SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
S.U.P.
SENTENZA 14 aprile 2014, n. 16208
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 9 novembre 2009, la Corte di appello di Ancona, accogliendo l’appello del Pubblico Ministero proposto avverso la sentenza di proscioglimento pronunciata, in sede di giudizio abbreviato, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Camerino il 7 giugno 2004, ha dichiarato C.E. colpevole dei reati di concussione e violenza sessuale contestati ai capi G), H), I), L) ed M) della rubrica.
La Corte territoriale unificava tutti i reati anzidetti sotto il vincolo della continuazione e riteneva più grave il reato di violenza sessuale di cui al capo L) perché per tale reato era prevista la pena edittale minima più elevata, fissava per esso la pena-base in anni sei di reclusione, ridotta ad anni quattro per la concessione delle attenuanti generiche, dichiarate prevalenti rispetto alla aggravante di cui all’art. 61, n. 5, cod. pen, contestata al capo I) ed applicate nella loro massima estensione, aumentava detta pena ad anni cinque di reclusione ex art. 81 cod. pen. – determinando tale aumento in mesi tre di reclusione per ciascuno dei reati-satellite, vale a dire le concussioni di cui ai capi G) ed H) e le violenze sessuali di cui ai capi I) ed M) – ridotta ad anni tre e mesi quattro di reclusione per la scelta del rito.
La Corte di cassazione, con sentenza del 19 aprile 2011, annullava tale decisione, limitatamente alla individuazione della violenza sessuale, in luogo della concussione, quale reato più grave ai fini dell’applicazione della disciplina del reato continuato e rinviava alla Corte di appello di Perugia per nuovo esame in ordine alla rideterminazione della pena, rigettando nel resto il ricorso.
In sede di rinvio, la Corte di appello di Perugia con sentenza del 28 febbraio 2012, nel confermare la condanna del C. in ordine ai reati al medesimo ascritti, determinava, con la diminuente di cui all’art. 442 cod. proc. pen., la stessa pena finale di anni tre e mesi quattro di reclusione già fissata con la sentenza poi annullata dalla Corte di cassazione, sulla base della seguente scansione. Stabiliva per il delitto di concussione di cui al capo G) la pena-base di anni cinque di reclusione, quale pena non inferiore al minimo edittale previsto per il reato-satellite di violenza sessuale in continuazione; riduceva detta pena per le attenuanti generiche ad anni tre e mesi quattro di reclusione; aumentava la pena per la continuazione con il delitto di concussione di cui al capo H) ad anni quattro e mesi sei di reclusione; ulteriormente aumentava la pena ad anni cinque di reclusione per la continuazione con i delitti di violenza sessuale di cui ai capp I), L) ed M), pena alla quale si perveniva operando un aumento di mesi due di reclusione per ciascuno dei delitti di violenza sessuale di cui ai capi anzidetti. La scelta del rito comportava, infine, la riduzione di un terzo della pena di anni cinque di reclusione, determinandosi per l’effetto in anni tre e mesi quattro di reclusione la pena finale.
2. Avverso la sentenza pronunciata dal giudice del rinvio ha proposto ricorso per cassazione il difensore, il quale lamenta violazione di legge in riferimento agli artt. 597, comma 3, e 627, comma 3, cod. proc. pen.. Ad avviso del ricorrente, a seguito della pronuncia di annullamento, l’oggetto del giudizio della Corte di appello era infatti limitato alla sola individuazione del reato più grave, e, quindi, alla determinazione della pena per lo stesso e per il reato che erroneamente era stato assunto come più grave dalla decisione impugnata e divenuto, pertanto, reato-satellite.
Il vincolo derivante dalla decisione di legittimità, importerebbe, infatti, l’impossibilità, per il giudice del rinvio, di modificare l’entità della diminuzione della pena per effetto delle concesse attenuanti generiche e di aumentare la pena a titolo di continuazione in misura diversa da quella stabilita dal precedente giudice del merito; determinandosi, altrimenti, la violazione del principio del divieto di reformatio in peius. Principio, questo, che non risulterebbe nella specie rispettato, in quanto la sentenza della Corte di appello di Ancona era stata impugnata dal solo imputato; così come sarebbe stato violato anche l’art. 627 cod. proc. pen., avendo la sentenza impugnata travalicato il giudicato parziale già formatosi.
Infatti, sottolinea al riguardo il ricorrente, la Corte di appello di Perugia ha sì diminuito la pena prevista per il reato più grave – portandola da sei a cinque anni di reclusione – ma ha poi applicato una diminuzione per le attenuanti generiche di entità inferiore a quella disposta dalla Corte di appello di Ancona ed ha previsto l’aumento per il reato satellite di cui al capo H) in misura superiore rispetto a quella determinata con la precedente decisione.
3. La Quarta Sezione penale, cui il ricorso era stato assegnato in base alle disposizioni tabellari, ha sottolineato come, nella specie, la Corte di appello di Perugia, mantenendo inalterata la pena finale, ha determinato la pena prevista per il reato più grave in misura inferiore a quella stabilita nella pronuncia annullata, portandola da sei a cinque anni di reclusione, e – diversamente da quanto dedotto dal ricorrente – ha applicato una diminuzione per le attenuanti generiche di entità pari (nella misura massima di un terzo) a quella stabilita dalla Corte di appello di Ancona, ed ha inoltre previsto tre aumenti per i reati-satellite di cui ai capi I), L) ed M) di minore entità rispetto alle statuizioni adottate nella pronuncia annullata, avendo il giudice del rinvio determinato l’aumento in mesi due di reclusione per ciascuno degli episodi in continuazione, anziché in mesi tre come stabilito nella sentenza poi annullata da questa Corte. Tuttavia, ed in conformità a quanto denunciato dal ricorrente, la sentenza impugnata ha stabilito in anni uno e mesi due di reclusione l’aumento a titolo di continuazione per il reato di cui al capo H), per il quale la precedente sentenza aveva fissato un aumento di mesi tre di reclusione.
La questione introdotta con il ricorso sarebbe, dunque, così sintetizzabile: se, nel caso di impugnazione del solo imputato, nel giudizio di rinvio che concerna l’applicazione della disciplina del reato continuato, il divieto di reformatio in peius riguardi soltanto la pena inflitta, quale risultante delle diverse operazioni di calcolo, le quali possono essere condotte in modo da produrre addendi diversi da quelli fissati nel procedimento oggetto di annullamento, ovvero abbia ad oggetto, non soltanto il risultato finale, ma anche tutti gli elementi del calcolo della pena.
4. Al riguardo, la Quarta Sezione avendo registrato un contrasto di giurisprudenza, ha rimesso la questione a queste Sezioni Unite con ordinanza del 23 gennaio 2013.
In proposito, la Sezione rimettente sottolinea come sul punto occorra partire dalla decisione delle Sezioni Unite con la quale si è affermato che nel giudizio di appello, il divieto di reformatio in peius della sentenza impugnata dall’imputato non riguarda solo l’entità complessiva della pena, ma tutti gli elementi autonomi che concorrono alla sua determinazione, per cui il giudice di appello, anche quando escluda una circostanza aggravante e per l’effetto irroghi una sanzione inferiore a quella applicata in precedenza (art. 597, comma 4, cod. proc. pen.), non può fissare la pena-base in misura superiore rispetto a quella determinata in primo grado (Sez. U, n. 40910 del 27/09/2005, William Morales, Rv 232066). Secondo tale pronuncia, infatti, la disposizione contenuta nel comma 4 dell’art. 597 cod. proc. pen., individua quali elementi autonomi, pur nell’ambito della pena complessiva, sia gli aumenti o le diminuzioni apportati alla pena-base per le circostanze, sia l’aumento conseguente al riconoscimento del vincolo della continuazione. Da ciò deriva che, non soltanto è obbligatoria la diminuzione della pena complessiva, ove sia accolto l’appello dell’imputato in ordine alle circostanze o al concorso di reati, anche se unificati per la continuazione, ma deve ritenersi precluso l’aumento della pena inflitta per ciascuno degli indicati elementi, pur risultando diminuita quella complessiva a seguito dell’accoglimento dell’appello proposto con riferimento non alle circostanze o al concorso di reati, ma per altri motivi: e ciò, quale conseguenza dell’effetto devolutivo dell’appello, a norma dell’art. 597, comma 1, cod. proc. pen., posto che l’ambito oggettivo del devolutum si raccorda ai motivi proposti, i quali, a loro volta, si precisano in funzione delle richieste e cioè del petitum sostanziale perseguito attraverso la impugnazione. Principio, quello affermato dalle Sezioni Unite, che, per giurisprudenza consolidata, vale anche per il giudizio di rinvio (ex plurimis, Sez. 1, n. 28862 del 18/06/2008, Giunta, Rv. 240461).
5. Il principio in questione, tuttavia – puntualizza la Sezione rimettente – è stato contrastato da alcune pronunce successive. Si è infatti affermato, accogliendo la tesi respinta dalle Sezioni Unite, che il divieto di reformatio in peius concerne il dispositivo e riguarda unicamente la pena complessiva e non i singoli elementi che la compongono o i calcoli effettuati per giungere alla sua determinazione, ivi compresi gli aumenti e le diminuzioni; per cui, in motivazione, il giudice può rideterminare la pena per il reato-base nel massimo edittale in senso sfavorevole all’imputato, sempre che non irroghi una pena complessiva più grave di quella precedentemente inflitta (Sez. 1, n. 13702 del 13/03/2007, Santapaola, Rv 236433). Anche in altra successiva pronuncia si è ribadito che il divieto della reformatio in peius riguarda soltanto il risultato finale dell’operazione di computo della pena e non anche i criteri di determinazione della medesima e i relativi calcoli di pena-base o intermedi. (Sez. 3, n. 25606 del 24/03/2010, Capolino, Rv. 247739), dal momento che esso concerne la parte dispositiva della sentenza e non si estende alla motivazione nella cui formulazione il giudice non può subire condizionamenti.
Si è pure affermato – rammenta ancora la Sezione rimettente – che il principio enunciato dalle Sezioni Unite “può operare soltanto quando la pena-base venga rimodulata con riferimento allo stesso reato, mentre non si attaglia al caso […] in cui il giudice di appello, nell’applicare la continuazione, ridetermini la pena-base con riferimento a un reato diverso da quello erroneamente individuato dal primo giudice, nell’esercizio del potere-dovere di correggere gli errori di diritto contenuti nella sentenza gravata”, pervenendo comunque, per effetto del riconoscimento di una circostanza attenuante, alla riduzione della pena conclusivamente applicata. (Sez. 5, n. 12136 del 02/12/2011, dep. 2012, Mannavola, Rv. 252699).
Ma sarebbe proprio con riferimento alla ipotesi in cui l’annullamento abbia avuto ad oggetto la condanna per il reato ritenuto più grave che la giurisprudenza avrebbe dato vita a soluzioni non del tutto coincidenti. Da un lato, infatti, si afferma che nel giudizio di rinvio l’assoluzione per il reato più grave di una continuazione criminosa fa operare il divieto della reformatio in peius, nella parte della condanna per i reati-satellite, nei termini di vincolo all’irrogazione di una pena complessivamente inferiore a quella già inflitta, senza riferimento alle singole componenti e, quindi, senza vincolo di inderogabilità in peius della pena-base individuata nel limite edittale minimo fissato per il reato più grave, per il quale è poi intervenuta l’assoluzione (Sez. 6, n. 31266 del 16/06/2009, Buscemi, Rv. 244793). In altre pronunce, segnala ancora l’ordinanza di rimessione, parrebbe emergere un diverso orientamento, giacché in esse si afferma che il giudice, in ossequio al divieto di reformatio in peius, non può irrogare una pena che, per specie e quantità, costituisca un aggravamento di quella applicata nel giudizio precedente all’annullamento parziale, quale base per il computo degli aumenti a titolo di continuazione; mentre non sarebbe vincolato, nella determinazione della pena per il meno grave reato residuo, alla quantità di pena già individuata quale aumento ex art. 81, cpv., cod. pen. (Sez. 6, n. 4162 del 07/11/2012, dep. 2013, Ancona, Rv. 254263; Sez. 1, n. 28862 del 18/06/2008, Giunta, Rv. 240461).
6. Emergerebbe, dunque, un orientamento giurisprudenziale non sintonico rispetto al principio affermato dalle Sezioni Unite nella richiamata sentenza n. 40910 del 2005; principio che, conclude la Sezione rimettente, si fonda su “premesse interpretative che non appaiono revocabili a seconda che l’intervento rescindente abbia inciso eliminando il reato più grave (come in ipotesi di assoluzione o di estinzione del reato etc.) ovvero uno dei reati-satellite o una circostanza del reato; oppure abbia unicamente colpito le modalità applicative dell’istituto della continuazione (come nel caso che qui occupa)”.
Considerato in diritto
1. La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite riguarda dunque il seguente quesito: ‘se violi o meno il divieto di reformatio in peius di cui all’art. 597, comma 3, cod. proc. pen., il giudice di rinvio che, individuata la violazione più grave a norma dell’art. 81, secondo comma, cod. pen., in conformità a quanto stabilito nella sentenza della Corte di cassazione, apporti per uno dei reati in continuazione un aumento maggiore rispetto a quello ritenuto dal primo giudice, pur non irrogando una pena complessivamente maggiore’.
Il punto di partenza della disamina condotta dalla Sezione rimettente in ordine alle diverse prospettive ermeneutiche secondo le quali si è articolata la giurisprudenza di legittimità a proposito della questione devoluta alle Sezioni Unite, è rappresentato dalla sentenza Sez. U, n. 40910 del 27/09/2005, William Morales, Rv. 232066, dichiaratamente postasi in una linea di continuità con quanto già affermato nelle sentenze Sez. U, n. 4460 del 19/01/1994, Cellerini, Rv. 196894 e Sez. U, n. 5978 del 12/05/1995, Pellizzoni, Rv. 201034. Questa decisione, infatti, pur non occupandosi dello specifico tema della applicazione del divieto di reformatio in peius al reato continuato, ha tuttavia enunciato in modo netto il principio generale secondo cui la regola riguarda non solo l’entità complessiva della pena, ma anche tutti gli elementi che concorrono alla determinazione di quest’ultima.
Operando, infatti, un raffronto tra la previsione dettata dall’art. 597, comma 3, cod. proc. pen. e la corrispondente disposizione del codice abrogato, mentre non potevano ravvisarsi significative novità in merito ai criteri di individuazione del devolutum, il perimetro dei contenuti decisori inerenti il divieto di reformatio in peius appariva ora meglio precisato ed esteso, attraverso il riferimento alle iniziative ex officio adottabili in favore dell’imputato. D’altra parte, un indicatore di rilievo circa la voluntas legis era offerto dalla previsione dettata dall’art. 597, comma 4, cod. proc. pen., attraverso il quale, come puntualizzato dalla stessa Relazione al Progetto Preliminare, era trasparente l’intendimento di superare la giurisprudenza formatasi sotto la vigenza del vecchio codice, secondo la quale, in presenza della impugnazione del solo imputato, il giudice di appello poteva -. vanificando la portata del divieto – confermare la pena complessiva irrogata in primo grado malgrado l’applicazione di circostanze attenuanti o la eliminazione di circostanze aggravanti o di reati concorrenti. Da qui, il corollario per il quale il codice del 1988 avrebbe inteso “rafforzare il divieto della reformatio in peius”, sottolineandosi come la preclusione circa l’aumento di pena per le circostanze o i reati concorrenti fosse conseguenza anche dell’effetto devolutivo dell’appello.
La pronuncia in esame osservò, infatti, che “la previsione normativa secondo cui l’appello attribuisce al Giudice di secondo grado la cognizione del procedimento limitatamente ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti, non si limita a circoscrivere l’ambito oggettivo entro cui il giudice di secondo grado può operare, ma, con l’esplicito riferimento ai ‘motivi proposti’, lascia chiaramente intendere che, entro quell’ambito oggettivo, la decisione non può che essere nel senso dell’accoglimento o della reiezione, in tutto o in parte, dei suddetti motivi, i quali, a loro volta, come è dato rilevare dal testuale tenore dell’art. 581 cod. proc. pen., sono strettamente collegati alle richieste, cioè al petitum sostanziale dell’impugnazione, rappresentando, rispetto ad esso, per mutuare le categorie civilistiche, l’equivalente della causa petendi”.
2. A fronte di tali ineludibili dicta, la giurisprudenza successiva ha fatto mostra di aderire generalmente al principio secondo cui il limite stabilito dal divieto di reformatio in peius si riferisce non solo alla pena complessiva, ma anche ai singoli elementi che la compongono.
Tuttavia, e come sottolineato dalla stessa Sezione rimettente, non mancano pronunce che tendono a discostarsi dal principio enunciato dalle Sezioni Unite nella richiamata pronuncia. Risulta, inoltre, diffuso l’orientamento che distingue circa il funzionamento della regola, nella ipotesi in cui il giudice di appello o di rinvio debba individuare nuovamente il reato più grave per il proscioglimento dell’imputato dall’addebito precedentemente ritenuto tale, e che, in simili casi, applica il divieto come preclusione per il nuovo giudice di fissare una pena-base più elevata di quella fissata nel giudizio anteriore.
Nella ipotesi, invece, in cui nel nuovo giudizio non sia mutata l’individuazione del reato più grave, il divieto di reformatio in peius è stato applicato secondo un parametro di assoluta identità dei singoli elementi di calcolo della pena complessiva (tra le tante, Sez. 6, n. 45866 del 15/05/2012, Costanzo, Rv. 254129; Sez. 1, n. 42132 del 26/09/2012, Stassi, Rv. 253612; Sez. 2, n.28042 del 05/04/2012, Vannucci, Rv. 253245). Criterio, questo, ritenuto operante tanto nel caso in cui si trattasse di rideterminare la pena-base relativa al reato più grave (Sez. 4, n. 37980 del 03/06/2008, Ahrad, Rv. 241216), quanto nella eventualità in cui dovessero essere rideterminati i segmenti di pena inerenti alle circostanze (ex plurimis, Sez. 4, n. 47341 del 28/10/2005, Salah, Rv. 233177) o quelli concernenti i reati-satellite (Sez. 2, n. 28042 del 2012, Vannucci, cit.; Sez. 5, n. 39373 del 21/09/2011, Costantini, Rv. 251521; Sez. 6, n. 41625 del 07/10/2009, Tfara, Rv. 245015).
3. Decisamente minoritario è l’orientamento che sembra porsi in termini non sintonici rispetto alla tesi affermata dalle Sezioni Unite, anche se le relative pronunce non hanno dichiaratamente posto in luce l’esistenza del contrasto (Sez. 2, n. 36219 del 16/06/2011, Signoretta, Rv. 251161; Sez. 3, n. 25606 del 24/03/2010,Capolino, Rv. 247739; Sez. 1, n. 13702 del 13/03/2007, Santapaola, Rv. 236433). L’argomento addotto a sostegno della applicazione del divieto di reformatio in peius soltanto al risultato finale della operazione di computo della pena, e non anche ai criteri di determinazione ‘frazionata’ della stessa ed ai relativi calcoli di pena-base o intermedi, è stato essenzialmente quello secondo cui il limite in questione “concerne la parte dispositiva della sentenza e non si estende alla motivazione nella cui formulazione il giudice non può subire condizionamenti”. Si è al riguardo pure puntualizzato che “il computo della pena è esplicazione di un potere discrezionale del quale il giudicante deve dare conto al fine di consentire [alla Corte di cassazione], di esercitare la funzione di controllo che le è propria. Una volta che, però, si rinvenga una motivazione aderente ai dati processuali e che giunga a conclusioni che non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico, esse non sono censurabili in cassazione” (Sez. 3, n. 25606 del 2010, Capolino, cit.).
4. A prospettive ricostruttive meno incerte la giurisprudenza è pervenuta nella ipotesi in cui nel nuovo giudizio sia mutata la individuazione del reato più grave, giacché in una simile eventualità si è di regola escluso che la rideterminazione della pena del nuovo reato più grave in termini peggiorativi rispetto a quelli fissati per il medesimo reato quale reato-satellite dal giudice precedente contrasti con il divieto di reformatio in peius (tra le tante, Sez. 6, n. 4162 del 07/11/2012, dep. 2013, Ancona, Rv. 254263; Sez. 5, n. 12136 del 02/12/2011, Mannavola, Rv. 252699; Sez. 4, n. 41585 del 04/11/2010, Pizzi, Rv. 248549; Sez. 6, n. 18301 del 11/05/2010, Benadras, Rv. 247013; Sez. 1, n. 41310 del 07/10/2009, Huang, Rv. 245042).
Il nucleo della tesi secondo la quale è consentito al giudice procedere alla rideterminazione della pena per il nuovo reato più grave senza tenere conto di quella irrogata per lo stesso reato come satellite, è generalmente individuato nel dissolversi della sequenza sanzionatoria e dei relativi parametri di commisurazione, insiti nel fenomeno del reato continuato, sottolineandosi, al riguardo, come, in ipotesi di mutamento della fattispecie più grave, venga meno la stessa “unità ontologica della ritenuta continuazione, nella sua struttura costituita dal reato già individuato più grave e dai reati-satellite” (Sez. 6, n. 31266 del 16/06/2009, Buscemi, Rv. 244793). Si è anche aggiunto che lo “scioglimento della continuazione o del concorso formale, qualora determini la elisione della pena già fissata per il reato base, fa […] acquistare ai reati-satellite la loro autonomia, il che comporta che le pene devono essere nuovamente fissate per i singoli reati secondo la loro astratta previsione” (Sez. 1, n. 46533 del 11/10/2005, Pesce, Rv. 232980).
A fronte, peraltro, di una regula iuris declinata in termini sostanzialmente sintonici, la platea delle decisioni finisce poi per divergere non poco allorché le pronunce si impegnano nel definire l’estensione del potere del nuovo giudice nella rideterminazione, in concreto, del trattamento sanzionatorio.
In alcune circostanze, infatti, si afferma che la nuova pronuncia, se “non potrà irrogare nel complesso una pena superiore a quella precedentemente irrogata per tutti i reati, compreso quello eliminato, potrà e dovrà procedere ad una determinazione della pena per i reati residui maggiore di quella fissata ai fini dell’aumento ai sensi dell’art. 81 cod. pen.”, dal momento che il divieto sancito dalla sentenza delle Sezioni Unite William Morales relativo anche ai calcoli intermedi può trovare applicazione “soltanto nelle ipotesi in cui il reato continuato conservi anche nel giudizio di impugnazione la sua entità ontologica” (Sez. 6, n. 31266 del 2009, Buscemi, cit.; in senso sostanzialmente analogo Sez. 6, n. 18301 del 2010, Benadras, cit.; Sez. 1, n. 32621 del 16/06/2009, Amoriello, Rv. 244299; Sez. 5, n. 12136 del 2011, Mannavola, cit.).
In altre circostanze si è invece ritenuto che la regola del divieto di reformatio in peius debba essere in tal caso “letta nel senso che il giudice di rinvio non può irrogare una pena che, per specie e quantità, costituisca un aggravamento di quella individuata, nel giudizio precedente all’annullamento parziale, quale base per il computo degli aumenti ex art. 81 cod. pen.” (Sez. 1, n. 28862 del 18/06/2008, Giunta, Rv. 240461; Sez. 6, n. 4162 del 2013, Ancona, cit.). Una linea, questa, nella quale sembra iscriversi l’orientamento secondo cui sarebbe possibile fissare una nuova pena-base in misura superiore al minimo edittale, pur se quella precedente – sebbene più elevata – fosse parametrata a tale limite, sul rilievo che in una ipotesi siffatta non si tratterebbe “di rideteminare un elemento per il calcolo della pena, già presente nella sentenza di primo grado, bensì di esercitare un nuovo potere discrezionale di determinazione della pena-base per un reato diverso da quello ritenuto nella sentenza appellata” e che, quindi, “in questo caso la valutazione del giudice è libera, con il solo limite di non superare la pena-base per il reato ritenuto in primo grado ovvero con l’obbligo di ridurre la pena qualora il reato ritenuto in appello sia meno grave (Sez. 5, n. 14991 del 12/01/2012, Strisciuglio, non massimata sul punto).
In termini invece integralmente adesivi alle affermazioni enunciate nella sentenza William Morales si è al contrario ritenuto che anche la fissazione per il nuovo reato ritenuto più grave della medesima pena-base determinata dal giudice di primo grado per il reato da questi ritenuto più grave integrerebbe una violazione del divieto di reformatio in peius, in quanto contrastante col disposto dell’art. 597, comma 4, cod. proc. pen. (Sez. 4, n. 41585 del 04/11/2010, Pizzi, Rv. 248549. V. anche n. 41310 del 2009, Huang, cit.).
5. Un ulteriore significativo spunto di riflessione, ai fini di una ricomposizione del complesso quadro tracciato dalla giurisprudenza di legittimità sulla tematica che qui interessa, è stato offerto dalla recente sentenza Sez. U, n. 33752 del 18/04/2013, Papola, Rv. 255660, ove si è affermato il principio secondo cui il giudice di appello, dopo aver escluso una circostanza aggravante o riconosciuto un’ulteriore circostanza attenuante in accoglimento dei motivi proposti dall’imputato, può, senza incorrere nel divieto di reformatio in peius, confermare la pena applicata in primo grado, ribadendo il giudizio di equivalenza tra le circostanze, purché questo sia accompagnato da adeguata motivazione. In particolare, in tele pronuncia la Corte, muovendo dalla stretta correlazione che può intravedersi tra l’effetto devolutivo dell’appello e il divieto di reformatio in peius ove appellante sia il solo imputato, ha osservato come il divieto stesso non possa applicarsi anche alle ipotesi derogatorie rispetto alla regola dell’effetto parzialmente devolutivo, tra cui quelle previste dal comma 5 dell’art. 597 cod. proc. pen., e quindi anche al giudizio di comparazione tra circostanze, per le quali l’ambito della cognizione non è condizionato dai motivi devoluti. Con specifico riferimento, poi, alla previsione dettata dall’art. 597, comma 4, cod. proc. pen., la pronuncia in esame ne ha circoscritto la portata, rilevando che “l’obbligo di corrispondente diminuzione della pena […] è limitato all’accoglimento dell’appello dell’imputato relativo a circostanze o reati concorrenti, ossia solo – come è lecito desumere dalla stretta correlazione tra la locuzione finale (la pena complessiva irrogata è corrispondentemente diminuita) ed il precedente riferimento ai motivi accolti (se è accolto l’appello del’imputato relativo a circostanze o a reati concorrenti, anche se unificati per la continuazione) – ad ipotesi interessate da un metodo di calcolo comportante mere operazioni di aggiunta od eliminazione di entità autonome di pena rispetto alla pena-base, senza accenno alcuno ad ipotesi implicanti un giudizio di comparazione”.
6. Il caleidoscopio attraverso il quale si snodano le varie prospettive ermeneutiche secondo le quali si è mossa la giurisprudenza di legittimità, genera una gamma multiforme di approdi, che neppure i diversi interventi delle Sezioni Unite sono valsi a ricondurre ad effettiva unità, malgrado la sostanziale assenza di contrasti espressamente dichiarati. Il tema del divieto di reformatio in peius, d’altra parte, ha origine risalente, così come altrettanto risalenti sonno le polemiche che lo hanno costantemente accompagnato, in una con le difficoltà incontrate dalla dottrina per inquadrarne l’essenza e ricercarne l’eventuale fondamento.
L’innesto, nel codice vigente, della disposizione dettata dall’art. 597, comma 3, e del correlativo recepimento del principio del divieto di reformatio in peius quando appellante sia il solo imputato, infatti, non rappresenta affatto una scelta di ‘novità’ e, meno ancora, una opzione priva di resistenze, come è testimoniato dall’andamento dei lavori parlamentari che hanno accompagnato l’approvazione delle legge-delega sulla riforma del processo penale, ove la direttiva n. 92, che appunto sanciva il criterio del “divieto di reformatio in peius in caso di appello del solo imputato”, non mancò di suscitare, in sede parlamentare, “consistenti contrarie affermazioni” (si vedano, in particolare, gli interventi dell’on Ci. e dell’on. T. in sede di discussione sulle linee generali nella seduta della Camera dei deputati del 1 giugno 1984 ed in sede di votazione sugli emendamenti), come puntualmente ricorda la stessa Relazione al Progetto Preliminare (pag. 130), che doverosamente aveva recepito quel criterio direttivo, peraltro di più che sedimentata tradizione codicistica.
Già nel codice del 1865, infatti, si prevedeva, all’art. 419, terzo comma, che “[se] l’appello sia stato interposto solamente dall’imputato, la pena non può essere aumentata. Lo stesso ha luogo riguardo alle altre persone che sono concorse nel medesimo reato, quand’anche non avessero appellato, in conformità all’art. 403”.
Nel codice Finocchiaro – Aprile del 1913, a sua volta, l’art. 480, secondo comma, stabiliva: “Sull’appello dell’imputato […], la sentenza non può essere riformata, nella qualità e misura della pena, a danno dell’imputato”.
Il codice del 1930, infine, così disponeva all’art. 515, terzo comma: “Quando appellante è il solo imputato, il giudice non può infliggere una pena più grave per specie o quantità, né revocare benefici, salva la facoltà, entro i limiti indicati nella prima parte di questo articolo, di dare al reato una diversa definizione anche più grave, purché non venga superata la competenza del giudice di primo grado”.
A prescindere, dunque, dal ben diverso modularsi dei vari sistemi processuali contrassegnati dal succedersi delle opere di codificazione, i connotati tipizzanti il giudizio di appello, perennemente in bilico tra la revisio prioris instantiae e l’azione di impugnativa, sono rimasti nella sostanza inalterati e tra questi, in particolare, il divieto di aggravamento della decisione appellata, ove il gravame sia attivato dal solo imputato. Tradizione plurisecolare, dunque, alla quale, peraltro, si sono accompagnate polemiche mai sopite, alimentate in particolare da chi, in dottrina, reputava non coerente la regola del divieto di decisione in peius con lo stesso principio di devoluzione, dal momento che questo, tracciando il perimetro della cognizione del giudice adito in sede di impugnazione, non ne poteva – pena una incoerenza intrinseca – resecarne il contenuto decisorio.
D’altra parte, il divieto di reformatio in peius ha storicamente convissuto, in ‘ambascioso’ reciproco condizionamento, con l’altrettanto discusso istituto rappresentato dall’appello incidentale, il quale, pur se depurato, nel codice vigente, dai profili di incostituzionalità che ne avevano contrassegnavano la dimensione ‘soggettiva’ secondo il codice abrogato, non ha cessato di ispirare atteggiamenti critici, proprio per i connotati di ‘rimedio-ostacolo’ al pieno dispiegarsi del favor insito nel divieto di reformatio in peius. Di tutto ciò, d’altra parte, v’è fedele testimonianza nella sentenza n. 280 del 1995 della Corte costituzionale, con la quale venne appunto ‘salvato’ l’appello incidentale, pur nell’alveo di una tradizione codicistica che ne aveva giustificato l’innesto proprio quale ‘antidoto’ teso a bilanciare l’abuso del rimedio impugnatorio da parte dell’imputato ed il relativo corollario di favor rappresentato dal divieto di reformatio in peius. Divieto che, va sottolineato, aveva formato oggetto di aspre contestazioni già nel corso dei lavori preparatori del codice del 1930. In particolare – ha rammentato infatti la indicata pronuncia del Giudice delle leggi – “il Guardasigilli dell’epoca sostenne in un discorso al Senato, e scrisse nella relazione al Progetto preliminare, che una volta che l’imputato appella e che il processo viene portato avanti al giudice di secondo grado, questo se ritiene inadeguata la pena inflitta dal primo giudice, deve avere il potere di aumentarla; altrimenti il suo giudizio sarebbe incompleto e incoerente. E ancora: Quando il rapporto processuale venga mantenuto in vita mediante un atto sia pure del solo imputato, il giudice assume e mantiene il potere-dovere di conoscere e di decidere, senza che alcuno possa limitarglielo o privamelo, fuori dei casi eccezionalmente consentiti dalla legge. E a queste considerazioni, chiamate di ragione logico-giuridica, altre ne aggiungeva d’ordine pratico: conviene togliere all’imputato la facoltà d’appellare senza alcun rischio, anzi col vantaggio, nella peggiore delle ipotesi, di differire il momento della esecuzione della condanna. Così facendo si ridurrà il numero degli appelli a quei soli casi che possono apparire meritevoli di riesame, perché l’imputato, conscio della possibilità della reformatio in peius, si guarderà bene dal proporre la impugnazione, quando non abbia la coscienza di meritare l’assoluzione, o quanto meno una diminuzione di pena. Se egli reclama un nuovo giudizio, deve assoggettarvisi completamente; se non vuole correre alcun rischio, si accontenti della prima sentenza. Queste proposizioni – rammentò ancora la sentenza – nella loro durezza e categoricità, non incontrarono il favore degli organismi interpellati sui contenuti del Progetto Preliminare. Di conseguenza il ministro Guardasigilli modificò le proprie vedute originarie; e – come volle scrivere nella relazione al Progetto Definitivo – non per le querimonie sprovviste di buone ragioni, che mai sarebbero state idonee a rimuoverlo dalla sua prima idea, ma per essersi convinto che ‘se la possibilità pratica della reformatio in peius appare come freno efficace al dilagare degli appelli, l’istituto giuridico, che verrebbe a porsi a base di tale pratica conseguenza, cioè il carattere devolutivo dell’appello, non può andare esente da critiche. Questo carattere dell’appello, infatti -sottolineò incisivamente il Guardasigilli dell’epoca – implica la facoltà, data anche alle parti private, di far cadere in tutto la sentenza, con un semplice atto unilaterale di volontà, negando così la natura stessa decisoria della sentenza, e trasformando il giudizio di primo grado in una specie di procedimento preparatorio, duplicato superfluo del procedimento d’istruzione. E proseguiva: Ho perciò modificato l’art. 520 (divenuto poi l’art. 515 del codice del 1930), riconoscendo al pubblico ministero la facoltà di proporre appello incidentale, quando l’impugnazione sia stata proposta dal solo imputato. In questo modo le temerarietà degli imputati rimangono frenate dalla possibilità dell’appello incidentale del pubblico ministero (che naturalmente ha tutti gli effetti dell’appello principale dello stesso pubblico ministero), e si conserva il divieto della riforma in peggio in quel caso in cui, essendo stato proposto appello dal solo imputato, il pubblico ministero non abbia ritenuto mettesse conto d’appellare a sua volta. Gli stessi concetti – rammenta conclusivamente la sentenza – il Guardasigilli ripeteva nella relazione al Re (n. 188), osservando che, mentre la Commissione parlamentare aveva espresso il parere che l’appello incidentale del pubblico ministero fosse da abolire, egli aveva ‘ammesso codesto appello esclusivamente per attenuare il rigore della regola della incondizionata possibilità della reformatio in peius accolta nel progetto preliminare”.
I nodi problematici dell’appello, che può far degradare la pronuncia di primo grado – come pure si è affermato – a mero ‘precedente storico’, sono, dunque, di risalente tradizione, e non è un caso che la dottrina abbia, specie nei tempi più recenti, insistentemente evocato l’esigenza di un ripensamento complessivo di tale rimedio impugnatorio, sottolineandone la difficile convivenza in un contesto processuale che sconta un giudizio di primo grado fortemente contrassegnato dalle stimmate del modello accusatorio. Ed è del tutto evidente che, in una cornice siffatta, gli insoddisfacenti connotati che caratterizzano, sul piano teorico e pratico, l’appello incidentale (del tutto ignorato dalle parti private e di fatto negletto dallo stesso pubblico ministero) abbiano finito per accreditare le consistenti voci critiche levatesi a proposito di un ‘beneficio’ (quello, appunto, della garanzia di un appello non ‘peggiorativo’ della decisione di primo grado) di non agevole giustificazione sistematica e di sicura incidenza sul versante dell’uso (e dell’abuso) del doppio grado di giurisdizione di merito, peraltro non imposto né dalla Costituzione, né dalle Carte internazionali (v., ex plurimis, Corte cost. sentenze n. 280 del 1995, n. 288 del 1997 e ordinanza n. 4 del 2003).
7. Varie sono le tesi che si sono misurate per fornire una giustificazione teorica del divieto di reformatio in peius, e la varietà degli accenti testimonia la opinabilità degli approdi. Secondo alcuni, infatti, la regola in questione rappresenterebbe una manifestazione del generale diritto di difesa, nel senso che esprimendo il sistema delle impugnazioni il modulo dinamico verso il raggiungimento della verità processuale, il diritto dell’imputato a perseguire i rimedi approntati dall’ordinamento va coerentemente affrancato dal rischio di andare incontro ad un aggravamento della propria posizione. Da qui l’assunto – peraltro isolato nel panorama della giurisprudenza costituzionale – secondo il quale il divieto di reformatio in peius andrebbe annoverato fra i ‘principi fondamentali dell’ordinamento’ (così Corte cost., sentenza n. 3 del 1974).
Secondo altra impostazione, il divieto in esame rinverrebbe il proprio fondamento nell’interesse ad impugnare, cui corrisponderebbe una preclusione per il giudice, il quale, anche nei confini del devolutum, non sarebbe libero di assumere le proprie determinazioni ove queste volgano in peius. Da qui i connotati di regola eccezionale, applicabile solo nei casi e nei limiti in cui essa sia espressamente prevista dalla legge. Altri, ancora, pongono a fulcro del divieto il generale paradigma del favor rei, evocato, peraltro, non come principio normativo, ma quale canone informatore dell’ordinamento, insuscettibile di applicazione analogica. Non mancano poi coloro che negano qualsiasi fondamento al principio, non derivando esso dalla struttura del giudizio di secondo grado, ma esclusivamente da una opzione legislativa, strutturalmente e funzionalmente criticabile.
Malgrado la diversità degli orientamenti, pare plausibile ritenere che, in un modello processuale fortemente contrassegnato dalla presenza dialettica delle parti, ciascuna delle quali mossa da prospettive antagoniste, insuscettibili di reciproca ‘surrogazione,’ la domanda ‘impugnatoria’ dell’una ragionevolmente possa contrassegnare l’oggetto – ma anche il perimetro – della devoluzione, giacché se il petitum sostanziale perseguito attraverso il gravame sconta – per definizione legale tipica – l’esistenza di un ‘interesse’ concreto ed attuale ad una soluzione più favorevole, è lo stesso principio della domanda a rendere ‘non eccentrica’ la preclusione giurisdizionale verso soluzioni ‘peggiorative’ rispetto alla decisione impugnata; soluzioni adottando le quali, verrebbe invece ad essere ‘superato’ l’obiettivo perseguito dal gravame, posto che al giudice della impugnazione sarebbe consentito, non soltanto di respingere l’azione impugnatoria, ma (attraverso una sorta di eterogenesi dei fini) anche di introdurre nel panorama decisorio effetti ‘novativi’, dando vita ad un aggravamento (un novum sostanziale, quindi) della posizione dell’imputato, senza ‘domanda’ della parte pubblica. Una scelta del legislatore, dunque, senz’altro non costituzionalmente (o convenzionalmente) imposta, ma che certo non può reputarsi costituzionalmente non compatibile o ‘extravagante’ rispetto all’assetto delle dinamiche processuali.
In tale quadro di riferimento, dunque, è da ritenere che la regola in questione non rappresenti una deroga rispetto al generale sistema delle impugnazioni e che, pertanto, non assuma i connotati della disposizione di carattere eccezionale.
8. Strettamente raccordato al tema della non ‘eccezionalità’ sistematica della regola del divieto di reformatio in peius è quello della relativa applicabilità anche nel giudizio di rinvio a seguito di annullamento pronunciato dalla Corte di cassazione.
Come ricorda, infatti, anche l’ordinanza di rimessione, risulta ampiamente consolidato in giurisprudenza l’orientamento secondo il quale il divieto in questione trovi applicazione anche in sede di rinvio, ove impugnante sia il solo imputato. Il principio, anzi, è stato valorizzato per affermare la necessità del raffronto della decisione del giudice del rinvio non soltanto con la sentenza di secondo grado, ma anche con le altre eventuali sentenze di rinvio precedentemente pronunciate, secondo una scansione per la quale la sequenza delle impugnazioni non può determinare conseguenze ‘regressive’ sul piano dei risultati concreti già raggiunti a seguito della progressione della regiudicanda (fra le tante pronunce che si sono espresse in questo senso v. Sez. 2 n. 3161 del 11/12/2012, F., Rv. 254536; Sez. 1, n. 36778 del 27/09/2011, Della Rovere, non massimata; Sez. 2, n. 34557 del 08/05/2009, Gaeta, Rv. 245234; Sez. 4, n. 38820 del 16/09/2008, Artico, Rv. 242119). La base giustificativa di tale assunto è generalmente individuata nel fatto che la preclusione costituisce un principio generale, come tale applicabile a tutte le impugnazioni per le quali non sia dettata una diversa disciplina E si è anche puntualizzato in una circostanza che “nel contesto del giudizio di rinvio dopo annullamento, questo giudice, tra le limitazioni stabilite dalla legge ai suoi poteri decisori, a norma dell’art. 544, quinto comma, cod. proc. pen. 1930 e 627, comma 2, cod. proc. pen. 1988, incontra anche quella costituita dal diritto dell’imputato, unico impugnante, al non peius, a non vedersi, cioè, aggravata la sua situazione sostanziale per i profili del trattamento sanzionatorio” (Sez. 1, n. 26898 del 22705/2001, Salzano, Rv. 219920).
Il principio generale del divieto di reformatio in peius, con estensione al giudizio di rinvio, è stato d’altra parte ribadito dalle Sezioni Unite (sent. n. 10750 del 11/04/2006, Maddaloni, Rv. 233729), allorché è stata affrontata la questione dell’operatività del limite in caso di annullamento della sentenza di primo o di secondo grado per effetto di una nullità che travolga l’intero giudizio. Nell’occasione, infatti, si ribadì “innanzitutto che il divieto di reformatio in peius deve trovare applicazione nel giudizio di rinvio conseguente ad annullamento pronunciato dalla Cassazione, su ricorso del solo imputato, della sentenza impugnata purché l’annullamento non travolga anche gli atti propulsivi”. Si è poi precisato che il limite non opera nei casi appena indicati perché “il concetto di reformatio in peius implica necessariamente l’esistenza di un termine di paragone rappresentato da una precedente sentenza, presupposto che viene a mancare quando questa sia cancellata, in quanto atto finale di un giudizio nullo, e perciò privo di effetti”. “Ben diversa – ha aggiunto la pronuncia – è la situazione quando in sede di legittimità venga ravvisato un vizio di motivazione o la sussistenza di invalidità di atti non propulsivi; in questa ipotesi la Cassazione è tenuta ad annullare in quanto non potrebbe essa stessa operare nuove valutazioni né rinnovare atti nulli ed allora assume significato parlare di applicazione del divieto di reformatio in peius poiché a seguito dell’annullamento si svolge una fase che fa parte del giudizio dell’impugnazione, nella quale il compito del giudice di rinvio è analogo a quello del giudice di appello e, che, al di fuori dei casi di cui all’art. 604, comma 4, cod. proc. pen., deve rimediare agli errori logici o giuridici riscontrati nel provvedimento impugnato”.
9. Ma è proprio muovendo dall’analisi delle affermazioni poste a base della pronuncia da ultimo rammentata che una isolata sentenza di questa Corte è giunta ad approdi diversi da quelli cui è pervenuta la giurisprudenza di più risalente tradizione. Tenuto conto, infatti, della ratio essendi del principio e delle connotazioni che accomunano i rimedi impugnatori a carattere devolutivo ed al giudizio di rinvio in particolare, si è osservato come il divieto di reformatio in peius non possa trovare applicazione nelle ipotesi in cui – come nella vicenda qui in esame – “il giudice del rinvio debba rinnovare un giudizio che si proietta come giudizio di appello introdotto dalla impugnazione del pubblico ministero avverso una sentenza di proscioglimento, giacché il giudice del rinvio è in questo caso chiamato a delibare – ed in tal senso è circoscritto il relativo devolutum – la correttezza o meno di quel proscioglimento, senza soffrire le limitazioni, in punto di trattamento sanzionatorio, che invece gli si offrivano ove l’oggetto del suo giudizio di appello fosse uno statuto di condanna, impugnato dal solo imputato. In sostanza, poiché il giudice del rinvio, a norma dell’art. 627, comma 2, cod. proc. pen., opera con gli stessi poteri del giudice la cui sentenza è annullata, e poiché il divieto di reformatio in peius è coniato ed opera per il giudice di appello, a norma dell’art. 597, comma 3, cod. proc. pen., solo a fronte di una pregressa pronuncia appellata dal solo imputato, ne deriva che tale divieto deve escludersi ove la sentenza di appello annullata con rinvio sia stata pronunciata a seguito di impugnazione proposta dal pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento. L’oggetto del giudizio del giudice del rinvio è dunque rappresentato, in un frangente come quello qui in esame, dalla sentenza di primo grado per come appellata dal pubblico ministero: una evenienza, quindi, che si pone – ad avviso della pronuncia qui in esame – quale ontologica contradictio in adiecto rispetto a qualsiasi divieto di reformatio in peius, proprio alla luce del principio di devoluzione. Né è a dirsi – si è pure puntualizzato – che il mancato ricorso per cassazione da parte del rappresentante della pubblica accusa possa atteggiarsi alla stregua di acquiescenza alla condanna poi annullata, cristallizzandone il relativo trattamento sanzionatorio, posto che la determinazione della pena, ancorché reputata non congrua dal pubblico ministero (cosa che lo avrebbe legittimato ad appellare), non per questo assume connotazioni di illegittimità devolvibili in cassazione: con l’ovvia conseguenza di rendere concettualmente incongrua qualsiasi pretesa che fondasse sul mancato ricorso del pubblico ministero una sorta di volontà di non reclamo, tale da produrre effetti analoghi a quelli previsti dal richiamato art. 597, comma 3, cod. proc. pen.” (Sez. 2, n. 8124 del 15/02/2012, Colturi, Rv. 252482).
L’assunto, che risulterebbe pregiudizialmente risolutivo della questione sottoposta all’esame di queste Sezioni Unite, non si ritiene, tuttavia, possa essere qui recepito, dal momento che la tesi ivi esposta, a quanto consta del tutto nuova nel panorama della giurisprudenza di legittimità formatasi sotto la vigenza del nuovo codice, richiede ulteriori approfondimenti, muovendosi la stessa, come già si è accennato, secondo coordinate non sintoniche rispetto al diverso e più sedimentato orientamento interpretativo che invece ammette la sussistenza del divieto in esame anche nel giudizio di rinvio.
10. Un primo aspetto che sembra necessario porre in rilievo ai fini della soluzione del quesito sottoposto all’esame delle Sezioni Unite, riguarda, anzitutto, la disamina dei tratti tipizzanti del ‘fenomeno’ (il reato continuato) che costituisce l’oggetto su cui deve commisurarsi il raffronto tra i trattamenti sanzionatori, e che, dunque, rappresenta il ‘meccanismo’ normativo la cui applicazione non può generare effetti deteriori in capo all’imputato, unico appellante. La sentenza William Morales, si è più volte detto, non si accontenta del ‘non peggioramento’ della entità complessiva della pena, ma pretende che il principio del divieto di reformatio in peius si applichi anche a tutti gli elementi che concorrono alla determinazione di questa: non viene quindi in discorso un semplice confronto fra pene, ma occorre procedere ad un raffronto tra i segmenti che vengono a comporre quella sequenza; nessuna logica ‘manipolatoria’ può quindi consentire non domandati (e quindi non consentiti) aumenti di pena riferiti ad ogni singola regiudicanda attratta nel cumulo giuridico, anche nella ipotesi in cui tali aumenti vengano poi, per così dire, compensati attraverso altre operazioni intermedie che permettano di non aggravare, rispetto allo statuto sanzionatorio adottato dal primo giudice, il trattamento finale.
Ma il fenomeno della continuazione è realtà normativa che può ricevere una lettura unitaria (o unificante) ovvero atomistica a seconda delle prospettive che si intendono perseguire. Da un punto di vista strutturale, infatti, il reato continuato rappresenta una particolare figura di concorso materiale dei reati, unificati dalla identità del disegno criminoso e assoggettati al cumulo giuridico delle pene, secondo il meccanismo sanzionatorio previsto per il concorso formale: vale a dire, la pena prevista per la violazione più grave, aumentata fino al triplo, (a proposito della determinazione del reato più grave e della disamina delle variegate prospettive che ruotano attorno al complesso fenomeno della continuazione, v., da ultimo, Sez. U, n. 25939, del 28/02/2013, Ciabotti). La unificazione delle pene è, dunque, un tratto caratteristico della continuazione: prescelto il reato più grave, quelli satellite perdono la loro individualità sanzionatola, in caso di concorso fra pene eterogenee, divenendo semplici componenti di un aumento di pena, al punto da riacquistare la loro ‘identità’ solo agli effetti della determinazione del limite agli aumenti, che non deve comunque superare quello del cumulo materiale, a norma dell’art. 81, terzo comma, cod. pen..
Ma da qui già scaturisce un primo dato di riflessione. L’applicazione del cumulo giuridico ed il corollario del meccanismo di unificazione del trattamento sanzionatorio, presuppongono la individuazione dei termini che compongono il cumulo e la determinazione di un certo ordine della sequenza. Se muta uno dei termini (vale a dire, una o più delle regiudicande cumulate o il relativo ‘bagaglio’ circostanziale) oppure l’ordine di quella sequenza (la regiudicanda-satellite diviene la più grave o muta la qualificazione giuridica di quella più grave), sarà lo stesso meccanismo di unificazione a subire una ‘novazione’ di carattere strutturale, non permettendo più di sovrapporre la nuova dimensione strutturale a quella oggetto del precedente giudizio, giacché, ove così fosse, si introdurrebbe una regola di invarianza priva di qualsiasi logica giustificazione.
In tali casi, pertanto, l’unico elemento di confronto non può che essere rappresentato dalla pena finale, dal momento che è solo questa che ‘non deve essere superata’ dal giudice del gravame: esattamente come non potrebbe comunque essere superata una pena determinata dal primo giudice in mitius, anche se contra legem.
D’altra parte, se, come si è dianzi accennato, il procedimento attraverso il quale si realizza il cumulo giuridico prende in considerazione una specifica relatio tra un quantum di pena-base (che si determina sulla falsariga dell’editto stabilito per il reato più grave) ed un quantum di aumento per ciascuno dei reati-satellite, è evidente che non si può stabilire alcun termine di comparazione rispetto agli aumenti determinati dal primo giudice se è la stessa base di commisurazione che cambia: altro è aumentare di un terzo una certa pena, altro è stabilire lo stesso aumento, parametrato, però, su un trattamento sanzionatorio qualitativamente o quantitativamente diverso. In una prospettiva siffatta, quindi, non possono neppure porsi problemi relativi alla verifica (come alcune pronunce di questa Corte paiono suggerire) di una ipotetica proporzionalità tra le decisioni di primo e secondo grado, giacché nulla consente di ritenere imposto al secondo giudice – e men che mai un simile corollario può reputarsi derivante dal divieto che viene qui in discorso – di stabilire come pena-base il minimo edittale previsto per il nuovo reato ritenuto più grave, ove il primo giudice a quel limite si sia attenuto nella determinazione della pena base. Il dictum della sentenza William Morales, che va qui riaffermato, vale, pertanto, solo nella ipotesi in cui il giudice dell’appello o del rinvio sia chiamato a giudicare della stessa sequenza di reati avvinti dal cumulo giuridico, giacché in tal caso rinviene adeguata giustificazione la preclusione a non rivedere in termini peggiorativi non soltanto l’esito finale del meccanismo normativo di quantificazione del cumulo, ma anche i singoli parametri di commisurazione di ciascun segmento che compone quel cumulo.
D’altronde, se l’appello comporta un nuovo giudizio su qualche punto che si riflette sulla determinazione della pena, allo stesso modo di come il nuovo giudizio di comparazione tra circostanze, al lume della citata sentenza Papola, non soffre condizionamenti in ragione di quello condotto in primo grado, anche in ipotesi di eliminazione di una aggravante o di riconoscimento di una attenuante, anche il nuovo giudizio sugli aumenti a titolo di continuazione non è vincolato dalle determinazioni assunte al riguardo dal primo giudice, se cambia il titolo del reato più grave ed il relativo trattamento sanzionatorio assunto come pena-base.
Per altro verso, una implicita conferma di quanto sin qui si è osservato la si può desumere anche dalla stessa particolare previsione dettata – come elemento ‘rafforzativo’ del divieto di reformatio in peius – dall’ari:.597, comma 4, cod. proc. pen. Stabilendosi, infatti, il principio in virtù del quale se è accolto l’appello dell’imputato in relazione a circostanze o reati concorrenti, anche se unificati dalla continuazione, la pena “complessivamente irrogata” è “corrispondentemente diminuita”, il legislatore ha preso in considerazione, come termine di riferimento e vincolo per il nuovo giudice, soltanto la pena complessiva e non certo i singoli segmenti – o passaggi di giudizio – che hanno concorso a determinare quella pena; in tal modo finendo per accreditare la logica che il nuovo giudizio sul punto, conta solo, agli effetti che qui interessano, nel suo approdo conclusivo.
Può dunque concludersi nel senso che ‘non viola il divieto di reformatio in peius di cui all’art. 597, comma 3, cod. proc. pen., il giudice di rinvio che, individuata la violazione più grave a norma dell’art. 81, cpv., cod. pen. in conformità a quanto stabilito nella sentenza della Corte di cassazione, pronunciata su ricorso del solo imputato, apporti per uno dei reati in continuazione un aumento maggiore rispetto a quello ritenuto dal primo giudice, pur non irrogando una pena complessivamente maggiore’.
11. Rispetto alla vicenda qui in esame occorre peraltro esaminare anche il problema se presenti o meno interferenze lo ius superveniens introdotto dalla legge 6 novembre 2012, n. 190, il quale ha profondamente novellato la fattispecie della concussione di cui all’art. 317 cod. pen., ed introdotto il meno grave reato di induzione indebita a dare o promettere utilità di cui all’art. 319-quater cod. pen..
Al riguardo va infatti sottolineato che le Sezioni Unite, con la sentenza n. 12228 del 24/10/2013, depositata il 14/03/2014, Ci. , non ancora massimata, ha avuto modo di affermare il principio secondo il quale il reato di cui all’art. 317 cod. pen., come novellato dalla legge n. 190 del 2012, è designato dall’abuso costrittivo del pubblico ufficiale, attuato mediante violenza o – più frequentemente – mediante minaccia, esplicita o implicita, di un danno contra ius, da cui deriva una grave limitazione, senza tuttavia annullarla del tutto, della libertà di autodeterminazione del destinatario, che, senza alcun vantaggio indebito per sé, è posto di fronte all’alternativa secca di subire il male prospettato o di evitarlo con la dazione o la promessa dell’indebito. A sua volta, ha ancora precisato l’indicata pronuncia, il reato di cui all’art. 319-quater cod. pen., è designato dall’abuso induttivo del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, vale a dire una condotta di persuasione, di suggestione, di inganno (purché quest’ultimo non si risolva in induzione in errore sulla doverosità della dazione), di pressione morale, con più tenue valore condizionante la libertà di autodeterminazione del destinatario, il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perché motivato dalla prospettiva di conseguire un indebito tornaconto personale, il che lo pone in una posizione di complicità col pubblico agente e lo rende meritevole di sanzione.
Può quindi astrattamente porsi il problema se le condotte, o parte di esse, ascritte all’imputato a titolo di concussione, rientrino nel perimetro della meno grave ipotesi ora descritta dall’art. 319-quater, considerati gli elementi tipizzanti messi in luce dalla richiamata sentenza delle Sezioni Unite: d’altra parte, va pure sottolineato come sia stata quella stessa pronuncia ad aver messo in luce la continuità normativa che è possibile tracciare fra le fattispecie di riferimento, proprio agli effetti delle implicazioni che ne possono derivare sul piano del diritto intertemporale. E sul punto le conclusioni sono univoche: come è possibile affermare che “v’è totale continuità normativa tra presente e passato con riguardo alla posizione del soggetto qualificato, chiamato a rispondere di fatti già riconducibili, in relazione all’epoca di commissione degli stessi, nel paradigma del previgente art. 317 cod. pen.”, “sussiste continuità normativa, limitatamente alla posizione del pubblico agente, anche tra la previgente concussione per induzione e il nuovo reato di induzione indebita a dare o promettere utilità”. Dal che logicamente consegue che “compito del giudice intertemporale, per la valutazione dei fatti pregressi, deve essere solo quello di applicare, ai sensi dell’art. 2, comma quarto, cod. pen., la lex mitior, che va individuata nella norma sopravvenuta, perché più favorevole in ragione dell’abbassamento di entrambi i limiti edittali di pena”. Ma con l’ulteriore limite – ed è questi il profilo che assume carattere dirimente agli effetti dell’odierno scrutinio – rappresentato dal’eventuale intervento del giudicato.
La preclusione del giudicato come limite alla applicazione retroattiva della lex mitior è stata, d’altra parte, più volte scrutinata dalla Corte costituzionale, anche sul versante della relativa compatibilità con i principi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, per come interpretati dalla Corte di Strasburgo, e si è osservato come la giurisprudenza di quella Corte, non soltanto abbia puntualizzato che il principio della retroattività della legge più favorevole possa subire deroghe o limitazioni in presenza di particolari situazioni, ma abbia anche espressamente riconosciuto che il principio in questione non è in grado di travolgere il giudicato (v. ad esempio, la sentenza n. 236 del 2011).
D’altra parte, lo stesso Giudice delle leggi, chiamato a pronunciarsi in merito ad una questione relativa alla mancata previsione della possibilità di revoca della sentenza di condanna a norma dell’art. 673 cod. proc. pen., a seguito di overruling giurisprudenziale in ordine alla qualificazione di un fatto come reato, ha puntualmente escluso “che dalle conclusioni raggiunte a proposito del principio di irretroattvità della norma sfavorevole possa automaticamente ricavarsi l’esigenza convenzionale di rimuovere, in nome del principio della retroattività della lex mitior, le decisioni giudiziali definitive non sintoniche con il sopravvenuto mutamento giurisprudenziale in bonam partem. I due principi hanno, infatti, diverso fondamento. L’irretroattività della norma penale sfavorevole rappresenta uno strumento di garanzia del cittadino contro persecuzioni arbitrarie, espressivo dell’esigenza di calcolabilità delle conseguenze giuridico-penali della propria condotta, quale condizione necessaria per la libera autodeterminazione individuale: esigenza con la quale contrasta un successivo mutamento peggiorativo a sorpresa del trattamento penale della fattispecie. Nessun collegamento con la predetta libertà ha, per converso, il principio di retroattività della norma più favorevole, in quanto la lex mitor sopravviene alla commissione del fatto, cui l’autore si era liberamente e consapevolmente autodeterminato in base al panorama normativo (e giurisprudenziale) dell’epoca: trovando detto principio fondamento piuttosto in quello di uguaglianza, che richiede, in linea di massima, di estendere la modifica mitigatrice della legge penale, espressiva di un mutato apprezzamento del disvalore del fatto, anche a coloro che hanno posto in essere la condotta in un momento anteriore”: con l’ovvia conseguenza di rendere non incompatibile con quel principio proprio il limite del giudicato, secondo quanto affermato sul punto dalla stessa Corte EDU, nel caso Scoppola contro Italia (v. sentenza n. 230 del 2012. Sul punto v., da ultimo, anche la sentenza n. 210 del 2013).
12. Alla stregua di tali principi può quindi dedursi che, nella specie, essendo intervenuta prima della novella legislativa la pronuncia rescindente di questa Corte proprio sul tema della individuazione del reato più grave in quello di concussione, e poiché il tema della relativa qualificazione giuridica e della responsabilità non ha formato oggetto di censure da parte del giudice della legittimità, il relativo profilo ha ormai assunto l’autorità del giudicato, a norma dell’art. 624, comma 1, cod. proc. pen. D’altra parte, al di là delle opzioni dogmatiche, può rilevarsi che se il punto deciso, ma non annullato, genera comunque una preclusione, resta comunque difficile intravedere una distinguibilità teorica tra preclusione e giudicato ove la decisione su quel punto provenga dall’organo di vertice della piramide giurisdizionale e non possa, quindi, essere comunque ‘ridiscusso’. In questa prospettiva, appare logicamente consequenziale ritenere che, ove il punto irretrattabilmente risolto attenga alla ritenuta sussistenza di responsabilità penale in ordine ad una determinata fattispecie, le vicende del reato e della sua riferibilità all’imputato si ‘cristallizzano’, con la ragionevole conseguenza di rendere il reato stesso ormai processualmente insensibile rispetto al sopravvenire di ipotesi estintive, come la prescrizione, o modificative, agli effetti di quanto previsto dall’art. 2, quarto comma, cod. pen. In altri termini, accertata la responsabilità, con sentenza ormai irrevocabile sul punto, quest’ultimo cessa di essere semplicemente un aspetto intangibile della futura condanna in sede di rinvio (come tale rimuovibile per l’intervento di cause estintive), per divenire, invece, una porzione qualificante della sentenza non annullata, che assume, essa stessa, i connotati di un giudicato, appunto, di responsabilità.
Un approdo, questo, che appare essere null’altro che il naturale sviluppo di una ormai sedimentata giurisprudenza di legittimità, in tema di cosiddetto giudicato progressivo (v. da ultimo, Sez. U, n. 28717 del 21/06/2012, Brunetto, Rv. 252935, ove si è affermato che la legittimazione alla proposizione del ricorso straordinario per cassazione a norma dell’art. 625-bis cod. proc. pen. spetta anche alla persona condannata nei confronti della quale sia stata pronunciata sentenza di annullamento con rinvio limitatamente a profili che attengono alla determinazione del trattamento sanzionatorio. Nella specie, si è in particolare ritenuto ammissibile il ricorso straordinario proposto avverso la sentenza della Corte di cassazione che aveva annullato con rinvio la pronuncia di condanna esclusivamente con riferimento alla sussistenza di una circostanza aggravante).
È noto, infatti, come la giurisprudenza delle Sezioni Unite, sin da epoca ormai risalente, abbia avuto modo di porre in luce la circostanza che la formazione del giudicato – specie per ciò che attiene ai riflessi che ne possono scaturire sul versante delle cause estintive del reato, quale, in particolare, la prescrizione (ma le conclusioni sono identiche anche in riferimento all’art. 2, quarto comma, cod. pen.) – ben possa assumere, proprio nelle ipotesi di annullamento parziale pronunciato in sede di legittimità, i connotati tipici di una fattispecie a formazione progressiva. Si è premesso, al riguardo, che il riconoscimento della autorità di cosa giudicata, enunciato, in tema di annullamento parziale, dall’art. 624 cod. proc. pen. con riferimento alle parti della sentenza che non hanno connessione essenziale con la parte annullata, non si riferisce né al giudicato cosiddetto sostanziale, né alla intrinseca idoneità della decisione ad essere posta in esecuzione, ma soltanto “all’esaurimento del potere decisorio del giudice della cognizione”. Ci si muove, dunque, nell’ambito di uno specifico iter che conduce alla definizione del giudizio su di uno specifico oggetto, nel quadro di un fenomeno preclusivo che mira ad impedire che su di uno stesso tema possa intervenire una serie indeterminata di pronunce, così da assegnare i connotati della intangibilità a quella porzione di risultato raggiunta ‘nel’ processo e “dal” processo.
Il giudicato, dunque, può avere una formazione non simultanea ma progressiva e ciò può accadere sia nelle ipotesi di procedimento cumulativo, allorché nel processo confluiscano una pluralità di domande di giudizio che comportino una pluralità di regiudicande, sia quando il procedimento riguardi un solo reato attribuito ad un solo soggetto, perché anche in quest’ultimo caso la sentenza definitiva può essere la risultante di più decisioni, intervenute attraverso lo sviluppo progressivo del mezzi di impugnazione. D’altra parte, è diretta conseguenza proprio della definitività della decisione della Corte di cassazione, sia pure limitata nel suo contenuto all’oggetto dell’annullamento, la circostanza che l’art. 628 cod. proc. pen. espressamente consenta la impugnabilità della sentenza del giudice di rinvio soltanto in relazione ai ‘punti’ non decisi in sede di giudizio rescindente, proprio perché il perimetro cognitivo del giudice de rinvio è tracciato dai limiti del devoluto, senza che possano venire nuovamente in discorso le ‘parti’ della sentenza annullata che hanno ormai assunto i connotati di intangibilità propri della cosa giudicata.
La sentenza della Corte di cassazione, dunque, ove di annullamento parziale, delimita l’oggetto del giudizio di rinvio, riducendo corrispondentemente l’oggetto del processo, senza che peraltro possa cogliersi un nesso di corrispondenza biunivoca tra la eseguibilità della sentenza penale di condanna e l’autorità di cosa giudicata attribuibile ad una o più statuizioni in essa contenute, giacché la possibilità di dare attuazione alle decisioni definitive di una sentenza, non va confusa con la irrevocabilità della pronuncia stessa in relazione all’iter processuale. Nel primo caso, infatti, la definitività del provvedimento, in tutte le sue componenti, va raccordata alla formazione di un vero e proprio titolo esecutivo; nel secondo caso, invece, la definitività della pronuncia consegue all’esaurimento del giudizio e prescinde dalla concreta realizzabilità della pretesa punitiva dello Stato (Sez. U, n. 373 del 23/11/1990, dep. 1991, Agnese; nonché, per le medesime conclusioni in punto di irrilevanza della prescrizione sopravvenuta alla sentenza di annullamento parziale, che abbia ad oggetto statuizioni diverse ed autonome rispetto al riconoscimento dell’esistenza del fatto-reato e della responsabilità dell’imputato, Sez. U, n. 6019 del 11/05/1993, Ligresti, Rv 193418; Sez. U, n. 4460 del 19/01/1994, Cellerini, Rv 196886; Sez. U, n. 4904 del 26/03/1997, Attinà, Rv 207640).
D’altra parte, l’auctoritas di res iudicata che l’art. 624, comma 1, cod. proc. pen. conferisce alla parte ‘autonoma’ della sentenza non annullata, è rimarcata dalla esigenza di pronta riconoscibilità ‘esterna’ del formarsi del giudicato parziale, giacché il comma 2 del richiamato art. 624 del codice di rito demanda al medesimo giudice del rescindente il compito di dichiarare nello stesso dispositivo – con pronuncia di tipo essenzialmente ricognitivo – quali parti della sentenza del giudice a quo diventano ‘irrevocabili’, stabilendo, poi, meccanismi del tutto snelli quanto a formalità, per porre rimedio alla eventuale omissione di tale adempimento, evidentemente reputato di non trascurabile risalto. Al tempo stesso, e ad ulteriore conferma dello iato che separa il giudizio rescissorio dai precedenti gradi, sta la regola dettata dall’art. 627, comma 4, cod. proc. pen., in forza della quale non possono essere proposte nullità, anche assolute, o inammissibilità, verificatesi in precedenza, oltre alla già segnalata inoppugnabilità dei punti già decisi dalla Corte di cassazione.
Lo stare decisis è dunque puntualmente evocato dal sistema, secondo un modulo che rende la sentenza di merito ‘formalmente’ – quanto ai profili di preclusione interni al processo – e ‘sostanzialmente’ – quanto ai riverberi che ne possono scaturire sul versante del ne bis in idem – intangibile, seppure soltanto nella parte non compromessa dalla pronuncia di annullamento. In tale cornice di riferimento, quindi, come è indiscutibile il formarsi del giudicato di condanna nell’ipotesi di pluralità di regiudicande, ove l’annullamento riguardi soltanto una parte delle imputazioni, altrettanto è a dirsi per il caso in cui, divenendo irrevocabile l’affermazione della responsabilità penale in ordine ad una determinata ipotesi di reato, il giudizio debba proseguire in sede di rinvio soltanto agli effetti della determinazione del trattamento sanzionatorio, posto che i ‘punti’ oggetto di annullamento non si riflettono sull’an, ma soltanto sul quantum della pena in concreto da irrogare. In tale contesto, dunque, come deve ritenersi ontologicamente venuta meno la presunzione di non colpevolezza, essendo stata quest’ultima accertata con sentenza ormai divenuta definitiva sul punto, allo stesso modo non può che inferirsene – alla stregua del medesimo parametro costituzionale, in virtù del quale tertium non datur – che risulti eo ipso trasformata la posizione dell’imputato in quella di ‘condannato’, anche se a pena ancora da determinare in via definitiva. Da qui l’assunto secondo il quale quando la decisione divenga irrevocabile in relazione alla affermazione della responsabilità e contenga già l’indicazione della pena minima che il condannato deve comunque espiare, la stessa deve essere messa in esecuzione, in quanto l’eventuale rinvio disposto dalla Corte di cassazione relativamente ad altri reati non incide sull’immediata eseguibilità delle statuizioni residue aventi propria autonomia (Sez. 1, n. 15949 del 21/02/2013, Antonacci, Rv. 256255; Sez. 5, n. 2541 del 02/07/2004, Pipitone, Rv. 230891; Sez. 1, n. 2071 del 20/03/2000, Soldano, Rv. 215949; Sez. 6, n. 3216 del 20/08/1997, Maddaluno, Rv. 208873; Sez. U, n. 20 del 09/10/1996, Vitale, Rv. 206170).
Posto, dunque, che nella vicenda in esame la lex mitior è intervenuta dopo la pronuncia rescindente della Corte di cassazione che ha determinato la irrevocabilità della decisione sulla responsabilità penale e sulla qualificazione giuridica dei fatti ascritti all’imputato, ne deriva che, a norma dell’art. 2, quarto comma, cod. pen., la legge modificativa non può trovare applicazione.
13. Venendo all’esame del ricorso, lo stesso deve essere respinto. Alla stregua dei principi enunciati, infatti, il giudice del rinvio si è mantenuto entro i confini delle attribuzioni che gli competono, dal momento che, un volta individuato – alla stregua dei dieta di questa Corte in sede di annullamento con rinvio – il reato più grave nel delitto di concussione di cui al capo G), ha determinato per esso una pena inferiore a quella che era stata assunta come pena-base dal procedente giudice di appello, e calibrata sul minimo edittale previsto come pena minima per i reati-satellite di violenza sessuale. Su tale parametro di commisurazione, addirittura più blando di quello precedentemente assunto dal giudice del merito, ha poi stabilito un aumento per l’altra ipotesi di concussione di cui al capo H) in misura maggiore di quella stabilita nella sentenza poi annullata, in stretta correlazione con il triplice novum scaturito dalla pronuncia di annullamento, e rappresentato, da un lato, dalla diversa qualificazione giuridica del reato assunto come violazione più grave (la concussione in luogo della violenza sessuale); dall’altro, nella diversa quantificazione della pena-base (commisurata, si è detto, sul minimo previsto per i reati-satellite di violenza sessuale), e, sotto un terzo ed ultimo profilo, in ragione del carattere omogeneo del reato-satellite preso in considerazione, rispetto a quello assunto come violazione più grave (entrambi contestati come violazione dell’art. 317 cod. pen.) – Il tutto, per di più, in presenza di un aumento inferiore, rispetto a quello operato nella sentenza annullata (mesi due di reclusione, anziché mesi tre di reclusione) per ciascuno dei reati di violenza sessuale attratti nel medesimo vincolo della continuazione. Deve dunque escludersi qualsiasi violazione del principio di divieto di reformatio in peius.
Palesemente inconsistente si rivela, invece, l’altra doglianza posta a base del ricorso, nella quale si lamenta la mancata riduzione massima per la concessione delle attenuanti generiche, posto che, al contrario, la riduzione della pena per quel titolo è stata operata nella misura massima consentita, pari ad un terzo della pena (da cinque anni di reclusione, ad anni tre e mesi quattro di reclusione).
Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali
Leave a Reply