Palazzo-Spada

Consiglio di Stato

sezione III

sentenza 1 agosto 2014, n. 4105

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL CONSIGLIO DI STATO

IN SEDE GIURISDIZIONALE SEZIONE TERZA

ha pronunciato la presente

SENTENZA

1.

sul ricorso numero di registro generale 6451 del 2012, proposto da:

RO.SC., rappresentato e difeso dall’avv. Fe.Sc., con domicilio eletto presso Fe.Sc. in Roma;

contro

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, VI.ST.;

MINISTERO DELL’INTERNO, rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura Generale Dello Stato, domiciliata in Roma;

2.

sul ricorso numero di registro generale 6452 del 2012, proposto da:

RO.SC., rappresentato e difeso dall’avv. Fe.Sc., con domicilio eletto presso Fe.Sc. in Roma;

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura Generale Dello Stato, domiciliata in Roma;

per la riforma

quanto al ricorso n. 6451 del 2012:

della sentenza del T.a.r. Lazio – Roma: Sezione I Ter n. 03155/2012, resa tra le parti, concernente nomina a dirigente generale del ministero dell’interno

quanto al ricorso n. 6452 del 2012:

della sentenza del T.a.r. Lazio – Roma: Sezione I Ter n. 03746/2012, resa tra le parti, concernente riconoscimento del diritto al conferimento delle funzioni corrispondenti alla posizione di dirigente superiore con decorrenza dal 1998 – ris.danni

Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio di Ministero dell’Interno e di Ministero dell’Interno;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 10 luglio 2014 il Cons. Carlo Deodato e uditi per le parti gli avvocati Sc. e dello Stato Va.T. Sc. e dello Stato Va.T.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

Con la sentenza impugnata con il ricorso RG n.6451/2012 il tribunale amministrativo regionale per il Lazio ha respinto il ricorso proposto dal dott. RO.SC., dirigente superiore del Dipartimento di pubblica sicurezza del Ministero dell’Interno, avverso il provvedimento di nomina del dott. VI.ST. a dirigente generale del medesimo Ministero.

Avverso la predetta decisione proponeva appello il dott. Sc., contestandone la correttezza, insistendo nel sostenere l’illegittimità del provvedimento impugnato in primo grado e concludendo per l’annullamento di quest’ultimo, in riforma della statuizione impugnata.

Resisteva il Ministero dell’Interno, mentre non si costituiva in giudizio il dott. St..

Con la sentenza impugnata con il ricorso RG n.6452/2012 il tribunale amministrativo regionale per il Lazio ha respinto il ricorso proposto dal dott. RO.SC. inteso ad ottenere l’accertamento del demansionamento subito, rispetto alla sua qualifica di dirigente superiore, e la condanna del Ministero dell’Interno al risarcimento dei danni patiti per effetto della denunciata attività di mobbing.

Avverso la predetta decisione proponeva appello il dott. Sc., contestandone la correttezza, insistendo nel sostenere la fondatezza del ricorso di primo grado e concludendo per l’accoglimento di quest’ultimo, in riforma della statuizione impugnata.

Resisteva il Ministero dell’Interno, domandando la reiezione dell’appello.

I ricorsi venivano trattenuti in decisione alla pubblica udienza del 10 luglio 2014.

DIRITTO

1.- Occorre preliminarmente disporre la riunione dei due appelli indicati in epigrafe, in ragione degli evidenti vincoli di connessione soggettiva ed oggettiva, che ne impongono la trattazione congiunta.

A ben vedere, infatti, il dott. Sc. lamenta, con un ricorso, l’inadeguatezza, rispetto alla sua precedente carriera ed alla sua professionalità, degli incarichi affidatigli dal Ministero a decorrere dall’anno 2000 e censura, con l’altro ricorso, la mancata sua nomina a dirigente generale, quale diretta conseguenza del trattamento sfavorevole riservatogli dall’Amministrazione nel suddetto periodo.

Come si vede, quindi, è la stessa prospettazione difensiva del ricorrente che esige un esame contestuale dei due gravami, in quanto il primo si rivela logicamente presupposto del secondo.

2.- Il rispetto dell’ordine logico nella trattazione delle questioni impone di principiare dalla disamina dell’appello (RG n.6452/2012) proposto avverso la decisione che ha respinto il ricorso di primo grado inteso all’accertamento del demansionamento e, quindi, in altri termini, dell’azione di mobbing che il Ministero dell’Interno avrebbe operato in danno dell’interessato.

2.1- Il ricorso è infondato, alla stregua delle considerazioni di seguito esposte, e va respinto.

Innanzitutto, deve chiarirsi che il ricorrente non impugna specifici provvedimenti, ma si duole di un prolungato atteggiamento ostile da parte dell’Amministrazione, che si è risolto in una sua emarginazione dalla vita attiva del Dipartimento di pubblica sicurezza e in una forzata inattività durata circa sette anni, e domanda, quale conseguenza dell’accertamento della denunciata azione di mobbing, la declaratoria del suo diritto ad ottenere incarichi dirigenziali corrispondenti alla sua qualifica e la condanna del Ministero dell’Interno al risarcimento dei danni sofferti.

2.2- Così decifrata l’azione proposta dal dott. Sc., occorre procedere ad una sintetica ricognizione dei principi affermati da una giurisprudenza ormai univoca e consolidata (dalla quale non si ravvisano ragioni per discostarsi) sugli elementi costitutivi dell’azione di mobbing, onde verificare se risultano rintracciabili nella fattispecie controversa.

E’ stato, innanzitutto, rilevato che per mobbing deve intendersi una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo della sua salute psicofisica e con l’ulteriore conseguenza che, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro, va accertata la presenza di una pluralità di elementi costitutivi, dati: a) dalla molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio; b) dall’evento lesivo della salute psicofisica del dipendente; c) dal nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell’integrità psicofisica del lavoratore; d) dalla prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio (Cons. St., sez. IV, 6 agosto 2013, n.4135; sez. VI, 12 marzo 2012, n.1388).

Si è, poi, ulteriormente precisato che l’azione offensiva posta in essere a danno del lavoratore deve essere sistematica e frequente, deve essere posta in essere con una serie prolungata di atti e di comportamenti e deve avere le caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione o rivelare intenti meramente emulativi (Cons. St., sez. IV, 19 marzo 2013, n.1609).

Sotto il profilo del rilievo del fattore psicologico del datore di lavoro, è stato, ancora, chiarito che la sussistenza di condotte mobbizzanti deve essere qualificata dall’accertamento di precipue finalità persecutorie o discriminatorie, poiché proprio l’elemento soggettivo finalistico consente di cogliere in uno o più provvedimenti e comportamenti, o anche in una sequenza frammista di provvedimenti e comportamenti, quel disegno unitario teso alla dequalificazione, svalutazione od emarginazione del lavoratore pubblico dal contesto organizzativo nel quale è inserito e che è imprescindibile ai fini dell’enucleazione del mobbing (Cons. St., sez. IV, 16 febbraio 2012, n.815).

2.3- In coerenza con i predetti principi, i giudici di prima istanza hanno escluso la configurabilità, nella condotta del Ministero, degli estremi del mobbing, giudicandola, al contrario, rispettosa dei canoni di corretta amministrazione del rapporto di lavoro.

L’appellante critica la correttezza di tale convincimento e, sulla base di tre motivi (esaminabili congiuntamente), insiste nel sostenere si essere stato illecitamente escluso dal conferimento di incarichi operativi ed adeguati alla sua professionalità per il lungo periodo di sette anni.

2.4- L’assunto va disatteso.

Giova, al riguardo, rammentare, in fatto, che, nel periodo considerato, il dott. Sc., nominato dirigente superiore del Dipartimento di pubblica sicurezza a decorrere dal 1° gennaio 1998, dopo essere stato assegnato all’Ufficio Ispettivo Regionale del Lazio, è stato assegnato (nel dicembre 2000) all’Ufficio Centrale Ispettivo, con le funzioni di consigliere ministeriale aggiunto, ed ha ricevuto gli ulteriori incarichi di componente della Commissione Nazionale per il diritto d’asilo, partecipante al seminario ARIF-ARGO indetto dall’Alto Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite e ispettore generale per le camere di sicurezza nella provincia di Teramo.

Deve, al riguardo, rilevarsi che dal mero esame degli incarichi ricevuti dal ricorrente non è dato ricavare la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi del mobbing (ut supra riassunti), in difetto di ulteriori indizi significativi di una volontà persecutoria, vessatoria, discriminatoria o, comunque, preordinata all’emarginazione dell’interessato dallo svolgimento dei compiti istituzionali del Dipartimento di pubblica sicurezza.

Premesso che l’incarico ricevuto risulta del tutto coerente con la qualifica di dirigente superiore e che il medesimo non può in alcun modo essere qualificato come significativo o dimostrativo del denunciato demansionamento, anche tenuto conto dell’assenza, nell’Amministrazione della Polizia di Stato, di una graduazione degli uffici e delle funzioni riservati ai dirigenti superiori, non può non osservarsi, quanto alla prospettazione più generale di un’intenzione di emarginazione dell’interessato, che l’omessa assegnazione di incarichi di maggiore responsabilità (già di per sè limitatamente sindacabile) rientra nella ordinaria dinamica, connotata da ampia discrezionalità, di affidamento degli incarichi dirigenziali e non appare univocamente significativa di una volontà escludente.

Anzi, la sussistenza di tale ultimo elemento psicologico (si ripete: costitutivo della fattispecie di mobbing) risulta smentita e contraddetta dall’affidamento al dott. Sc., nel periodo controverso, degli ulteriori incarichi sopra indicati che, per quanto limitati, attestano, in ogni caso, quella stima e quella fiducia nella sua professionalità che si rivelano del tutto incompatibili con la denunciata volontà di discriminazione.

Né vale, ancora, obiettare che l’incarico di consigliere ministeriale presso l’Ufficio Centrale Ispettivo ha, di fatto, costretto il dott. Sc. all’inattività, sia in quanto la dedotta revoca, da parte del Capo della Polizia, della funzione di ispettore generale è rimasta sprovvista di dimostrazione, sia in quanto, comunque, non consta che l’interessato, nel periodo in questione, non abbia svolto le funzioni pertinenti al suo incarico.

In definitiva, la situazione denunciata dal ricorrente, pur rivelando una certa discontinuità nello sviluppo della sua carriera, non presenta, tuttavia, quegli indefettibili caratteri di pervicace, continuativa e sistematica volontà dell’Amministrazione di discriminare, emarginare ed estromettere il dipendente dalla vita lavorativa (nel chè si risolve il mobbing), dimostrando, al più, una fisiologica, ma per nulla illecita, gestione sfavorevole ed insoddisfacente dell’affidamento degli incarichi attribuitigli (così come accade ordinariamente nelle carriere della maggior parte dei dirigenti pubblici).

2.5- Alle considerazioni che precedono consegue il rigetto del ricorso RG n. 6452/2012.

3.- Resta da esaminare il ricorso RG n.6451/2012, con il quale il dott. Sc. ha appellato la decisione di reiezione dell’impugnazione della nomina a dirigente generale del Ministero dell’Interno del dott. Vi.St..

3.1- Anche tale gravame risulta infondato e dev’essere, quindi, respinto.

3.2- Con un unico, articolato motivo di appello, il ricorrente insiste nel sostenere la “spettanza” (a sé) della nomina a dirigente generale ed ascrive la relativa omissione all’atteggiamento persecutorio e vessatorio riservatogli dall’Amministrazione a decorrere dal 2000 e denunciato con il ricorso appena esaminato e respinto.

3.3- Deve, al riguardo, premettersi che la disciplina normativa di riferimento della nomina a dirigente generale di pubblica sicurezza (art.11 decreto legislativo 5 ottobre 2000, n.334) configura una procedura nella quale la scelta del Ministro dell’Interno del dirigente superiore, tra quelli individuati dalla competente commissione consultiva, da proporre al Consiglio dei Ministri (al quale compete la relativa deliberazione di nomina) si rivela connotata da una discrezionalità molto ampia, di talchè può ritenersi viziata solo se operata in spregio delle regole procedimentali ivi stabilite (ad esempio se riferita ad un funzionario non compreso nella rosa selezionata dalla commissione consultiva) ovvero se affetta da macroscopici vizi di irragionevolezza (ad esempio se riferita ad un funzionario che, ancorchè selezionato come idoneo dalla commissione consultiva, si rivela del tutto sprovvisto dell’attitudine a svolgere le funzioni di dirigente generale).

Non solo, ma la scelta del Ministro non postula alcun confronto competitivo tra i diversi funzionari selezionati come idonei alla promozione, sicchè nel giudizio di legittimità della nomina in questione non possono trovare ingresso deduzioni o censure che presuppongono una valutazione comparativa tra i curricula del ricorrente e del controinteressato.

Così precisato l’oggetto della presente indagine, risulta agevole rilevare che la nomina del dott. St. si rivela del tutto conforme al paradigma normativo di riferimento ed immune dai vizi denunciati a suo carico.

Merita, in particolare, di essere ricordato che le allegazioni relative al dedotto atteggiamento vessatorio dell’Amministrazione nei riguardi del ricorrente vanno disattese per le argomentazioni assunte a sostegno della reiezione dell’appello esaminato per primo.

Esclusa l’ammissibilità delle censure riferite alla valutazione comparativa delle due posizioni confrontate nel ricorso, resta, poi, agevole rilevare che il curriculum del dott. St. risulta del tutto adeguato a rivelare la sua attitudine all’esercizio delle funzioni di dirigente generale di pubblica sicurezza e che non è dato rinvenire negli atti di causa alcun elemento o indizio significativo del contrario.

3.4- Anche l’appello in esame va, quindi, respinto.

4.- Si ravvisano, nondimeno, ragioni di equità per la compensazione tra le parti delle spese di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sugli appelli, come in epigrafe proposti, li riunisce e li respinge. Dichiara compensate tra le parti le spese del presente grado di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 luglio 2014 con l’intervento dei magistrati:

Pier Giorgio Lignani – Presidente

Carlo Deodato – Consigliere, Estensore

Vittorio Stelo – Consigliere

Angelica Dell’Utri – Consigliere

Pierfrancesco Ungari – Consigliere

Depositata in Segreteria il 01 agosto 2014.

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