Suprema Corte di Cassazione
sezione I
sentenza 11 febbraio 2016, n. 5774
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CORTESE Arturo – Presidente
Dott. BONITO Francesco M.S. – Consigliere
Dott. SANDRINI Enrico Giuseppe – Consigliere
Dott. MAGI Raffaello – rel. Consigliere
Dott. CENTONZE Alessandro – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS) N. IL (OMISSIS);
(OMISSIS) N. IL (OMISSIS);
(OMISSIS) N. IL (OMISSIS);
avverso l’ordinanza n. 1234/2015 TRIB. LIBERTA’ di CATANIA, del 06/08/2015;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. RAFFAELLO MAGI;
lette/sentite le conclusioni del PG Dott. Gaeta Pietro, che ha chiesto dichiararsi inammissibili i ricorsi;
uditi i difensori avv.ti (OMISSIS) e (OMISSIS) difensore dei ricorrenti che hanno chiesto l’accoglimento de ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
1. Il Tribunale del Riesame di Catania, con decisione emessa ai sensi dell’articolo 310 codice procedura penale. in data 6 agosto 2015, ha rigettato l’appello proposto da (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) avverso la decisione emessa dal GIP del medesimo ufficio giudiziario in data 10 luglio 2015.
Il tema della decisione e’ rappresentato dalle modalita’ di applicazione della nuova disposizione normativa introdotta dalla Legge 16 aprile 2015, n. 47, articolo 11 (in G.U. n. 94 del 23.4.2015) al comma 5.
Con tale disposizione e’ stato stabilito – con sostituzione del previgente articolo 309, comma 10 – che nell’ambito del procedimento incidentale di riesame l’ordinanza decisoria “deve essere depositata in cancelleria entro trenta giorni dalla decisione salvi i casi in cui la stesura della motivazione sia particolarmente complessa per il numero degli arrestati o la gravita’ delle imputazioni. In tali casi il giudice puo’ disporre per il deposito un termine piu’ lungo, comunque non eccedente il quarantacinquesimo giorno da quello della decisione”.
La inosservanza del suddetto termine, relativo al deposito della motivazione dell’ordinanza, e’ presidiata dalla perdita di efficacia della ordinanza oggetto della procedura di impugnazione, con divieto di sua rinnovazione, salva la ricorrenza di eccezionali esigenze cautelari, da motivarsi in modo specifico (cio’ sempre ai sensi del novellato articolo 309, comma 10, primo periodo).
In fatto, la vicenda portata all’attenzione del Tribunale concerne la prospettata perdita di efficacia del titolo cautelare (ai sensi dell’articolo 306 codice procedura penale, con richiesta rivolta al giudice del procedimento principale e da tale autorita’ disattesa) emesso nei confronti degli attuali ricorrenti e sottoposto ad impugnazione ai sensi dell’articolo 309 codice procedura penale con istanza depositata in data antecedente rispetto a quella (8 maggio 2015) in cui e’ entrata in vigore la nuova disciplina. In particolare, la motivazione della ordinanza emessa dal Tribunale in sede di riesame il 27 aprile del 2015 – dunque in data antecedente la vigenza della nuova disposizione – non e’ stata depositata nei trenta giorni successivi alla entrata in vigore della legge di riforma (8 giugno 2015) ne’ risulta emesso un provvedimento di proroga (la motivazione e’ stata depositata il 26 giugno 2015).
A fronte di tale sequenza, il Tribunale – investito della doglianza – afferma, in sintesi, che la emissione del dispositivo dell’ordinanza di riesame in data 27 aprile 2015 non rendeva possibile l’emissione di alcun provvedimento di proroga del termine di deposito dei motivi (in tale lettura necessariamente contestuale al dispositivo, derivando da un giudizio prognostico correlato alla constatazione della complessita’) e pertanto cio’ dimostrerebbe che il Tribunale non era tenuto a rispettare il sopravvenuto termine-base dei trenta giorni introdotto dalla Legge n. 47, entrata in vigore in data 8 maggio 2015.
2. Avverso tale ordinanza hanno proposto ricorso per cassazione – a mezzo del
comune difensore – (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), deducendo violazione di legge e vizio di motivazione.
Viene riproposta nel ricorso la diversa interpretazione dei dati normativi incidenti sulla decisione.
Essendo pacifico che la decisione del riesame – ossia l’emissione del dispositivo – e’ avvenuta, nel caso in esame, prima della entrata in vigore della novella, la difesa dei ricorrenti tende a rappresentare che, non essendo stata depositata la motivazione nei trenta giorni successivi alla data dell’otto maggio 2015, il titolo cautelare allora impugnato avrebbe perso efficacia in virtu’ della disposizione
prima citata.
Si sostiene, sul tema, che la nuova norma andrebbe a regolamentare – in virtu’ del principio generale tempus regit actum – i rapporti ancora pendenti alla data della sua entrata in vigore, e pertanto li’ dove l’ordinanza di riesame risulti ancora priva di motivazione alla data dell’otto maggio da tale momento andrebbe”, calcolato il nuovo termine, con perdita di efficacia del titolo cautelare alla data dell’otto giugno 2015.
La decisione reiettiva viene pertanto contestata sia nel suo fondamento giuridico che in quello logico, posto che nulla avrebbe vietato, a far data dall’otto maggio 2015, l’emissione del provvedimento di proroga del termine, da ritenersi non necessariamente correlato alla emissione del dispositivo ma possibile anche – con separato provvedimento – in un momento posteriore purche’ antecedente alla scadenza del termine “ordinario”di giorni trenta.
Si evidenzia che l’interpretazione proposta risulta la piu’ aderente ai principi ispiratori della riforma e si insiste per l’accoglimento dei ricorsi.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi risultano infondati e vanno pertanto rigettati, per le ragioni che seguono.
2. Trattandosi, nel caso in esame, di questione puramente interpretativa di norme giuridiche, non puo’ ritenersi esaminabile la denunzia di un vizio di motivazione del provvedimento impugnato, posto che trattasi di una doglianza, pur formulata, non rispondente ai contenuti dell’articolo 606 codice procedura penale.
Come e’ stato piu’ volte evidenziato nella presente sede di legittimita’ (da ultimo Sez. 1, n. 16372 del 20.3.2015, rv 263326) il vizio di motivazione non e’ denunziabile con riferimento a questioni di diritto, poiche’ queste se sono fondate e disattese dal giudice di merito (motivatamente o meno) danno luogo al diverso motivo di censura costituito dalla violazione di legge (articolo 606, comma 1, lettera b) mentre se sono infondate il loro mancato esame non determina alcun vizio di legittimita’ della pronunzia.
Ulteriore conseguenza di cio’ e’ che questa Corte, nell’esaminare la sola denunzia di violazione (o falsa applicazione) delle norme coinvolte nella operazione interpretativa non e’ vincolata, nel percorso di ricostruzione della fattispecie in diritto, alle argomentazioni espresse nel provvedimento impugnato ma puo’ liberamente rielaborare il tema dedotto.
2.1 Cio’ posto, pur dovendosi disattendere il percorso argomentativo seguito dal Tribunale, il risultato resta quello espresso in apertura.
Il Collegio, sul tema, non ignora l’esistenza di una interpretazione favorevole alla opzione seguita dai ricorrenti, di recente espressa da Sez. 5, n. 40342 del 17.9.2015. In tale decisione si e’ osservato – in caso del tutto analogo (posto che la decisione del riesame era avvenuta in data 7 maggio 2015) – che l’attivita’ regolamentata dalla nuova previsione normativa – la stesura della motivazione – era pienamente in corso al momento della entrata in vigore della legge (8 maggio 2015) e pertanto era da ritenersi soggetta alla nuova disciplina (ivi compresa la rafforzata previsione di inefficacia del titolo cautelare) proprio in rapporto alla sua “autonomia”e in ossequio al generale principio tempus regit actum.
Si e’ anche ritenuta, in tal sede, possibile l’emissione di un provvedimento di proroga dei termini in epoca successiva rispetto a quella di emissione del dispositivo.
La prima di tale affermazioni non e’ da ritenersi condivisibile, a parere di questo Collegio, per le ragioni che seguono.
2.2 Va, in premessa, affermato che la disposizione contenuta nell’articolo 11 preleggi (la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo) pur non avendo valore di principio costituzionale – se non per le norme incriminatrici – ha tuttavia valore di principio generale dell’ordinamento giuridico e quindi opera come fondamentale criterio di interpretazione delle norme, in mancanza di una espressa disciplina transitoria posta con atto di pari rango legislativo (tra le molte, Sez. U. n. 49783 del 24.9.2009).
Si suole affermare in proposito che ciascun “fatto”va tendenzialmente assoggettato alla normativa del tempo in cui esso si verifica (tempus regit actum) e che in campo processuale – attivita’ caratterizzata per sua natura da una serie concatenata di atti – le nuove norme tendono a divenire applicabili, in virtu’ di tale regola generale, nei limiti in cui l’attivita’ da realizzarsi possa ritenersi “regolata”dalla disciplina innovativa.
Cio’ in rapporto al risvolto “conservativo”insito in detto principio, tale da conferire stabilita’ di effetti agli “atti”compiuti in conformita’ alle norme anteriormente vigenti (al momento della loro venuta in essere) il cui modello legale di riferimento resta rappresentato dalla legge oggetto di successiva modifica.
Il campo processual-penalistico e’ stato, sul tema, attraversato – da sempre – da forti tensioni, posta l’incidenza della legge processuale sulle modalita’ di svolgimento di uno strumento giuridico teso alla ricostruzione di un fatto da cui puo’ derivare l’affermazione di penale responsabilita’ del singolo, con correlato trattamento sanzionatorio.
Da qui la tendenza – specie in dottrina – a ritenere alcune norme processuali penali, specie in tema di limiti o divieti probatori (ma anche sul fronte del trattamento cautelare) dotate di una natura giuridica sui generis tale da comportare affinita’ di regolamentazione con quelle di diritto penale sostanziale, caratterizzate – queste ultime – dalla nota regola della retroattivita’ in bonam partem sino alla decisione irrevocabile (articolo 2 codice penale, comma 4). Da tale atteggiamento interpretativo deriverebbe – in tesi – la possibilita’ di ritenere affetto un determinato atto processuale da un contrasto “sopravvenuto”con la nuova disciplina regolatrice, tale da determinarne l’invalidita’ o la perdita di efficacia del medesimo.
La linea interpretativa seguita, nel corso del tempo, da questa Corte di legittimita’ ha – sul tema – escluso la possibilita’ di aderire ad una siffatta visione parasostanziale delle norme processuali, tale da incrinare (salva espressa disciplina transitoria) la regola del tempus regit actum (principio riaffermato di recente da Sez. U n. 44895 del 17.7.2014 rv 260927, in tema cautelare da Sez. U. n. 27919 del 31.3.2011, rv 250169, nonche’ in tema di esecuzione da Sez. U n. 24561 del 30.5.2006 rv 233976), ma al contempo ha imposto una attenta ricognizione del contenuto delle singole innovazioni, si’ da rapportarsi in modo ragionevole alla ricostruzione della disciplina regolatrice della specifica attivita’ processuale in se’ considerata (actum) nei casi di successione di norme nel tempo.
Il procedimento penale e’ infatti caratterizzato – per sua natura – non solo dalla correlazione tra piu’ attivita’ poste in essere da soggetti distinti, ma dalla compresenza di norme regolatrici aventi contenuto e finalita’ molto diverse tra di loro, la cui classificazione non appare inutile a fini di individuazione del limite di resistenza alla novita’ normativa, specie se sfavorevole.
Il divieto di far ricorso ad una particolare tipologia di prova e’, ad esempio, norma dal valore ben diverso rispetto a quella che regolamenta la tempistica di una impugnazione, cosi’ come la modifica di un presupposto applicativo di una misura restrittiva della liberta’ personale incide sui diritti della persona sottoposta al procedimento in maniera ben piu’ consistente rispetto alla introduzione di una diversa regolamentazione di una facolta’ interna al procedimento incidentale di impugnazione. Si e’ in tal senso ritenuto – anche facendo riferimento alla ultrattivita’ della disciplina vigente all’atto della emissione del titolo genetico (actum) – che l’entrata in vigore di una disciplina sopravvenuta peggiorativa del trattamento cautelare (Decreto Legge n. 11 del 2009) non puo’ comportare la sostituzione della misura in atto per il solo mutamento del quadro normativo (Sez. U n. 27919 del 31.3.2011, rv 250195) cosi’ come, in diversa occasione, si e’ affermato (Sez. U n. 10086 del 13.7.1998, rv 211192) che in tema di interpretazione della disciplina transitoria dettata dal legislatore in occasione di modifica del procedimento di acquisizione e valutazione della prova il criterio tempus regit actum, anziche’ astrattamente recepito in modo schematico e indifferenziato andasse adeguato alla diversa tipologia degli atti processuali oggetto di modifica, con conseguente rilievo in sede di legittimita’ della nuova regolamentazione, pur apportata da norma processuale, data la natura plurifasica e trasversale del fenomeno probatorio.
Escludendo fuorvianti generalizzazioni, resta essenziale, pertanto, l’analisi dei contenuti specifici dell’intervento legislativo, al fine di stabilire – anche nell’ambito della medesima legge di novellazione – quale sia l’attivita’ processuale evocata e considerata dalla singola disposizione e in che misura la stessa risulti “sensibile”al mutamento del quadro normativo di riferimento.
2.3 In tal senso, nell’esaminare i contenuti del poliedrico intervento di novellazione apportato dal legislatore con la Legge n. 47 del 2015 sul tema delle misure cautelari personali non puo’ certo risolversi il tema qui trattato mediante un generico riferimento al principio di perdurante validita’ degli atti processuali compiuti secondo la legge vigente al momento della loro emissione (tempus regit actum) ma va apprezzato il contenuto di ogni singola disposizione e rapportata ogni innovazione alle sue potenziali ricadute sui procedimenti in atto e sui sottostanti diritti o facolta’.
La legge, priva di disposizioni transitorie, contiene infatti sia modifiche strutturali (diversa fisionomia delle condizioni di applicabilita’ delle misure, rafforzamento del principio di adeguatezza ed altro) che previsioni relative alla articolazione argomentativa del titolo genetico o ancora alle modalita’ realizzative del contraddittorio in sede di riesame o alla tempistica di trattazione dell’udienza e di deposito della relativa decisione.
Si tratta di disposizioni eterogenee che se da un lato risultano accomunate dal ‘settore’ di intervento dall’altro realizzano in modo autonomo una incidenza innovativa su specifici aspetti correlati al “trattamento”in quanto tale (la diversa connotazione delle esigenze cautelari, ad esempio), ai contenuti motivazionali del titolo genetico, alle modalita’ di trattazione o di decisione delle impugnazioni, alla introduzione di ulteriori ipotesi di inefficacia della misura. E’ evidente pertanto che la ricaduta sul diritto intertemporale va calibrata sulla singola disposizione di modifica, posto che ben diversa portata riveste l’intervento di novellazione relativo alla descrizione dei presupposti applicativi -tema trasversale, quantomeno in virtu’ di quanto previsto dalla previsione di cui all’articolo 299 codice procedura penale – rispetto a innovazioni calibrate sulla struttura argomentativa del titolo genetico (actum di certo esaurito con la sua emissione) o riguardanti le modalita’ di trattazione e decisione della impugnazione (essenzialmente di natura procedimentale).
Limitando, pertanto, l’analisi alle disposizioni che ridisegnano oneri, diritti, facolta’ e decadenze della fase della impugnazione (essendo tale la natura del riesame), va ricordato come in via generale e’ stato affermato nella presente sede di legittimita’ che il regime applicabile in materia di impugnazioni (con particolare riferimento alla stessa potesta’ di impugnare) in caso di modifica di disciplina normativa intervenuta medio tempore e’ quello vigente al momento della emissione del provvedimento impugnato (Sez. U. n. 27614 del 29.3.2007). Con cio’ tuttavia la Sezioni Unite di questa Corte non hanno – ad avviso del Collegio – inteso affermare che, in ipotesi di perdurante facolta’ di impugnazione (nella disciplina previgente ed in quella successiva) le eventuali modifiche di disposizioni “interne”alla fase de qua possano avere effetto solo dal momento della emissione dei provvedimenti “impugnabili”che sia successiva alla entrata in vigore della legge di modifica (come in taluni recenti arresti e’ stato affermato, a proposito della legge qui scrutinata).
Va infatti considerato l’ambito della suddetta pronunzia (unica operazione che ne identifica in modo coerente i contenuti), in realta’ chiamata a dirimere dubbi interpretativi circa gli effetti della Legge 20 febbraio 2006, n. 46, normativa che incideva in via diretta sulla stessa potesta’ di proporre l’impugnazione dell’appello avverso le sentenze di proscioglimento (novellazione concernente, dunque, l’an della impugnazione, come e’ noto oggetto di declaratoria di illegittimita’ costituzionale).
In tale decisione le Sezioni Unite di questa Corte, peraltro, nel considerare la sorte della impugnazione che era stata proposta dal Pubblico Ministero e dichiarata inammissibile per effetto della disciplina sopravvenuta hanno testualmente affermato che “l’attivazione del rapporto di impugnazione e la regolamentazione del suo successivo iter non possono che soggiacere alle disposizioni vigenti al momento in cui la corrispondente iniziativa e’ assunta”in cio’ escludendo che la successiva declaratoria di illegittimita’ costituzionale della norma impeditiva potesse spiegare effetto su tale rapporto per la mancata contestazione della inammissibilita’ a suo tempo dichiarata.
Gia’ in tale affermazione si rinviene, pertanto, una lettura delle norme “interne”alla fase che segna quale momento dirimente quello della avvenuta presentazione dell’atto di impugnazione.
L’aggancio temporale alla emissione del provvedimento “impugnabile”e’ stato ritenuto invece essenziale – in detta decisione – al fine di mantenere in vita la stessa facolta’ di impugnazione, sottratta da norma emanata successivamente (in particolare per quanto riguardava la facolta’ di impugnazione della parte civile agli effetti penali nei casi di ingiuria e diffamazione).
E’ in rapporto a tale particolare situazione – ossia la sottrazione dello stesso potere di impugnare da parte di norma successiva alla emissione del provvedimento assoggettato a gravame – che viene dunque compiuta l’affermazione in diritto per cui il “regime”delle impugnazioni, in caso di successione di leggi, va rapportato alla legge vigente al momento del deposito della sentenza, posto che “e’ in rapporto a quest’ultimo actus ed ai tempi del suo perfezionamento che vanno valutati la facolta’ di impugnazione, la sua estensione, i modi e termini per esercitarla.
Dunque, si badi bene, l’affermazione di principio – cui si presta piena adesione – non concerne le modalita’ di trattazione del giudizio di impugnazione ma la esistenza del potere di impugnare e la regolamentazione dell’esercizio di tale specifico potere.
E’ evidente, pertanto, che una legge successiva al deposito di un provvedimento – impugnabile secondo la legge previgente – non puo’ cancellare (salva espressa disposizione transitoria) detta facolta’, posto che il tempus (ossia la legge regolatrice) va correlato all’actum rappresentato dal deposito della decisione impugnabile.
Questo – e non altro – era l’oggetto della decisione risolto in tale arresto, che pertanto non puo’ spiegare alcun effetto di “regolamentazione interpretativa”del fenomeno – come quello qui investigato – di successione nel tempo di disposizioni tese a regolamentare in modo diverso gli Scadimenti processuali “interni”alla fase della impugnazione, fase riconosciuta come possibile, su iniziativa di parte, in entrambe le normative (precedente e successiva).
3. Cio’ posto, e’ da escludersi che – in via generale – l’applicazione del principio tempus regit actum determini la possibile applicazione delle novita’ normative di cui alla Legge n. 47 del 2015 – in tema di procedimento di riesame – esclusivamente in riferimento a decisioni impugnabili (ossia titoli cautelari genetici) emessi in epoca successiva alla data dell’otto maggio 2015 e, per quanto sinora affermato, l’analisi va compiuta in relazione al contenuto di ogni singola disposizione, tenendo presente quanto sinora affermato.
Nel caso qui in esame si tratta di stabilire esclusivamente se la previsione – innovativa – del termine perentorio di deposito della motivazione dell’ordinanza conclusiva del procedimento (giorni trenta, a pena di inefficacia del titolo cautelare) sia o meno applicabile a decisioni emesse prima della data di entrata in vigore della legge in questione.
La soluzione, a parere del Collegio, non puo’ che essere negativa, per le seguenti considerazioni.
L’actum che in tal caso viene in rilievo e’ rappresentato dalla decisione, che per dettato normativo assume la forma dell’ordinanza.
Sul piano del modello legale, l’ordinanza e’ atto unitario che – di regola – non comporta scissione tra parte dispositiva e parte argomentativa e pertanto non e’ riconoscibile alcuna autonomia “strutturale”della parte motiva (ove depositata separatamente) rispetto al dispositivo.
Cio’ influisce – in modo rilevante – sulla individuazione della norma regolatrice ratione temporis che e’ pertanto da ritenersi quella vigente al momento della emissione dell’ordinanza stessa, pur se la medesima viene resa manifesta – provvisoriamente – attraverso il deposito del solo dispositivo.
Come e’ noto, la regola generale e’ quella – in caso di deposito del solo dispositivo, evento comunque idoneo a manifestare all’esterno l’avvenuta decisione sia da scongiurare la sanzione della perdita di efficacia della misura (Sez. U. n. 11 del 25.3.1998, rv 210607) – del deposito integrale del provvedimento entro giorni cinque, ai sensi dell’articolo 128 codice procedura penale, norma presidiata (sino alla data dell’otto maggio 2015) da sanzione esclusivamente extraprocessuale (eventuali profili disciplinari, civili o anche penali).
Puo’ dirsi pertanto che il legislatore dell’aprile 2015 ha inteso contrastare una prassi di dilatazione di detto termine oltre limiti fisiologici – fatto che incide sulla ulteriore facolta’ di impugnazione ai sensi dell’articolo 311 – sia attraverso l’introduzione di un diverso ambito temporale di tollerabile scissione che mediante l’introduzione espressa di una sanzione processuale di notevole incidenza, rappresentata dalla pedita di efficacia di una misura cautelare oggetto di conferma.
Tale ultimo aspetto, radicalmente innovativo, non puo’ che rafforzare – per la sua natura di norma sanzionatoria regolatrice del momento della decisione, tale da condizionare la stessa efficacia della misura cautelare oggetto di conferma – la considerazione sin qui espressa, posto che l’introduzione di una sanzione processuale non puo’ realizzare i suoi effetti in rapporto a segmenti del procedimento temporalmente antecedenti alla vigenza della norma che la contiene.
Non puo’ pertanto ritenersi che l’esistenza prasseologica di una scissione – anche consistente – tra il deposito del dispositivo e quello della motivazione dell’ordinanza realizzi una condizione di radicale “autonomia”del momento puramente espressivo della motivazione rispetto a quello della decisione, il che porta ad escludere la possibile “attrazione”di tale attivita’, se non ancora realizzata, nell’ambito applicativo della nuova previsione di legge. In tal senso va rielaborata la motivazione dellla ordinanza impugnata, affermandosi, per tali ragioni, che l’articolo 11 comma 5 della Legge 16 aprile 2015, n. 47 va ritenuto applicabile alle decisioni emesse nelle procedure incidentali di riesame personale solo dal momento della entrata in vigore della legge medesima.
Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Dispone trasmettersi, a cura della cancelleria, copia del provvedimento al direttore dell’Istituto penitenziario, ai sensi dell’articolo 94 disp. att. codice procedura penale, comma 1 ter.
Leave a Reply