La c.d. “incapacita’ lavorativa” non e’ il danno: essa e’ solo la causa del danno, il quale e’ invece costituito dalla perdita o dalla riduzione del reddito da lavoro.

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L’evidente insostenibilita’ di tali approdi evidenzia, in virtu’ della regola della reductio ad absurdum, l’erroneita’ del presupposto su cui si fondano, e cioe’ che persone non solo non nate, ma neanche concepite al momento della commissione del fatto illecito, possano domandare al responsabile di questo un risarcimento.

2.6. Resta solo da aggiungere che gli argomenti appena spesi non sono contrastati dal precedente di questa Corte, nel quale venne ammessa la risarcibilita’ del danno patito dai fratelli di persona nata invalida in conseguenza d’un errore dei sanitari (Sez. 3, Sentenza n. 16754 del 02/10/2012). In quel caso infatti, il risarcimento venne chiesto dai fratelli prenati rispetto alla vittima primaria, e cio’ rende inapplicabili al presente giudizio i principi affermati dalla sentenza appena ricordata, senza alcuna necessita’ di ridiscuterne qui la saldezza.

3. Il primo motivo del ricorso incidentale.

3.1. Col primo motivo di ricorso l’amministrazione ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3. E’ denunciata, in particolare, la violazione dell’articolo 2059 c.c..

Deduce, al riguardo, che la Corte d’appello avrebbe duplicato il risarcimento del danno non patrimoniale patito da (OMISSIS).

Il Tribunale, infatti, nella stima del danno non patrimoniale dapprima monetizzato il danno alla salute in base ai criteri predisposti in via equitativa dal Tribunale di Milano, e poi aveva aumentato il risultato per tener conto dei pregiudizi alla vita di relazione della vittima.

In particolare, il primo giudice aveva liquidato il danno biologico in base alle suddette tabelle, ed aggiunto un ulteriore importo di 361.465 Euro, pari alla meta’ del danno biologico, per tenere conto “della totale inesistenza della vita di relazione ed al solo fine di adeguare il risarcimento alla peculiare condizione del caso”.

Pertanto, conclude la ricorrente incidentale, poiche’ il ristoro dei pregiudizi relazionali era stato gia’ considerato dal Tribunale con l’elevare il risarcimento standard del danno biologico di 361.465 Euro, la Corte d’appello liquidando un ulteriore importo a tale titolo ha duplicato il risarcimento.

3.2. Del ricorso incidentale tutti i controricorrenti hanno eccepito l’inammissibilita’, sotto vari profili.

3.2.1. (OMISSIS) e (OMISSIS) hanno eccepito la tardivita’ del ricorso incidentale, perche’ ad essi notificato presso i rispettivi genitori, i quali a causa del raggiungimento della maggiore eta’ degli intimati avevano perduto il potere rappresentativo di cui all’articolo 320 c.c..

Tale eccezione e’ inammissibile per difetto di interesse.

Il ricorso incidentale dell’Universita’, infatti, anche se indica tra i destinatari della notifica (OMISSIS) e (OMISSIS), non ha censurato alcuna statuizione della sentenza d’appello che li riguardi.

Gli stessi (OMISSIS) e (OMISSIS), infatti, correttamente ammettono nel loro controricorso (p. 21) che “l’Universita’ nulla ha lamentato nei confronti dei sigg.ri (OMISSIS) e (OMISSIS)”.

Pertanto, non potendo nuocere in alcun modo il ricorso dell’Universita’ alla posizione dei suddetti, nemmeno mette conto stabilire se il ricorso fu ad essi notificato tempestivamente o intempestivamente.

Nemmeno e’ necessario scrutinare tale eccezione ai fini delle spese di lite, dal momento che, mancando qualsiasi domanda dell’Universita’ nei confronti dei germani (OMISSIS), nemmeno sarebbe concepibile una sua soccombenza rispetto ad essi.

3.2.2. La difesa di (OMISSIS), come in epigrafe rappresentato, ha poi eccepito l’inammissibilita’ del ricorso dell’Universita’ per tardivita’.

A fondamento di tale eccezione ha formulato una tesi cosi’ riassumibile:

(-) (OMISSIS), minorenne all’epoca dell’introduzione del giudizio d’appello, divenne maggiorenne, e venne dichiarato interdetto, nel corso del giudizio di gravame (protrattosi per ben nove anni);

(-) l’Universita’ venne portata a conoscenza di tale circostanza allorche’ le venne notificata la copia esecutiva della sentenza d’appello (18.4.2014) ed il precetto (18.9.2014), atti dai quali risultava che tutore dell’interdetto era la madre, (OMISSIS);

(-) l’Universita’ tuttavia notifico’ il suo ricorso per cassazione non a (OMISSIS) nella qualita’ di tutore di (OMISSIS), ma a (OMISSIS) “quale genitore e legale rappresentante di (OMISSIS)” (cosi’ il controricorso, p. 20).

Questo avrebbe comportato, secondo la difesa del controricorrente, l'”inesistenza” della notifica.

3.2.3. L’eccezione sopra riassunta e’ manifestamente infondata.

Il ricorso dell’Universita’ e’ stato notificato a (OMISSIS) quale rappresentante di (OMISSIS), ed e’ lo stesso controricorrente ad ammettere che a quella data (OMISSIS) era effettivamente la rappresentante di (OMISSIS).

L’atto, dunque, ha raggiunto il suo scopo, e nulla rileva quale fosse il titolo del potere rappresentativo del destinatario: se, cioe’, la legge (articolo 320 c.c.) od il provvedimento giurisdizionale di interdizione.

3.3. Nel merito, il primo motivo del ricorso incidentale e’ infondato.

La Corte d’appello, infatti, non ha liquidato nuove voci di danno in aggiunta a quelle gia’ liquidate dal Tribunale, ne’ ha risarcito pregiudizi identici, chiamandoli con nomi diversi.

La Corte d’appello ha semplicemente ritenuto che l’importo liquidato dal Tribunale a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale fosse incongruo, rispetto alle circostanze del caso concreto, e ne ha percio’ elevato l’ammontare (come si desume dalla p. 13, secondo capoverso, della sentenza impugnata): si tratta dunque d’una valutazione di merito, non censurabile in questa sede.

4. Il secondo motivo del ricorso incidentale.

4.1. Col secondo motivo di ricorso l’Universita’ lamenta che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3. E’ denunciata, in particolare, la violazione degli articoli 1223 e 2056 c.c..

Deduce, al riguardo, che la Corte d’appello ha sovrastimato il danno patrimoniale da soppressione della capacita’ di lavoro patito dalla vittima primaria.

Espone che la Corte d’appello ha liquidato tale danno in forma di capitale, ottenuto capitalizzando il reddito annuo che la vittima, se fosse stata sana, avrebbe verosimilmente guadagnato (determinato in via equitativa in misura pari al triplo della pensione sociale).

Tuttavia, prosegue la ricorrente incidentale, la capitalizzazione sarebbe dovuta avvenire in base ad un coefficiente corrispondente all’eta’ che la vittima avrebbe avuto al momento dell’ingresso nel mondo del lavoro, perche’ e’ solo da quel momento che nel patrimonio della vittima si sarebbe iniziato a produrre il mancato guadagno.

4.2. Il motivo e’ fondato nella parte in cui deduce la violazione dell’articolo 1223 c.c..

Il danno patrimoniale derivante dalla perdita definitiva della capacita’ di lavoro e’ un danno permanente.

I danni permanenti possono essere liquidati sia in forma di rendita (articolo 2057 c.c.), sia in forma di capitale.

Per trasformare in capitale una rendita negativa, qual e’ la perdita costante e definitiva d’un reddito atteso, puo’ procedersi col metodo della capitalizzazione, consistente nel moltiplicare il reddito perduto per un coefficiente di costituzione delle rendite vitalizie, ovvero un numero idoneo a trasformare il valore d’una rendita percepibile per anni in un capitale di valore equivalente.

I coefficienti di costituzione delle rendite vitalizie vengono calcolati sulla base delle tavole di mortalita’ della popolazione residente, e variano in funzione inversa dell’eta’ dell’avente diritto: minore e’ l’eta’ di questi, maggiore e’ il coefficiente (e quindi il prodotto dell’operazione).

4.2. Quando il danno da perdita della capacita’ di lavoro sia patito da persona che aveva gia’, al momento del fatto illecito, un reddito da lavoro, questa Corte ha gia’ ripetutamente affermato che la liquidazione del danno in esame deve avvenire:

(a) sommando e rivalutando i redditi perduti dalla vittima, a causa dell’infortunio, dal momento dell’illecito al momento della liquidazione: per tale periodo, infatti, il lucro cessante e’ certo e gia’ verificatosi;

(b) capitalizzando i redditi futuri che la vittima presumibilmente perdera’, dal momento della liquidazione in poi, in base ad un coefficiente di capitalizzazione corrispondente all’eta’ della vittima al momento in cui si compie l’operazione di liquidazione (Sez. 3, Sentenza n. 5795 del 11/06/1998; Sez. 3, Sentenza n. 11439 del 18/11/1997; Sez. 3, Sentenza n. 6403 del 28/11/1988; Sez. 3, Sentenza n. 5850 del 30/10/1980).

4.3. Analogo criterio non puo’, invece, essere adottato quando la capacita’ di lavoro venga perduta da un fanciullo o, come nel nostro caso, da un neonato.

Per comprendere questo principio occorre muovere dal rilievo, gia’ da molti anni compiuto da questa Corte, che la c.d. “incapacita’ lavorativa” non e’ il danno: essa e’ solo la causa del danno, il quale e’ invece costituito dalla perdita o dalla riduzione del reddito da lavoro (cosi’ gia’, lucidamente, Sez. 3, Sentenza n. 3961 del 21/04/1999, secondo cui “la riduzione della cosiddetta capacita’ lavorativa specifica non costituisce danno in se’ (…), ma rappresenta invece una causa del danno da riduzione del reddito).

Nel caso in cui l’infortunio totalmente invalidante sia patito da un lavoratore, la causa (perdita della capacita’ di lavoro) e l’effetto (perdita del reddito) sono contestuali. Quando si verifica la prima, sorge anche il secondo, e di conseguenza varranno le regole liquidatorie sopra ricordate: si dovra’ procedere alla sommatoria dei redditi passati, ed alla capitalizzazione dei redditi futuri, in base ad un coefficiente di capitalizzazione corrispondente all’eta’ della vittima al momento della liquidazione.

Quando, invece, la perdita della capacita’ di lavoro sia patita da soggetto che non abbia ancora raggiunto l’eta’ lavorativa, si verifica uno scarto temporale tra il momento in cui si verifica la causa di danno (la perdita della capacita’ di lavoro) e quello in cui si manifestera’ il suo effetto (la perdita del reddito da lavoro).

Quest’ultimo infatti non sorge al momento del fatto illecito, per l’ovvia considerazione che il minore, anche se fosse rimasto sano, non avrebbe comunque prodotto redditi, e di conseguenza non poteva perderli.

Il danno patito dal minore che perda la capacita’ di lavoro iniziera’, invece, a prodursi nel momento in cui la vittima, raggiunta l’eta’ nella quale, se fosse rimasto sano, avrebbe verosimilmente iniziato a lavorare, dovra’ rinunciare al lavoro ed al reddito da esso ricavabile.

Per tenere conto di questo divario temporale tra il momento dell’illecito ed il momento di insorgenza del danno il giudice di merito, quando liquida il danno permanete col metodo della capitalizzazione, puo’ teoricamente ricorrere a due sistemi:

(a) capitalizzare il reddito perduto in base ad un coefficiente corrispondente all’eta’ della vittima al momento del danno, e poi ridurre il risultato moltiplicandolo per il c.d. coefficiente di minorazione per anticipata capitalizzazione;

(b) capitalizzare il reddito perduto in base ad un coefficiente corrispondente all’eta’ della vittima al momento in cui avrebbe presumibilmente iniziato a lavorare.

Diversamente, infatti, la vittima si vedrebbe assegnare una somma di denaro a titolo di ristoro di redditi mai perduti, e cio’ costituirebbe una violazione dell’articolo 1223 c.c..

4.4. La sentenza impugnata non si e’ attenuta a questi principi.

Col proprio atto d’appello, infatti, l’Universita’ si era doluta del fatto che la Corte d’appello avesse liquidato il danno da perdita della capacita’ di lavoro patito da (OMISSIS) omettendo di capitalizzare il reddito da questi perduto in base ad un coefficiente di capitalizzazione corrispondente all’eta’ che la vittima avrebbe avuto al momento di ingresso nel mondo del lavoro.

La Corte d’appello ha rigettato tale doglianza, ma totalmente travisandone il senso: si legge infatti a p. 9, ultimo capoverso, e 10, primo capoverso, della sentenza impugnata, che era facolta’ del Tribunale, nel liquidare equitativamente il danno in questione, fare riferimento alla “pensione sociale del giorno in cui e’ stata decisa la controversia, anziche’ a quella del giorno dell’evento”.

Cosi’ giudicando, la Corte d’appello da un lato sembra avere frainteso l’effettivo contenuto dell’appello proposto dall’Universita’, col quale si lamentava che la sovrastima del danno patrimoniale era dipesa non gia’ dall’aver posto a base del calcolo un reddito sovrastimato, ma dall’aver adottato un coefficiente di capitalizzazione sovrastimato.

Dall’altro lato, in ogni caso, la liquidazione in forma di capitale sarebbe dovuta avvenire, per quanto detto, ponendo a base del calcolo un coefficiente di capitalizzazione corrispondente all’eta’ della vittima al momento in cui avrebbe verosimilmente iniziato a lavorare; ovvero, se tale eta’ fosse gia’ trascorsa al momento della decisione d’appello, in base ad un coefficiente corrispondente all’eta’ della vittima al momento della liquidazione (nel 2013, epoca della sentenza d’appello, (OMISSIS) aveva infatti ormai 24 anni compiuti di eta’).

4.5. Rispetto ai rilievi che precedono, non sembrano decisive le controdeduzioni svolte dai coniugi (OMISSIS) alle pp. 31-37 del proprio controricorso.

I controricorrenti al secondo motivo del ricorso principale hanno opposto tre eccezioni:

(a) che esso non sarebbe decisivo, in quanto investe una soltanto delle plurime rationes decidendi su cui la sentenza impugnata si fonda, sul punto della stima del danno da incapacita’ di lavoro;

(b) che esso sarebbe comunque infondato, perche’ la statuizione impugnata e’ conforme al consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui “il criterio di capitalizzazione di cui al Regio Decreto n. 1403 del 1922 non e’ tassativo ed inderogabile”;

(c) infine, che i coefficienti di capitalizzazione invocati dalla ricorrente (quelli, appunto, allegati al r.d. 1403 del 1922) sono anacronistici, perche’ basati sulle tavole di mortalita’ ricavate dal censimento del 1911.

4.5.1. La prima di tali eccezioni non coglie nel segno, in quanto la sentenza impugnata non contiene affatto plurime rationes decidendi. La Corte d’appello ha infatti rigettato l’appello dell’Universita’, su questo punto, limitandosi ad affermare che il danno in questione va liquidato in via equitativa, e quindi puo’ essere stimato anche con criteri diversi dai coefficienti allegati al Regio Decreto n. 1403 del 1922.

Si tratta dunque d’una sola ratio decidendi (errata, per quanto detto, giacche’ l’appellante non pose il problema di quale coefficiente applicare, ma dell’eta’ cui il coefficiente comunque individuato doveva corrispondere).

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