcuni anni dopo il fatto (incarico conferito al consulente il 9 dicembre 2009, con relazione depositata il 16 aprile 2010, mentre il contestato reato risale al 7 aprile 2005), e, neppure, risulta acquisita nel giudizio di appello, con la conseguenza della sua inammissibilità in questa sede.

1.4. È, infine, infondato il quarto motivo che denuncia la violazione degli artt. 28 e 29 cod. pen. per omessa specificazione della durata della sanzione accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici.

L’automatismo nell’applicazione delle pene accessorie, predeterminate per legge sia nella specie che nella durata e sottratte, perciò, alla valutazione discrezionale del giudice, esclude l’illegittimità della mancata indicazione, nel dispositivo della sentenza, della durata dell’interdizione temporanea, fissata dall’art. 29 cod. pen. in anni cinque, e, nel caso di specie, anche specificata nella motivazione, seppure omessa nel dispositivo contenente la sola enunciazione applicativa della sanzione temporanea in sostituzione di quella perpetua stabilita in primo grado, sicché nessun errore in diritto risulta commesso dal giudice di appello (sull’assoluto automatismo delle pene accessorie e sulla competenza del giudice dell’esecuzione alla rettifica di eventuali errori per omessa o erronea applicazione di esse, patologia insussistente, come si è detto, nel caso in esame: v. Sez. 1, n. 45381 del 2004 e n. 38245 del 2010).

2. Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato con la condanna del ricorrente, a norma dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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