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Suprema Corte di Cassazione

sezione VI

sentenza del 25 marzo 2014, n. 14013

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SESTA SEZIONE PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
 
sul ricorso proposto avverso la sentenza n. 724 emessa il 15 maggio 2013 dalla Corte d’appello di Trieste; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta del consigliere; udito il pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
 
BL ricorre contro la sentenza d’appello specificata in epigrafe, che confermava la di lui condanna per il reato continuato previsto dall’art. 348 cod. pen., per avere, benché colpito dalla sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio della professione di avvocato, esercitato abusivamente detta professione dal 17 gennaio al 17 settembre 2007 (come da procedimenti riuniti nn. 1690/2007 e 1662/2009 R.G.N.R.), e denuncia:
1. mancanza di motivazione in ordine al dolo, assumendo che la notificazione della sentenza del Consiglio Nazionale Forense dalla quale decorreva l’esecutività della sanzione disciplinare era stata effettuata il 16.1.2007 al difensore domiciliatario in Roma, e non nella sua abitazione o nel suo studio in Gorizia, cosicché soltanto il mese successivo aveva saputo che la sanzione era divenuta esecutiva;
2. inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 38, comma 2, e 56 R.D.L. n. 1578 del 1933 (“Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore”), assumendo che la sanzione disciplinare diverrebbe esecutiva non già al momento della notificazione all’interessato della sentenza emessa dal Consiglio Nazionale Forense, ma soltanto a seguito dell’iniziativa del Consiglio dell’Ordine al quale il professionista è iscritto, Consiglio che, ricevuta dal C.N.F. la comunicazione della sentenza, dovrebbe fissare la decorrenza della sanzione disciplinare e, quindi, notificarla all’interessato;
3. inosservanza dell’art. 47, ultimo comma, cod.pen., perché, ove non fosse condivisa l’interpretazione sopra prospettata, dovrebbe riconoscersi ch’egli è incorso in errore su una legge diversa da quella penale, con esclusione della punibilità.
Conclude pertanto chiedendo l’annullamento della sentenza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
 
Il PRIMO MOTIVO di ricorso è inammissibile, perché propone una censura implicante valutazioni di merito, che non è stata dedotta nei motivi d’appello.
Infatti l’imputato, in grado d’appello (e pure in primo grado), non ha mai sostenuto di non avere tempestivamente appreso il contenuto della sentenza del C.N.F. notificatagli il 17 gennaio 2007 e, ancor meno, non ha mai affermato di non esserne stato tempestivamente informato dal difensore domiciliatario. Si è difeso, invece, sul piano del diritto, assumendo che la sanzione disciplinare sarebbe divenuta operante non già dalla notifica della sentenza del C.N.F. bensì dalla notifica della deliberazione – a tutt’oggi non ancora adottata – del Consiglio dell’Ordine cir-condariale, cui spetterebbe la competenza di fissarne la decorrenza.
Il SECONDO MOTIVO è manifestamente infondato, perché – come hanno diffusamente spiegato entrambe le sentenze di merito, attenendosi alla giurisprudenza di legittimità già consolidata all’epoca del fatto – la sentenza del C.N.F. che applica una sanzione disciplinare è esecutiva dal giorno della notifica all’interessato e non già dalla notifica di un successivo provvedimento – non previsto da alcuna norma – del Consiglio dell’Ordine di appartenenza (Sez. U., 6.6.2003 n. 9075).
Anche il TERZO MOTIVO è manifestamente infondato, perché la sentenza impugnata ha correttamente affermato che l’errore interpretativo dedotto, riguardando una norma che concorre a definire le condizioni del legittimo esercizio di una professione che altrimenti costituirebbe reato, non può avere efficacia scriminante dato che si risolve in errore su norma integratrice del precetto penale.
Il ricorso deve dunque essere dichiarato inammissibile ai sensi dell’art. 606, comma 3, cod.proc.pen. Ne consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma, ritenuta congrua, di euro mille alla Cassa delle ammende.
P.Q.M.
 
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di euro mille in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 12 marzo 2014.

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