Consiglio di Stato, Sezione sesta, Sentenza 7 gennaio 2020, n. 93
La massima estrapolata:
Il concetto di pertinenza non rilevante ai fini urbanistico edilizi comprende esclusivamente le costruzioni di modesta entità, poste al servizio di un fabbricato principale, non utilizzabili se non in funzione di esso, e prive quindi di un autonomo valore economico; esula invece da tale concetto un capannone, per di più di notevoli dimensioni, senz’altro suscettibile di autonomo utilizzo, che quindi necessita di permesso di costruire, in quanto aumenta il carico urbanistico.
Sentenza 7 gennaio 2020, n. 93
Data udienza 26 novembre 2019
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 9298 del 2013, proposto dal signor Sa. Bo., rappresentato e difeso dall’avvocato Do. Vi., con domicilio eletto presso lo studio Pl. S.r.l., in Roma, via (…);
contro
il Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Ra. Ma., con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Ni. Bu. in Roma, via (…);
per l’annullamento
della sentenza del TAR Campania, sede di Napoli, sezione III, 9 aprile 2013 n. 1891, che ha respinto il ricorso n. 6349/2010 R.G. proposto per l’annullamento dei seguenti atti del Comune di (omissis):
a) dell’ordinanza 26 agosto 2010, n. 20, e prot. n. 33467, notificata il giorno 30 agosto 2010, con la quale il responsabile del Servizio urbanistica ha ingiunto all’appellante, quale committente e possessore dell’area, di demolire in quanto abusive opere realizzate in via (omissis), traversa delle (omissis), costituite da un capannone a struttura metallica e copertura a lamiere coibentate, aperto su un solo lato, con superficie di 212 mq e volume di mc. 780;
b) del verbale di sopralluogo 3 agosto 2010;
e di ogni altro provvedimento preordinato, connesso e conseguente;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis);
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza smaltimento del giorno 26 novembre 2019 il Cons. Francesco Gambato Spisani e udito per la parte ricorrente appellante l’avvocato Pa. Mi., in delega dell’avvocato Do. Vi.;
ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
– con l’ordinanza 26 agosto 2010 indicata in epigrafe, il Comune appellato ha ingiunto all’appellante di demolire in quanto abusive opere realizzate sul terreno di cui egli è possessore, in via (omissis), traversa delle (omissis), e costituite da un capannone a struttura metallica e copertura a lamiere coibentate, aperto su un solo lato, con superficie di 212 mq e volume di mc. 780, il tutto realizzato senza titolo edilizio alcuno in zona soggetta a vincolo paesaggistico ai sensi del D.M. 6 ottobre 1961 e al vincolo di cd zona rossa, istituito con l.r. Campania 10 dicembre 2003, n. 21, a fronte del pericolo rappresentato dal Ve., e in base ad esso non edificabile senza un previo piano particolareggiato, nella specie assente (doc. 1 in primo grado dell’appellante);
– a fronte di ciò, l’interessato ha proposto ricorso giurisdizionale in primo grado e nello stesso ha dichiarato (p. 9 dal decimo rigo) di voler presentare domanda di accertamento di conformità, il che poi risulta aver fatto con atto 22 ottobre 2010, prot. n. 1316 (sentenza impugnata, p. 3 tredicesimo rigo);
– con la sentenza meglio indicata in epigrafe, il TAR ha respinto il ricorso proposto dall’interessato contro tale ordinanza; in sintesi ha ritenuto che la costruzione avesse caratteristiche tali da richiedere un permesso di costruire, che in mancanza di esso l’ordinanza di demolizione fosse stata legittimamente adottata, e che la presentazione della domanda di accertamento di conformità fosse non rilevante ai fini del relativo giudizio;
– il ricorrente ha proposto impugnazione contro questa sentenza, con appello che contiene quattro motivi;
– con il primo di essi, egli deduce la violazione dell’art. 36 del T.U. 6 giugno 2001, n. 380, sostenendo che il Comune si sarebbe comunque dovuto pronunciare sulla domanda di sanatoria con un provvedimento espresso, e non con il silenzio rifiuto allegato dal Comune;
– con il secondo motivo, deduce la violazione dell’art. 31 dello stesso T.U. 380/2001, nel senso che l’opera per cui è causa sarebbe una pertinenza, come tale non vietata;
– con il terzo motivo, deduce ulteriore violazione dell’art. 31 suddetto, in quanto a suo dire l’amministrazione, prima di emettere l’ordinanza repressiva, avrebbe dovuto valutare la sanabilità delle opere;
– con il quarto motivo, deduce infine la violazione dell’art. 7 della l. 7 agosto 1990, n. 241, per la mancanza dell’avviso di inizio del procedimento;
– il Comune si è difeso con memoria di data 4 febbraio 2014, in cui chiede che l’appello sia respinto, deducendo che sulla domanda di sanatoria si sarebbe formato il silenzio rifiuto;
– l’appellante il giorno 8 aprile 2019 ha infine depositato una sentenza della Corte d’appello di Napoli 5 febbraio 2019, n. 1058, da cui si desumerebbe l’accoglimento di un suo appello in sede penale con “annullamento del provvedimento di demolizione”;
– all’udienza pubblica del giorno 26 novembre 2019, la Sezione ha trattenuto la causa in decisione;
– l’appello è infondato e va respinto, per le ragioni di seguito illustrate;
– preliminarmente, va evidenziato che la sentenza della Corte d’appello di Napoli n. 1058/2019, depositata in copia dall’appellante, non ha affatto disposto, come egli sostiene, l’annullamento del provvedimento amministrativo di demolizione per cui è causa – il che oltretutto esulerebbe dai poteri del Giudice ordinario- ma ha dichiarato estinto per prescrizione i reati edilizi che gli erano stati contestati ed ha revocato l’ordine di demolizione emesso dal Giudice penale, all’evidenza diverso e distinto dal provvedimento qui impugnato e soggetto a presupposti completamente diversi. Si tratta quindi di una vicenda ininfluente su questo processo;
– ciò premesso, il primo motivo, centrato su un’asserita violazione dell’art. 36 T.U. 380/2001, è infondato.
Secondo la giurisprudenza, infatti, la presentazione di un’istanza di accertamento di conformità da parte del responsabile di un abuso edilizio, al quale sia stata notificata un’ordinanza di rimessione in pristino, non comporta che l’ordinanza in questione sia caducata, o comunque che essa vada considerata illegittima, ma soltanto che essa non possa essere materialmente eseguita sino a che l’istanza di sanatoria stessa non sia stata decisa: così per tutte C.d.S. sez. VI 5 novembre 2018, n. 6233, e 6 maggio 2014, n. 2307, sulla base dell’ovvio rilievo per cui, ragionando diversamente, si consentirebbe al privato, con una semplice istanza, che potrebbe anche essere infondata ovvero pretestuosa, di paralizzare il potere di repressione degli abusi che all’amministrazione spetta.
Inoltre, come ha rilevato questo Consiglio (Sez. VI, 23 luglio 2018, n. 4481, con giurisprudenza ivi citata):
per i principi di legalità e di tipicità del provvedimento amministrativo e dei suoi effetti, soltanto nei casi previsti dalla legge una successiva iniziativa procedimentale del destinatario dell’atto può essere idonea a determinare ipso iure la cessazione della sua efficacia;
in materia edilizia, la legge n. 47 del 1985 (per come richiamata dalle successive leggi sul condono del 1994 e del 2003) ha previsto che la domanda di condono – nei casi ivi previsti ed in presenza dei relativi presupposti – ha determinato la cessazione degli effetti dei precedenti atti sanzionatori;
quando è proposta prima della scadenza del termine di novanta giorni (dopo il quale il bene è acquistato di diritto dall’ente locale) una domanda di accertamento di conformità, ai sensi dell’art. 36 del testo unico n. 380 del 2001, si verifica invece una sospensione dell’efficacia dell’ordine di demolizione (nel senso che questo non può essere portato ad esecuzione finché non vi sia stata la definizione della domanda, con atto espresso o mediante il silenzio rigetto), sicché – nel caso di rigetto dell’istanza – l’ordine di demolizione riacquista la sua efficacia.
Di conseguenza, nel presente giudizio, in cui si controverte della legittimità dell’ordinanza di demolizione, il fatto che il Comune si sia pronunciato sull’istanza di sanatoria è ininfluente, a prescindere dal fatto che la pronuncia sia data da un provvedimento tacito o da uno esplicito;
– è infondato anche il secondo motivo di appello, secondo il quale l’opera di cui si tratta sarebbe una pertinenza, e come tale non richiederebbe un titolo edilizio per essere realizzata. Per la costante giurisprudenza, il concetto di pertinenza non rilevante ai fini urbanistico edilizi comprende esclusivamente le costruzioni di modesta entità, poste al servizio di un fabbricato principale, non utilizzabili se non in funzione di esso, e prive quindi di un autonomo valore economico; esula invece da tale concetto un capannone, per di più di notevoli dimensioni come quello per cui è causa, senz’altro suscettibile di autonomo utilizzo, che quindi necessita di permesso di costruire, in quanto aumenta il carico urbanistico: così in un caso identico C.d.S. sez. IV 11 novembre 2010, n. 8026;
– il terzo motivo è a sua volta infondato, sulla base di quanto stabilito dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio con la sentenza 17 ottobre 2017, n. 9, secondo la quale il provvedimento con cui viene ingiunta la demolizione di un immobile abusivo perché realizzato senza titolo alcuno, ove ne ricorrano i presupposti di fatto e di diritto, ha natura vincolata e non richiede motivazione quanto alle ragioni di pubblico interesse, diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata, che impongono la rimozione dell’abuso. Di conseguenza, è evidente che l’amministrazione, prima di esercitare i relativi poteri repressivi, non è in alcun modo tenuta a valutare l’eventuale possibilità di sanatorie;
– per la stessa ragione, ovvero per il carattere vincolato dell’ordinanza di demolizione impugnata, è infondato anche il quarto ed ultimo motivo, dato che comunque l’Amministrazione non avrebbe potuto emanare provvedimenti di diverso contenuto, e quindi la mancanza dell’avviso di inizio del procedimento non rileva ai sensi dell’art. 21 octies, secondo comma ultima parte, della l. 7 agosto 1990, n. 241;
– per le ragioni che precedono, l’appello va respinto;
– le spese del secondo grado seguono la soccombenza e si liquidano così come in dispositivo;
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull’appello come in epigrafe proposto (ricorso n. 9298/2013), lo respinge.
Condanna il ricorrente appellante a rifondere all’amministrazione intimata appellata le spese del presente grado di giudizio, spese che liquida in Euro 5.000 (cinquemila/00), oltre accessori di legge, se dovuti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 26 novembre 2019 con l’intervento dei magistrati:
Luigi Maruotti – Presidente
Oreste Mario Caputo – Consigliere
Francesco Gambato Spisani – Consigliere, Estensore
Giovanni Sabbato – Consigliere
Davide Ponte – Consigliere
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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