SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE I
SENTENZA 13 marzo 2015, n. 11008
In fatto e in diritto
1. Il Tribunale del riesame di Reggio Calabria con ordinanza del 4 luglio 2014 ha confermato il titolo cautelare emesso dal GIP del locale Tribunale in data 23 maggio 2014 nei confronti di A.V. classe (…).
Il titolo è stato emesso in riferimento ad una contestazione provvisoria su cui è stata ritenuta sussistente la gravità indiziaria:
– capo A art. 416 bis cod. pen. per ritenuta partecipazione alla cosca Crea, articolazione territoriale della ‘ndrangheta operante nel comune di Rizziconi dal 1 gennaio 2010 con contestazione aperta. In particolare si descrive la condotta rilevante in questi termini:..all’epoca consigliere comunale di Rizziconi per avere contribuito, quale diretto esecutore della volontà dei primati della cosca, attraverso le proprie dimissioni allo scioglimento del consiglio comunale di Rizziconi, avvenuto in data 31 marzo 2011.
Il Tribunale, dopo ampia riproduzione dei contenuti delle investigazioni e delle fonti dimostrative (qui non riproducibile) tesa a rappresentare i tentativi di condizionamento operati da taluni appartenenti alla cosca Crea sull’amministrazione comunale di Rizziconi dopo l’elezione (nel marzo del 2010) del sindaco B.A. (pressioni da costui costantemente denunziate alle forze dell’ordine) ritiene sussistente la gravità indiziaria nei confronti di A.V. essenzialmente in rapporto alle sue dimissioni dalla carica di consigliere comunale.
Costui, eletto nella lista collegata al sindaco B. , presentò le dimissioni da consigliere comunale in data 31 marzo unitamente a C.G. dopo che il giorno 30 marzo si erano già dimessi: M.G. , (+Altri) . A ciò seguì – come atto determinante lo scioglimento del consiglio – in data 1 aprile 2011 l’atto di dimissioni di R.M. , frutto di specifiche e documentate pressioni (di cui si da conto ampiamente nel titolo cautelare, in riferimento a soggetti diversi dall’attuale ricorrente).
L’ipotesi di accusa – tratta dalle complessive dichiarazioni rese dal B. e dall’interesse manifestato dalla cosca allo scioglimento del consiglio – è pertanto quella che individua una volontà non “libera” dei consiglieri (ben nove) di determinarsi alle dimissioni, ma imposta o suggerita dai soggetti di riferimento della cosca Crea.
Solo due dei nove consiglieri dimissionari risultano destinatari del titolo cautelare, A. (attuale ricorrente) e Ro.Do. (a carico di quest’ultimo viene tuttavia citato e valorizzato un ulteriore episodio relativo alla veicolazione di una richiesta del Cr.An. di mantenere presso il settore lavori pubblici la dipendente Br. ).
La distinzione, pertanto, tra la posizione di A.V. e quella (a parte il Ro. e il R. , per quanto detto sopra) degli altri sei consiglieri dimissionari C. , (+Altri) viene individuata nel fatto che di certo Cr.An. (ritenuto elemento di vertice della cosca) conosceva A. perché costui prestava servizio presso la ditta Ediltra (in amministrazione giudiziaria, riferibile al Cr. ) con mansioni di autista ed in una conversazione intercettata, ove parlando con terze persone, del 10 marzo 2011 lo stesso Cr. affermava… per esempio A. , quello è un ragazzo che non ha niente, lo facevate vicesindaco, quello si prendeva uno stipendio…
La possibile influenza del Cr. sul comportamento tenuto da A. in sede di dimissioni è ipotizzata anche in un colloquio volontariamente registrato dal B. con il padre di R.M. .
A parere del Tribunale ciò consente di affermare che A.V. era “uomo a disposizione della cosca” cui offre un efficace contributo.
2. Avverso detta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione – a mezzo del difensore – A.V. deducendo vizio di motivazione e violazione di legge per erronea valutazione degli elementi indizianti.
Il ricorrente afferma (e documenta) di non aver svolto alcuna mansione negli ultimi otto anni presso la ditta Ediltra (è dipendente di diversa azienda operante nel settore dei servizi ecologici), contestando uno dei ritenuti indici rivelatori di vicinanza al Cr.An. , per cui avrebbe effettuato in passato solo lavori saltuari di trasporto.
Anche l’aver salutato nella piazza del paese – unitamente ad altre persone – il Cr. , come riferito dal B. , non può essere elevato ad elemento indiziante del reato associativo contestato.
Si contesta altresì la valenza indiziante della frase del Cr. captata inter alios e si ribadisce che l’A. , per contrasti di natura politica, era passato all’opposizione già nel giugno del 2010, come riferito nell’interrogatorio di garanzia, dimettendosi per scelta personale e politica.
Da ciò l’assenza di elementi realmente indizianti secondo una corretta lettura delle norme di riferimento.
3. Il ricorso è fondato, per le ragioni che seguono.
3.1 Ad avviso del Collegio è ampiamente motivata l’esistenza di “pressioni” della cosca Crea sull’andamento dell’amministrazione comunale di Rizziconi, oggetto di numerosi paragrafi dell’ordinanza impugnata.
Da ciò tuttavia non può trarsi – come del resto ritenuto nello stesso titolo cautelare – l’inferenza per cui tutti i soggetti che ebbero a presentare le dimissioni dal consiglio comunale lo fecero per recare un volontario contributo alle attività della consorteria mafiosa, posto che ciò – a tacer d’altro – non giustificherebbe la disparità di trattamento tra A.V. e i restanti consiglieri dimissionari (eccettuate le posizioni di Ro. – gravato da più consistenti elementi – e del R. che risulta essere stato coartato). Dunque il tema – in tale prima approssimazione – risulta essere quello della univoca rappresentazione di elementi di fatto capaci di rappresentare, nel pregnante modo richiesto dall’art. 273 cod.proc.pen. – l’esistenza di un rapporto “stabile ed organico” tra A.V. e la cosca Crea, sicché il gesto delle dimissioni (di per sé non certo univoco, potendo risalire alle più svariate matrici) potrebbe alfine inquadrarsi come indice rivelatore di tale intenso rapporto. Di tali elementi di fatto – tuttavia – vi è scarsa e precaria traccia nell’ordinanza impugnata.
3.2 Vanno qui evidenziati alcuni approdi giurisprudenziali in tema di gravità indiziaria e di nozione di “partecipazione” ad una associazione di stampo mafioso.
3.3 Quanto al primo tema, il legislatore nel prevedere – in detta norma – che nessuno può essere sottoposto a misure cautelari se a suo carico non sussistono “gravi indizi di colpevolezza” ha inteso utilizzare il termine “indizio” non nel suo connotato tradizionale di “elemento di prova critico o indiretto” ma ha voluto, invece, valorizzare il significato dell’intera locuzione (indizi..di colpevolezza) creando un doveroso “rapporto” tra la valutazione in materia di libertà ed il prevedibile esito finale del giudizio (la colpevolezza intesa come affermazione di penale responsabilità).
In ciò, come è stato più volte chiarito, gli indizi di colpevolezza altro non sono che gli elementi di prova – siano essi di natura storica/diretta o critica/indiretta – sottoposti a valutazione incidentale nell’ambito del subprocedimento cautelare e presi in considerazione dal giudice chiamato a pronunziarsi nei modi di cui all’art. 292 comma 2 lett. c cod. proc. pen..
La loro obbligatoria connotazione in termini di “gravità” al fine di rendere possibile l’applicazione della misura sta a significare che l’esito di tale valutazione incidentale (sia pure formulata allo stato degli atti) deve essere tale da far ragionevolmente prevedere, anche in rapporto alle regole di giudizio tipiche della futura decisione finale, la qualificata probabilità di condanna del soggetto destinatario della misura.
In ciò è evidente che il giudice chiamato a pronunziarsi in sede cautelare personale dovrà – per dare corretta attuazione ai contenuti del giudizio prognostico – confrontarsi:
a) con la natura e le caratteristiche del singolo elemento sottoposto a valutazione (ad es. l’indizio in senso stretto – la narrazione rappresentativa di natura testimoniale – la chiamata in correità o in reità);
b) con le regole prudenziali stabilite dal legislatore in rapporto alla natura del singolo elemento in questione (si veda, sul punto, quanto affermato da Sez. IV n. 40061 del 21.6.2012, Tritella, Rv 253723, in tema di elementi di prova critica, con necessità di tener conto anche in sede cautelare della loro particolare caratteristica ontologica);
c) con le regole di giudizio previste in sede di decisione finale del procedimento di primo grado, ivi compresa quella espressa dall’art. 533 comma 1 cod. proc. pen. (norma per cui l’affermazione di colpevolezza può essere pronunziata solo se il materiale dimostrativo raccolto consente di superare ogni ragionevole dubbio in proposito).
Con ciò non si intende dire – ovviamente – che dette regole prudenziali e di giudizio siano “direttamente” applicabili alla particolare decisione incidentale di tipo cautelare (tranne i casi espressamente previsti dal legislatore all’art. 273 comma 1-bis, peraltro espressione di un principio generale) ma di certo lo sono in via “mediata” posto che un affidabile giudizio prognostico di “elevata probabilità di condanna” non può prescindere dalla necessità di proiettare il “valore” degli elementi di prova acquisiti sulla futura decisione e sulle sue regole normative tipizzate in tal sede (in tal senso, di recente, Sez. I n. 19759 del 17.5.2011, Misseri, Rv. 250243, ove si è con estrema chiarezza affermato che “.. il giudizio prognostico in tal senso – ovviamente esteso alle regole per le ipotesi di incertezza e contraddittorietà considerate dal codice di rito all’art. 530, comma 2 e all’art. 533, comma 1, prima parte – è dunque indispensabile, pur dovendo essere effettuato non nell’ottica della ricerca di una certezza di responsabilità già raggiunta, ma nella prospettiva della tenuta del quadro indiziario alla luce di possibili successive acquisizioni e all’esito del contraddittorio..”).
Da qui la necessità di identificare – da parte del giudice chiamato a pronunziarsi sulla domanda cautelare – in modo specifico e razionale il significato incriminante degli elementi raccolti sino al momento della decisione e sottoposti al suo esame, con verifica da parte di questa Corte – in rapporto ai motivi di ricorso ed alle previsioni legali regolatrici – della completezza e logicità del percorso motivazionale espresso.
3.4 Ciò premesso, va anche compiuta una considerazione – sia pur sintetica – circa il significato da attribuirsi alla nozione normativa di “partecipazione” ad una associazione avente le caratteristiche descritte dal legislatore all’art. 416-bis cod. pen..
È notorio, infatti, che con la particolare formulazione dell’articolo 416-bis cod. pen. il legislatore ha adottato un modello descrittivo dell1 illecito tratto dalla concreta esperienza criminologica, essendo stata compiuta una valorizzazione di taluni elementi caratterizzanti della fattispecie (in particolare l’avvalersi della forza di intimidazione del vincolo associativo e delle correlate condizioni di assoggettamento e di omertà) desunti da dati “fenomenologici” riscontrati in alcune realtà territoriali del nostro paese.
Ciò, come rilevato anche in dottrina, ha comportato una sorta di alterazione dell’ordinario metodo di incriminazione delle fattispecie orientate alla tutela dell’ordine pubblico (art. 416 cod. pen.) e basate sul rilievo penalistico del solo accordo finalizzato alla commissione indeterminata di delitti (cui si accompagni un minimum di substrato organizzativo), atteso che il carattere “tipico” dell’associazione che possa dirsi mafiosa è riscontrabile solo nella misura in cui all’accordo tra più soggetti sia oggettivamente ricollegabile – per il metodo operativo seguito, per la qualità soggettiva degli associati, per il radicamento criminale sul territorio – un concreto effetto di “intimidazione ambientale”, tale da rendere possibile il perseguimento dei particolari fini (alterazione delle regole del mercato, alterazione dei rapporti tra privati e pubbliche amministrazione nell’aggiudicazione di appalti, o realizzazione di profitti ingiusti mediante lo svolgimento di attività illecite) previsti dalla norma.
Pur non richiedendo, pertanto, la norma in parola la necessaria consumazione di delitti-scopo e prevedendo la punibilità anche per le sole condotte associative di per sé considerate (data la natura di reato di pericolo – sia pure concreto – in rapporto al bene protetto), è infatti evidente (ed in tal senso si parla di reato associativo a struttura mista) che i caratteri tipici dell’associazione in parola, prima evidenziati, rendono necessario un minimo di operatività o comunque postulano l’esistenza di una concreta carica intimidatoria (sul punto, di recente, Sez. I n. 35627 del 18.4.2012, Amurri, rv 253457) derivante dal modo di atteggiarsi o di comportarsi (anche pregresso) da parte di quei soggetti che rendano con chiarezza riconoscibile all’esterno tale fondamentale caratteristica.
In altre parole, va detto che una associazione può essere qualificata in sede giudiziaria come “di stampo mafioso” esclusivamente ove risulti che il suo modus operandi sia fortemente caratterizzato da un uso (almeno potenziale) della violenza o minaccia, tale da generare quel senso di timore e insicurezza per la propria persona o i propri beni che induce la generalità dei consociati a piegarsi alle diverse richieste di vantaggi provenienti dagli associati.
Ciò posto, e richiamando i requisiti tipici delle condotte partecipative, va osservato che negli ormai più di trenta anni di vigenza della fattispecie in parola la dimensione applicativa ha fortemente risentito, come sovente accade, della particolarità delle vicende oggetto di giudizio, degli aspetti ambientali correlati alle stesse e degli specifici materiali dimostrativi portati all’attenzione dei diversi soggetti giudicanti.
Sul punto, occorre anzitutto ricordare che questa Corte (a partire dalla decisione Sez. I del 13.6/87, Altivalle) richiede per la punibilità a titolo di partecipazione la verifica dimostrativa della ricorrenza di un duplice aspetto: sul terreno soggettivo va riscontrata l’affectio societatis, ossia la consapevolezza e volontà del singolo di far parte stabilmente del gruppo criminoso con piena condivisione dei fini perseguiti e dei metodi utilizzati; sul piano oggettivo, non potendosi ritenere sufficiente la mera ed astratta “messa a disposizione” delle proprie energie (dato che ciò, oltre a costituire un dato di notevole evanescenza sul piano dimostrativo, si porrebbe in contrasto con il fondamentale principio di materialità delle condotte punibili di cui all’art. 25 Cost.) va riscontrato in concreto il “fattivo inserimento” nell’organizzazione criminale, attraverso la ricostruzione – sia pure per indizi – di un “ruolo” svolto dall’agente o comunque di singole condotte che – per la loro particolare capacità dimostrativa – possano essere ritenute quali “indici rivelatori” (mediante l’applicazione di ragionevoli massime di esperienza) dell’avvenuto inserimento nella realtà dinamica ed organizzativa del gruppo stesso.
Così, ben può dirsi che tale “inserimento” prescinde da formalità o riti che lo ufficializzano, potendo risultare per facta concludentia, attraverso cioè un comportamento che sul piano sintomatico sottolinei la partecipazione, nel senso della norma, alla vita dell’associazione (Sez. I n. 1470 del 11.12.2007, Addante, rv 238839 ove si ribadisce che la partecipazione alla associazione di stampo mafioso può essere desunta da indicatori fattuali dai quali – sulla base di attendibili regole di esperienza – possa logicamente inferirsi l’appartenenza del soggetto al sodalizio, purché si tratti di indizi gravi e precisi). In altre parole, ciò che va ritenuto decisivo ai fini della valutazione in sede giudiziaria di “appartenenza” ad un gruppo avente le caratteristiche prima illustrate non è la mera indicazione circa la qualità formale di affiliato (pur se tale dato costituisce uno dei possibili indizi a carico) quanto la possibilità di attribuire al soggetto in questione, mediante l’apprezzamento delle specifiche risultanze probatorie, la realizzazione di un qualsivoglia “apporto” alla vita dell’associazione, tale da far ritenere avvenuto il suo inserimento con carattere di stabilità e consapevolezza soggettiva (tra le altre, Sez. VI, 5.10.2000, Di Carlo, ove si richiede espressamente l’individuazione, da parte del giudice di merito, di puntuali e pertinenti elementi di fatto, logicamente indicativi di un perdurante inserimento dell’imputato nella organizzazione mafiosa, atteso che al fine della affermazione di penale responsabilità non rilevano mere situazioni di status, ma la fattiva partecipazione del soggetto ad un sodalizio, nonché la compiuta definizione espressa da Sez. U. n. 33748 del 12.7.2005, Mannino, rv 231670 per cui la condotta di partecipazione è riferibile a colui che si trovi in rapporto di stabile e organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio, tale da implicare, più che uno status di appartenenza, un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l’interessato “prende parte” al fenomeno associativo, rimanendo a disposizione dell’ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi).
Ciò tuttavia, è bene ribadirlo, non comporta certo l’adesione ad un pieno modello “causale” di definizione della partecipazione, analogo a quello elaborato in sede di definizione della punibilità del concorso esterno nel reato associativo. In effetti va precisato che il comportamento – di volta in volta – elevato ad “indice rivelatore” del fatto punibile, che qui resta l’avvenuto inserimento del soggetto nel gruppo criminoso in modo stabile, non deve necessariamente possedere – di per sé – una elevata carica di apporto causale alla vita dell’intera associazione (potendo consistere anche in un contributo di carattere morale e psichico, se oggettivamente apprezzabile, come ritenuto da Sez. I n. 6819 del 31.1.2013, Fusco, rv 254503) atteso che lo stesso funge – a ben vedere – da elemento “visibile” della esistenza del rapporto posto a monte, intercorso tra il soggetto e il gruppo, che resta l’oggetto specifico della dimostrazione.
3.5 Tornando alla posizione di A. , da nessun dato probatorio appare logicamente possibile dedurre quella stabile e organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio richiesta dalla giurisprudenza di questa Corte al fine di ritenere integrata, anche in sede cautelare, la previsione incriminatrice, pur valutandosi congiuntamente i dati emersi. Alla stregua di quanto esposto dal Tribunale, invero, nessuno degli stessi è univoco nel senso richiesto. Emerge infatti una sicura conoscenza tra A. e Cr.An. (che porta il Cr. ad affermare, non è dato sapere a chi ed in che contesto, che A. avrebbe anche potuto fare il vicesindaco) ma tale affermazione non è preceduta né seguita da alcuna “pressione” rivolta – anche per interposta persona – al sindaco B. , che avrebbe prontamente informato di ciò – qualora fosse avvenuto – le forze dell’ordine, come risulta per tutte le altre occasioni di “potenziale interferenza”. Ciò pone A.V. , per quanto si è detto in apertura, in una condizione non dissimile da quella degli altri consiglieri dimissionari, impedendo razionalmente di attribuire a tale “gesto” (quello delle dimissioni, di per sé polivalente) un significato di “indice rivelatore” dell’appartenenza (nel senso ricordato) al gruppo mafioso.
Né tale significato può farsi derivare da pregressi rapporti di lavoro, anche qui per il significato non univoco di tale circostanza o dalle “ipotesi” formulate dal B. nel corso dei colloqui con il padre di R.M. circa la complessiva lettura delle condotte dei singoli consiglieri (perché a differenza dell’episodio che vede coinvolto in via diretta il R. , destinatario di specifiche minacce, l’interpretazione che viene data dei comportamenti di altri è, appunto, ipotetica per gli stessi colloquianti).
Va pertanto disposto l’annullamento senza rinvio dell’ordinanza impugnata, con cessazione della misura cautelare in atto, come da dispositivo.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata e dichiara cessata la misura cautelare nei confronti di A.V. , di cui ordina l’immediata liberazione se non detenuto per altra causa. Manda la cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 626 cpp.
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