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Sul piano strutturale, nella disciplina dell’indennità «il legislatore prescinde da ogni riferimento a criteri di responsabilità conseguenti al verificarsi dell’evento dannoso» e «la perdita dell’integrità fisica è valutata tenendo esclusivamente conto delle oggettive condizioni di tempo e di luogo nelle quali la prestazione lavorativa risulta effettuata ed in presenza delle quali si è verificata la lamentata menomazione» (sentenza 16 aprile 1985, n. 14; nello stesso senso 8 ottobre 2009, n. 5).
Sul piano funzionale, le norme di legge, sopra riportate non proteggono il bene «integrità psico-fisica» che «è solo l’occasione dell’erogazione, ma la speciale condizione del dipendente divenuto infermo in ragione del suo rapporto con l’amministrazione e del servizio prestato». Il fine, pertanto, «non è risarcitorio ma si inserisce nell’ambito di un sinallagma in cui si intrecciano prestazioni e controprestazioni di contenuto plurimo» e «appare avvicinabile ad una delle tante indennità che l’amministrazione conferisce ai propri dipendenti in relazione alle vicende del servizio» (sentenza 16 luglio 1993, n. 9). Lungo questa linea, più recentemente, si è affermato come il legislatore abbia «preso in considerazione l’interesse pubblico collegato allo svolgimento di determinate attività particolarmente pericolose per la salute o anche solo le condizioni disagevoli per l’espletamento delle mansioni dei dipendenti pubblici ed ha predisposto un regime di ristoro del lavoratore pubblico dipendente che in occasione dello svolgimento di dette attività subisca una rilevante lesione della sua integrità fisica». Ne consegue che «pur nell’adempimento ordinario e diligente delle obbligazioni di entrambe le parti del rapporto di lavoro, può accadere che si verifichino menomazioni della integrità fisica del lavoratore sia in ragione della pericolosità obiettiva delle lavorazioni (…) che in relazione allo svolgimento di ogni altra mansione del lavoratore» (sentenza n. 5 del 2009, cit.).
Tale orientamento deve essere rimeditato.
Deve ritenersi, infatti, che l’indennità in questione ha natura sostanzialmente analoga a quella risarcitoria da illecito contrattuale, per le seguenti ragioni.
Sul piano strutturale, la nozione di “indennità” è normalmente collegata ad una condotta che integra gli estremi di un atto lecito dannoso, in quanto tale autorizzato dal sistema.
La nozione di “indennità” è però compatibile anche con una condotta che integri gli estremi di un atto illecito, in quanto tale vietato dal sistema.
Si può trattare, in questi casi, di un illecito che non è conseguenza della violazione di un dovere di prestazione o protezione di matrice contrattuale ovvero della violazione di un dovere generale del neminem laedere di matrice extracontrattuale ma di un dovere contemplato da una specifica disposizione di legge. Il sistema delle fonti delle obbligazioni, cui si è fatto cenno in premessa, consente di costruire modelli di responsabilità che si fondano su requisiti oggettivi e soggettivi diversi (cfr. Cass civ., sez. II, 16 dicembre 2015, n. 25292)
Nella fattispecie in esame, questo Collegio ritiene che le riportate norme di disciplina della materia prevedano un’indennità che può essere conseguenza sia un di atto illecito sia di un atto lecito dannoso.
In particolare, la prima ipotesi, che rileva in questa sede, ricorre nel caso in cui la lesione dell’integrità fisica subita dal dipendente sia causata dalla condotta contra ius del datore di lavoro che non ha adottato le cautele necessarie ed idonee a proteggere la sfera giuridica del lavoratore. Si tratta di una responsabilità che può prescindere dal dolo o dalla colpa.
La seconda ipotesi ricorre nel caso in cui sussiste solo una connessione con l’attività lavorativa senza che sia individuabile un comportamento illecito del datore di lavoro. In tale caso, però, non si pone un problema di concorso di responsabilità con possibile cumulo dei rimedi, in quanto, non venendo in rilievo un illecito, non può trovare applicazione l’art. 2087 cod. civ.
Sul piano funzionale, la finalità perseguita, in ogni caso, è quella di compensare la sfera giuridica del lavoratore leso sia pure attraverso un meccanismo, come appena sottolineato, strutturalmente differente da quello risarcitorio.
Il «bene protetto» è anche in questo caso l’integrità psico-fisica del dipendente ed essa costituisce non l’occasione ma la causa giustificativa dell’attribuzione patrimoniale. Non può, pertanto, ritenersi, anche alla luce dell’evoluzione del sistema giuslavoristico e delle forme di tutela della persona, che l’indennità in esame sia assimilabile alle “altre” indennità corrisposte in costanza di rapporto. Il risultato cui era pervenuta l’Adunanza plenaria, con le sentenze citate, considerava, infatti, il lavoratore esclusivamente come prestatore di attività “destinatario” in quanto tale di diverse indennità e non anche come “persona” protetta dal relativo contratto.
6.2.- I soggetti che vengono in rilievo si inseriscono in un “rapporto obbligatorio bilaterale” in cui compare una sola parte responsabile ed obbligata ed una sola parte danneggiata.
L’Amministrazione statale è, infatti, l’unico soggetto che deve corrispondere sia l’indennità prevista dalle leggi sopra indicate sia la somma risarcitoria in qualità di datore di lavoro pubblico. Ed è questa la principale diversità rispetto alla questione posta all’esame delle Sezioni unite.
6.3.- L’analisi congiunta dei profili sin qui esaminati relativi ai titoli e ai soggetti delle obbligazioni che vengono in rilievo conduce a ritenere che le somme corrisposte non possono essere cumulate.
Tale esito interpretativo si fonda su talune ragioni (6.3.1.), è confermato dall’esistenza di alcune fattispecie (6.3.2.) e non è contraddetto (6.3.3.) dalle argomentazioni difensive della parte appellata.
6.3.1.- Sul piano della struttura degli illeciti, la presenza di una condotta unica responsabile che fa sorgere due obbligazioni da atto illecito, aventi entrambe finalità compensativa del medesimo bene giuridico, in capo allo stesso soggetto determina la nascita di rapporti obbligatori sostanzialmente unitari che giustifica l’attribuzione di una, altrettanto unitaria, prestazione patrimoniale finalizzata a reintegrare la sfera personale della parte lesa.
In questi casi, l’applicazione delle regole della causalità giuridica impone che venga compensato e liquidato soltanto il danno effettivamente subito dal danneggiato, senza che le suddette attribuzioni possano cumularsi tra di esse.
Non si tratta, pertanto, di applicare la regola della compensatio nella sua versione “tradizionale”, che presuppone che la medesima condotta determini un “danno” e un “vantaggio”. Come già esposto, tale regola non ha una sua autonomia ed è riconducibile alle tecniche di determinazione del danno che, nella specie, trovano applicazione in modo ancora più lineare e diretto. In questo caso, infatti, la medesima condotta ha determinato solo “danni” e dunque effetti pregiudizievoli, con la conseguenza che occorre evitare il “cumulo di voci risarcitorie” e non “il cumulo di danno e di lucro”.
Sul piano della funzione degli illeciti, il riconoscimento del cumulo implicherebbe l’attribuzione alla responsabilità contrattuale di una funzione punitiva. L’esistenza, infatti, di un solo soggetto responsabile e obbligato comporterebbe per esso l’obbligo di corrispondere una somma superiore a quella necessaria per reintegrare la sfera del danneggiato con ingiustificata locupletazione da parte di quest’ultimo. Tale risultato, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellato, non può ammettersi in quanto manca una espressa previsione legislativa che contempli un illecito punitivo e dunque che autorizzi un rimedio sovracompensativo e non sarebbe nemmeno configurabile una duplice causa dell’attribuzione patrimoniale.
In definitiva, nella fattispecie in esame l’accertata finalità compensativa di entrambi i titoli delle obbligazioni concorrenti e del conseguente meccanismo risarcitorio, nonché la semplicità del rapporto che evita le possibili complicazioni ricostruttive connesse al funzionamento della surrogazione, impedisce che possa operare il cumulo tra danno e indennità.
6.3.2.- Questo esito interpretativo trova conferma sia in fattispecie legalmente previste sia in talune fattispecie cosi come interpretate dalla Corte di Cassazione.
In relazione alle prime, è sufficiente menzionare l’art. 2-bis della legge n. 241 del 1990 che, in caso di comportamento illecito dell’amministrazione conseguente alla violazione del termine di conclusione del procedimento, dispone che l’istante ha diritto sia, sussistendone i presupposti, al risarcimento del danno sia ad un indennizzo «per il mero ritardo», aggiungendo, sul presupposto della medesima finalità della misura riparatoria contemplata, che «in tal caso le somme corrisposte o da corrispondere a titolo di indennizzo sono detratte dal risarcimento».
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