Corte Costituzionale

Sentenza  69 del 2 aprile 2014

 

Giudizio
Presidente SILVESTRI – Redattore MORELLI
Udienza Pubblica del 25/02/2014    Decisione  del 26/03/2014
Deposito del 02/04/2014   Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate:Art. 38, c. 4°, del decreto legge 06/07/2011, n. 98, convertito, con modoficazioni, dall’art. 1, c. 1°, della legge 15/07/2011, n. 111.
Massime:
Atti decisi:ord. 123/2012

SENTENZA N. 69

ANNO 2014

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Gaetano SILVESTRI; Giudici : Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 38, comma 4, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art.1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, promosso dal Tribunale ordinario di Roma nel giudizio vertente tra Cambrini Alfredo e l’INPS, con ordinanza dell’8 febbraio 2012, iscritta al n. 123 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell’anno 2012.

Visti gli atti di costituzione di Cambrini Alfredo e dell’INPS, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 25 febbraio 2014 il Giudice relatore Mario Rosario Morelli;

uditi gli avvocati Massimo Nappi per Cambrini Alfredo, Luigi Caliulo per l’INPS e l’avvocato dello Stato Angelo Venturini per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Nel corso di un giudizio civile, avente ad oggetto l’adeguamento di una prestazione previdenziale, l’adito Tribunale ordinario di Roma – premessane la rilevanza nel giudizio a quo e motivatane la non manifesta infondatezza, in riferimento all’art. 3, primo e secondo comma, della Costituzione – ha sollevato, con l’ordinanza in epigrafe, questione incidentale di legittimità costituzionale dell’art. 38, comma 4, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111.

La norma censurata stabilisce testualmente che «Le disposizioni di cui al comma 1, lettera c) e d), si applicano anche ai giudizi pendenti in primo grado alla data di entrata in vigore del presente decreto»; e, per tale sua portata retroattiva, il rimettente ne sospetta, appunto, il contrasto con l’evocato parametro costituzionale.

2.– Si è costituito in questo giudizio il pensionato, ricorrente nel giudizio a quo, per sostenere la fondatezza della questione di legittimità costituzionale prospettata dal rimettente. Opposte conclusioni hanno rassegnato la difesa dell’Istituto resistente, anche esso qui costituitosi, e la difesa dello Stato, per l’intervenuto Presidente del Consiglio dei ministri.

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale ordinario di Roma dubita della legittimità costituzionale dell’art. 38, comma 4, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, e ne prospetta il contrasto con l’art. 3 della Costituzione, sotto il duplice profilo della violazione del principio di eguaglianza e della irragionevolezza, nella parte in cui detta norma stabilisce che «Le disposizioni di cui al comma 1, lettera c) e d), si applicano anche ai giudizi pendenti in primo grado alla data di entrata in vigore del presente decreto».

La richiamata lettera d) del comma 1 dell’art. 38 del d.l. n. 98 del 2011 – che la norma censurata rende, appunto, retroattivamente applicabile «anche ai giudizi pendenti in primo grado» – fa, a sua volta, corpo con l’art. 47 del d.P.R. 30 aprile 1970, n. 639 (Attuazione delle deleghe conferite al Governo con gli artt. 27 e 29 della legge 30 aprile 1969, n. 153, concernente revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale).

A detta ultima disposizione l’art. 38, comma 1, del d.l. n. 98 del 2011 aggiunge, infatti, un ultimo comma, a tenore del quale «Le decadenze previste dai commi che precedono [id est: dai commi 2 e 3 del citato articolo 47] si applicano anche alle azioni giudiziarie aventi ad oggetto l’adempimento di prestazioni riconosciute solo in parte o il pagamento di accessori del credito. In tal caso il termine di decadenza decorre dal riconoscimento parziale della prestazione ovvero dal pagamento della sorte». Ed inserisce, di seguito, un articolo 47-bis, con il quale si stabilisce che «Si prescrivono in cinque anni i ratei arretrati, ancorché non liquidati e dovuti a seguito di pronunzia giudiziale dichiarativa del relativo diritto, dei trattamenti pensionistici, nonché delle prestazioni della gestione di cui all’articolo 24 della legge 9 marzo 1989, n. 88, o delle relative differenze dovute a seguito di riliquidazioni».

1.2.– L’art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970 – nel testo antecedente alla così disposta sua integrazione – prevedeva, per quanto rileva nel giudizio a quo, al suo secondo comma, che «Per le controversie in materia di trattamenti pensionistici l’azione giudiziaria può essere proposta, a pena di decadenza, entro il termine di tre anni dalla data di comunicazione della decisione del ricorso pronunziata dai competenti organi dell’Istituto o dalla data di scadenza del termine stabilito per la pronunzia della predetta decisione, ovvero dalla data di scadenza dei termini prescritti per l’esaurimento del procedimento amministrativo, computati a decorrere dalla data di presentazione della richiesta di prestazione».

In sede di esegesi della predetta normativa, le sezioni unite della Corte di cassazione già con sentenza n. 6491 del 1996 avevano affermato – e con successiva pronunzia n. 12720 del 2009 hanno ribadito – che la decadenza ivi prevista non può trovare applicazione in tutti quei casi in cui la domanda giudiziale sia rivolta ad ottenere non già il riconoscimento del diritto alla prestazione previdenziale in sé considerata, ma solo l’adeguamento di detta prestazione già riconosciuta in un importo inferiore a quello dovuto, come avviene nei casi in cui l’Istituto previdenziale sia incorso in errori di calcolo o in errate interpretazioni della normativa legale o ne abbia disconosciuto una componente, nei quali casi la pretesa non soggiace ad altro limite che non sia quello della ordinaria prescrizione decennale.

1.3.– Il limite della prescrizione decennale (cui unicamente, secondo il giudice della nomofilachia, andavano incontro le domande giudiziali volte ad ottenere l’adeguamento delle prestazioni già riconosciute per un importo inferiore al dovuto) è, dunque, ora sostituito – per disposto del citato art. 38, comma 1, lettera d) – dalla decadenza triennale per le domande di accessori del credito (e cioè alla medesima decadenza prescritta per le domande di riconoscimento del diritto stesso alla pensione) e dalla prescrizione quinquennale per le domande di corresponsione di ratei arretrati.

1.4.– La difesa dell’INPS sottolinea che la finalità della disciplina, introdotta dal richiamato art. 38, comma 1, lettera d), del decreto-legge n. 98 del 2011, è quella di «produrre risparmi nel settore previdenziale riducendo i tempi di esercizio del diritto degli assicurati alle prestazioni pensionistiche», e sostiene che l’intervento, attuato in tale direzione, «rientri nella discrezionalità del legislatore e in linea di principio non sia censurabile».

Ma, sul punto, non v’è questione.

Ciò che, infatti, viene in discussione non è la diversa e più articolata fissazione dei termini, per la richiesta di prestazioni previdenziali accessorie o di ratei arretrati, prevista dal legislatore del 2011, bensì unicamente il fatto che i termini, di decadenza e prescrizione, all’uopo stabiliti nella più volte richiamata lettera d) del comma 1 dell’art. 38, sia resa retroattivamente applicabile «anche ai giudizi pendenti in primo grado», dal successivo comma 4 dello stesso art. 38 del d.l. n. 98 del 2011.

Ed è in relazione a detta ultima norma, appunto, che il Tribunale rimettente chiede a questa Corte di verificare l’eventuale confliggenza con i parametri di cui all’art. 3, primo e secondo comma, Cost.

2.– La questione, così posta, è fondata.

2.1.– L’Avvocatura generale dello Stato, per l’intervenuto Presidente Consiglio dei ministri, sostiene che la disposizione censurata non abbia la natura innovativa presupposta dal Tribunale a quo, bensì quella di norma di interpretazione autentica, e sia, come tale, quindi, naturaliter retroattiva. E ciò in quanto la disposizione stessa si sarebbe limitata ad attribuire alla norma interpretata (appunto l’art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970) «un significato già in essa contenuto, riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario». Di tanto l’Avvocatura rinviene conferma nel fatto che, precedentemente alle citate due sentenze delle sezioni unite della Corte di cassazione, non ne erano mancate altre della stessa Corte, a sezione semplice, che avevano optato per una lettura estensiva (nel senso della riferibilità anche alle domande di accessori ed arretrati) del termine triennale di decadenza di cui al citato art. 47. Ulteriore conferma di tale assunto rinviene la difesa statale nella ordinanza n. 1069 del 2011, con la quale la sezione lavoro di quella Corte aveva riproposto alle sezioni unite la questione ermeneutica dell’art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970, alla luce delle ultime pronunzie giurisprudenziali miranti a privilegiare letture di disposizioni processuali conducenti, attraverso la riduzione dei tempi, al giusto processo.

2.2.– L’argomento, così speso dalla difesa erariale, non è però decisivo.

A prescindere, infatti, dalla considerazione che la stessa sezione lavoro della Corte di cassazione – cui gli atti sono stati restituiti dalle sezioni unite in ragione dello ius superveniens di cui all’art. 38, comma 1, lettera d), del d.l. n. 98 del 2011 – con successiva ordinanza n. 6959 del 2012, ha confermato la natura innovativa di detta ultima disposizione, sta di fatto che, come più volte chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte, non è decisivo verificare se la norma censurata abbia carattere effettivamente interpretativo, e sia perciò retroattiva, ovvero sia innovativa con efficacia retroattiva, trattandosi, in entrambi i casi, di accertare se la retroattività della legge, il cui divieto non è stato elevato a dignità costituzionale, salvo che per la materia penale, trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e «non contrasti con altri valori o interessi costituzionalmente protetti» (ex plurimis, sentenze n. 257 del 2011, n. 74 del 2008 e n. 234 del 2007).

2.3.– A tal riguardo, questa Corte ha ulteriormente, e reiteratamente, precisato come l’efficacia retroattiva della legge trovi, in particolare, un limite nel «principio dell’affidamento dei consociati nella certezza dell’ordinamento giuridico», il mancato rispetto del quale si risolve in irragionevolezza e comporta, di conseguenza, l’illegittimità della norma retroattiva (sentenze n. 170 e n. 103 del 2013, n. 271 e n. 71 del 2011, n. 236 e n. 206 del 2009, per tutte).

E, in linea con tale indirizzo, ha anche sottolineato come il principio dell’affidamento trovi applicazione anche in materia processuale e risulti violato a fronte di soluzioni interpretative, o comunque retroattive, adottate dal legislatore rispetto a quelle affermatesi nella prassi (sentenze n. 525 del 2000 e n. 111 del 1998).

Con ancor più puntuale riguardo a disposizioni processuali sui termini dell’azione, questa Corte ha poi comunque escluso che l’istituto della decadenza tolleri, per sua natura, applicazioni retroattive, «non potendo logicamente configurarsi una ipotesi di estinzione del diritto […] per mancato esercizio da parte del titolare in assenza di una previa determinazione del termine entro il quale il diritto […] debba essere esercitato» (sentenza n. 191 del 2005).

Nella specie, la norma censurata, per contro, prevede che il diritto ad accessori o ratei arretrati di già riconosciute prestazioni pensionistiche – diritto il cui titolare confidava, sulla base della pregressa consolidata giurisprudenza, essere unicamente soggetto alla prescrizione decennale – si estingua (in assenza di una già ottenuta decisione di primo grado), ove la domanda – di accessori o di ratei arretrati – non risulti, rispettivamente, proposta nel più ridotto termine triennale di decadenza od in quello quinquennale di prescrizione.

Da ciò, quindi, l’illegittimità costituzionale del denunciato art. 38, comma 4, del d.l. n. 98 del 2011, convertito, con modificazioni, dall’art.1, comma 1, della legge n. 111 del 2011, per violazione dell’art. 3, secondo comma, Cost., in ragione del vulnus arrecato al principio dell’affidamento, nella parte in cui prevede che le disposizioni di cui al comma1, lettera d), si applicano anche ai giudizi pendenti in primo grado alla data di entrata in vigore del presente decreto.

Resta assorbito il dedotto profilo di violazione del principio di uguaglianza.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 38, comma 4, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, nella parte in cui prevede che le disposizioni di cui al comma1, lettera d), si applicano anche ai giudizi pendenti in primo grado alla data di entrata in vigore del presente decreto.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 marzo 2014.

F.to:

Gaetano SILVESTRI, Presidente

Mario Rosario MORELLI, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 2 aprile 2014.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Gabriella MELATTI

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