In merito alle società di persone, la nozione di capitale sociale è inesistente, poiché secondo la dottrina tradizionale e prevalente (Ferri – Auletta – Ghidini), questa assenza di disciplina è giustificata dalla responsabilità illimitata dei soci.
Non vi è una reale necessità, come nelle società di capitali, di prevedere quel misuratore chiamato capitale sociale, il quale altro non è che un’entità numerica la quale esprime il valore in denaro dei conferimenti stessi, necessario affinché garantisca i creditori sociali, con una serie di norme, le quali tendono ad impedire che il valore del patrimonio netto (dato dalla differenza tra le attività e le passività e perciò dal valore del patrimonio netto) diventi inferiore a quello espresso dal capitale sociale, in conseguenza di ripartizione tra i soci di attività non corrispondenti a utili conseguiti.
Una dottrina recente (SPOLIDORO), invece, ha cercato, d’inserire il concetto di capitale sociale anche nelle società di persone, e soprattutto, dalla discplina delle s.n.c., con il riferimento a due norme:
– art. 2303 – divieto di distribuzione degli utili fittizi < non può farsi luogo a ripartizione di somme tra soci se non per utili realmente conseguiti (2621). Se si verifica una perdita del capitale sociale, non può farsi luogo a ripartizioni di utili fino a che il capitale non sia reintegrato o ridotto in misura corrispondente > da ciò l’autore rileva che c’è bisogno di una contabilizzazione autentica del capitale sociale al fine di rilevare gli utili fittiziamente distribuiti.
Contra BUONOCORE – il quale ritiene che questa norma, pur avendo una funzione di limite generale, è sempre una norma priva di sanzione e per analogia potrebbe essere applicata la disciplina sull’indebito oggettivo, a differenza di una specifica disciplina prevista in materia di società di capitali.
– art. 2306 – riduzione del capitale < la deliberazione di riduzione di capitale, mediante rimborso ai soci delle quote pagate o mediante liberazione di essi dall’obbligo di ulteriori versamenti, può essere eseguita soltanto dopo tre mesi dal giorno dell’iscrizione nel registro delle imprese (att. 99 e seguenti), purché entro questo termine nessun creditore sociale anteriore all’iscrizione abbia fatto opposizione (2623 n. 1; att. 211)>.
Contra – appare strano tale riduzione nel rispetto dei creditori sociali, avendo essi un‘azione generale sul patrimonio personale di ogni socio.
Problema dottrinario e non solo – Se si applica l’art. 2306 nel casi di riduzione per perdite improprie (quelle che incidono sul risultato del capitale sociale, ma che non derivano dalla gestione d’imprese – scioglimento del rapporto con il singolo socio – morte – recesso ed esclusione) previste in materia di società di capitali.
Secondo la dottrina prevalente la risposta è negativa, perché è previsto un altro strumento giuridico per risolvere tale problema, ed in particolare l’art. 2290, il quale prevede che nei casi in cui il rapporto sociale si scioglie limitatamente a un socio, questi o i suoi eredi sono responsabili verso i terzi per le obbligazioni sociali (2267) fino al giorno in cui si verifica lo sciogliment, quindi non vi è ragione di aggiungere un’ulteriore facoltà a favore dei terzi, ovvero l’opposizione prevista dall’art. 2306.
Problema dottrinario e non solo – Se si applica l’art. 2306 – nell’ipotesi in cui si riduca il capitale sociale, non nel modo classico previsto dall’art. in questione bensì attraverso il passaggio di capitale a riserva.
A) Secondo parte della dottrina è possibile –
B) Secondo altra parte della dottrina, preferibile, non è possibile poiché non vi è alcuna disciplina in merito alle riserve nell’ambito delle società di persone come, invece, nelle società di capitali. Inoltre nelle società di persone quando si creano delle riserva esse vengono considerato come guadagno dei soci, quindi, immediatamente tassabili.
Tuttavia, uno studio del Consiglio nazionale del Notariato, pur ritenendo tale operazione inutile, sul piano pratico, poiché i soci pacherebbero tasse ulteriori, ciò non toglie che, non essendoci sufficienti ragioni per avallare la tesi negatrice, l’art. 2306 può essere applicato a tale ipotesi.
La quota
A) secondo la dottrina risalente a circa venti/venticinque anni fa, essa esprimeva, oltre all’insieme dei diritti e dei doveri del socio, esclusivamente una sorta di posizione contrattuale, in altri termini, non la si riteneva un bene ontoligicamente considerato, bensì una partecipazione di carattere contrattuale. Il risvolto pratico risiedeva soprattutto nel fatto che tale quota, non considerata come bene, non ricadeva in comunione legale dei beni, poiché appunto non rientrava nell’ambito della classificazione prevista all’art. 810 c.c.
B) Secondo altra dottrina (per tutti SANTINI), in riferimento soprattutto alla s.r.l., la quota è comunque l’espressione di un complesso si situazioni attive e passive che fanno capo al socio, avente un valore patrimoniale autonomo.
C) Secondo una sentenza della Cassazione (n. 934, del 1997) la quota è un bene – ex art. 810 – mobile immateriale, questo perché alla quota fanno capo tutti i diritti ed i doveri che fanno parte dello status di socio.
Il trasferimento di una quota
il legislatore non ha previsto espressamente il trasferimento della quota per atto inter vivos,
1) ma la dottrina e la giurisprudenza unanimemente affermano che nelle società di persona la cessione della qualità di socio non è ammessa senza il consenso di tutti i soci, costituendo essa una modificazione soggettiva del contratto sociale.
2) Sotto altro aspetto il necessario consenso unanime per la cessione della quota, per la dottrina prevalente (Ghidini – Santini – Pettinari), deriverebbe dall’inquadramento nella disciplina della cessione del contratto
Il socio alienante (donante o venditore) assumerebbe la figura del cedente, l’acquirente (donatario o compratore della quota) assumerebbe la figura del cessionario, mentre gli altri soci assumerebbero il ruolo di contraenti ceduti ed è perciò che il loro consenso sarebbe necessario.
Secondo una personalissima opinione per chi scrive, il consenso unanime è necessario, anche perché alla base del contratto sociale, vi è un rapporto strettamente personale, caratterizzato dal principio dell’intuitus personae.
Il patto di libera trasferibilità
È discusso se sia consentito il patto preventivo di libera trasmissibilità della quota per atto inter vivos, patto espressamente previsto, nel caso di trasferimento mortis causa.
A) la tesi negatrice (Ghidini) si fonda sull’incompatibilità che siffatto patto avrebbe con l’essenza della società personale basata sulla considerazione e valutazione delle persone dei soci; occorre cioè che gli altri soci diano il consenso dopo aver conosciuto e valutato la persona del cessionario.
B) La tesi positiva prevalente in dottrina (Santini – Graziani) e in giurisprudenza ne afferma, invece, la validità perché una siffatta clausola non pregiudica né gli interessi dei soci stessi né quelli dei creditori sociali, i quali trovano la loro garanzia sia nella responsabilità del socio cedente che in quella del socio cessionario (art. 2269).
La cessione della quota secondo alcune pronunce della Suprema Corte
Secondo la Cassazione la cessione della quota sociale priva del consenso degli altri soci può determinare il trasferimento dei soli diritti patrimoniali inerenti alla qualità di soci, ma non anche il trasferimento del relativo status.
Infatti solo in questo caso (trasferimento dei diritti sociali) il consenso, non incidendo sulla validità della cessione, costituirebbe una condicio iuris per l’opponibilità del trasferimento della quota sociale alla società. Basandosi su questo indirizzo la dottrina ha dato una risposta, abbastanza univoca, negativa in merito all’estensione del fallimento della società alla parte cessionaria, poiché appunto tale soggetto non diventa socio.
Nota: 29.12.10 – Cassazione Civile: responsabilità del cedente di quote di snc “In caso di cessione di quota di società in nome collettivo – qualora il cedente non abbia garantito gli acquirenti la quota stessa della inesistenza di debiti sociali – lo stesso risponde delle obbligazioni sociali sorte anteriormente alla cessione esclusivamente nei confronti dei creditori sociali e non anche della società stessa e degli acquirenti la quota. Sia la società, sia i cessionari della quota, pertanto, una volta adempiute tali obbligazioni, non hanno titolo a essere ritenuti indenni, dall’ex socio cedente, di quanto corrisposto ai creditori”. (Corte di Cassazione – Terza Sezione Civile, Sentenza 13 dicembre 2010, n.25123)
Nota: la cessione di quota non fa scattare il sistema prelatizio riguardo ai beni immobili. La prelazione scatta quando canbia la titolarità del bene – in tale caso non si attua tale sistema perché titolare della quota rimane la stessa società. Diritto di prelazione Inoltre può essere previsto nell’atto costitutivo, un diritto di prelazione, in caso di cessione di quota in proporzione delle quote possedute da ciascun socio.
Mentre per quanto riguarda le responsabilità per le obbligazioni sociali nell’ambito della cessione secondo una recentissima sentenza della Suprema Corte depositata il 12.1.2011 “Le norme del codice civile che regolano la responsabilità per le obbligazioni sociali del socio di società personale (in particolare, gli art. 2269 sul socio entrante, 2290 sul socio uscente, 2263 sul riparto delle perdite e 2289 sulla liquidazione della quota) si applicano soltanto quanto alla responsabilità dei soci verso i terzi, e non ai rapporti interni fra cedente e cessionario della partecipazione sociale, che restano affidati all’autonomia contrattuale delle parti.”
Sentenza n. 525 del 12 gennaio 2011
Sempre secondo altra sentenza della Suprema Corte (Corte di cassazione, sezione I, sentenza n. 19430 del 23 settembre 2011)
è inapplicabile in via analogica l’articolo 2557 quando sulla base di un accertamento di fatto si esclude l’equivalenza fra cessione della quota del 40% e l’alienazione dell’intera azienda e la sostituzione dell’imprenditore cessionario a quello societario nella gestione dell’azienda
Affitto di quota
È difficile ipotizzare un affitto di quota se si fa riferimento alla tesi secondo la quale essa altro non è che una posizione contrattuale;
Pertanto, partendo dal presuposto che la quota è un bene mobile immateriale è possibile tale contratto avente ad oggetto la quota societaria, senza il necessario consenso di tutti i soci, perché non vi è una sostanziale modifica del contratto sociale, in quanto il socio concedente non perde la qualità di socio.
Anche se, secondo una parte della dottrina tale contratto sarebbe sostanzialmente atipico, in quanto non sarebbe a carattere commutativo, ma aleatorio, per il fatto che la distibuzione degli utili, quale corrispettivo a favore dell’affittuario a dispetto del pagamento del canone quale entità fissa, non rientra nell’alea normale del contratto.
L’affittuario, inoltre, non assume la qualità di socio, poiichè alcune sentenza delle Cassazione hanno stabilito che egli in primis non possiede la quota, poi non può amministrae e non ha alcun potere di coordinamento, ed infine, non può amministrare.
L’usufrutto di quota
Nelle società di persone, in generale, e nelle società semplici, in particolare, non c’è alcuna disciplina dettata in materia di usufrutto di quota, a differenza delle società di capitali che all’art. 2352 ha previsto un’ampia e completa regolamentazione che non può essre applicata tout court alle società di persone poiché la scissione della qualità di socio dall’esercizio dei diritti amministrativi (potere gestorio) propria delle società di capitale, non è possibile nelle società semplici in quanto vi è un legame incindibile tra i poteri di voto, i poteri amministrativi e gli altri diritti amministrativi con lo status di socio.
Partendo dal presupposto che l’usufrutto, in generale disciplinato agli artt. 981 e ss., è concepito per i beni di 1°, uno dei più grandi ostacoli da superare, affinché si possa ammettere l’usufrutto di quota, è dato dal fatto che il bene “quota” rientra tra i beni di 2°, poiché, essa determina un ruolo economico mediato, rappresentando, appunto, un’entità conferita al momento della costituzione, e non ha un valore estrinseco in senso stretto. Perciò per superare tale ostacolo bisogna ritenere ammissibile l’usufrutto di un bene di 2°, come diritto nei limiti del diritto stesso che esso rappresenta.
Inoltre è ammissibile soprattutto perché la dottrina, ha individuato, attraverso uno studio sistematico, nell’usufrutto d’azienda e di credito l’esistenza di diritti d’usufrutto anomali, assimilabili a quello in questione. art. 981 c.c. contenuto del diritto di usufrutto: l’usufruttuario ha diritto di godere della cosa, ma deve rispettarne la destinazione economica. Egli può trarre dalla cosa ogni utilità che questa può dare (1998), fermi i limiti stabiliti in questo capo. Salvo qualche voce contraria immotivata (Trib. di Trento 1996), la dottrina non dubita che possono essere oggetto di usufrutto non solo le azioni così come testualmente previsto dall’art. 2352 c.c., richiamato dall’art. 2454 c.c, in tema di accomandita per azioni, ma anche le quote sia delle società a r.l. che delle società di persone.
Problema dottrinario e non solo se è necessario il consenso degli altri soci per la costituzione dell’usufrutto.
A) dottrina minoritaria, ritiene che non è necessario il consenso degli altri soci, in quanto la costituzione, in realtà, non è una mdifica ex art. 2252 e l’usufruttuario non interferirà nei rapporti sociali essendo un “volgare percettore di utili”.
B) La dottrina prevalente, invece, ritiene che sia necessario il consenso di tutti i soci;
questo perché
1) GRADASSI – l’usufruttuario acquista al momento della costituzione dell’usufrutto la qualità di socio ed è inimmaginabile non applicare l’art. 2252
2) Altra dottrina (preferibile per il notaio Trimarchi) la presenza dell’usufruttuario altera la distribuzione dei poteri e dei rapporti sociali, determinando, così una modifica del contratto sociale. Principio generale (ad eccezione di Gradassi)– l’usufruttuario non acquista la qualità di socio.
L’usufruttuario es art. 981 ha un limitato potere di godere e di disporre, mentre il socio ha un potere pieno tanto da rispondere illimitatamente delle obbligazioni sociali Si discute se ed in che limiti spetti all’usufruttuario di quota il diritto di amministrare la società.
È preferibile la tesi (Graziani) che distingue il diritto al voto dal diritto di amministrare, intendendosi il primo come il diritto di partecipare alla formazione della volontà sociale, il secondo come il diritto di dirigere gli affari della società
Per diritti amministrativi (distinzione determinata dall’Auletta) s’inetendono:
A) potere dovere di collaborare ex art. 2252, ossia di partecipare alla modifiche del patto sociale –
1) secondo una parte della dottrina (Corsini – Ferrara), la risposta è positiva, sia per una tutela maggiore all’usufruttuario e sia perché il nudo proprietario e l’usufruttuario integrano coordinatamente la posizione di socio.
2) Secondo, invece, la giurisprudenza (Trib. di Bologna del 2001) la risposta è negativa per il semplice ragionamento che l’usufruttuario non è socio.
B) Potere amministrativo in senso stretto (attività gestoria) – la rispota è negativa, sempre per il principio generale che l’usufruttuario non acquista lo status di socio.
C) Poteri amministrativi diversi –
1) ispezione e controllo dei libri sociali –
2) partecipazione all’approvazione del rendiconto –
3) autorizzazione all’uso dei beni sociali per uno scopo diverso da quello sociale – per questi poteri la risposta è positiva anche per non rendere l’usufruttuario un volgare percettore di utili.
Problema dottrinario e non solo se è l’usufruttuario risponde delle obbligazioni sociali.
Secondo la giurisprudenza (Trib. di Bologna del 2001) e la dottrina prevalente (Di Sabato – Galgano – Ferrara Corsi) la risposta è negativa per il semplice ragionamento che l’usufruttuario non è socio.
Nota – GRADASSI – auspicabile, al momento della costituzione dell’usufrutto, disciplinare, in maniera pattizia, la responsabilità, tenuto conto della delicatezza degli interessi contrastanti.
Problema dottrinario e non solo se è il diritto agli utili è esercitatile solo verso il nudo proprietario o verso la società.
Anche se l’usufruttuario non è socio, poiché l’usufrutto è un diritto reale, ex art. 981, è un diritto esercitatile contro tutti, quindi, verso la società.
Nota – nel caso di RISERVIZZAZIONE degli utili, l’usufruttuario può partecipare a tale decisione, pichè tale decisione può determinare una lesione del diritto agli utili spettante all’udsufruttuario–
Il pegno di quota
Come per l’usufrutto non esiste alcuna disciplina ad hoc. In generale il contratto di pegno ha una funzione di garanzia e la quota di società può essere oggetto di tale contratto. art. 2786 c.c. costituzione: il pegno si costituisce con la consegna (c.c.2014, 2026) al creditore della cosa o del documento che conferisce l’esclusiva disponibilità della cosa (c.c.1996).
La cosa o il documento possono essere anche consegnati a un terzo designato dalle parti o possono essere posti in custodia di entrambe, in modo che il costituente sia nell’impossibilità di disporne senza la cooperazione del creditore.
PRINCIPIO GENERALE – il creditore pignoratizio non acquista la qualità di socio e non ha nessun dirtto amministrativo, ma può ottenere soltanto agli utili ex art. 2791. art. 2791 c.c. pegno di cosa fruttifera: se è data in pegno una cosa fruttifera, il creditore, salvo patto contrario, ha la facoltà di fare suoi i frutti (c.c.8211, imputandoli prima alle spese e agli interessi e poi al capitale.
Il vero problema del pegno della quota di società riguarda il profilo della espropriabilità, ovvero, la possibilità da parte del creditore pignoratizio di rivalesri sul bene oggetto del pignoramento.
Problema dottrinario e non solo se è necessario il consenso degli altri soci per la costituzione del pegno.
La dottrina prevalente ritiene che sia necessario il consenso di tutti i soci ex art 2252 ma non secondo una riconduzione tout court a tale articolo; infatti tale consenso ha una funzione di consenso anticipato, come una sorta di autorizzazione, per la futura vendita coattiva della quota pignorata nel caso d’inadempimento del socio nudo proprietario che determina, appunto, una modifica del patto sociale.
Nota – La costituzione del pegno soggiace alle regole di pubblicità per lo società in nome collettivo, ovvero deve essere iscritta nel registro delle Imprese ex art. 2300. art. 2300 c.c. (obblighi peculiari agli amministratori della società in nome collettivo) modificazioni dell’atto costitutivo: gli amministratori devono richiedere nel termine di trenta giorni all’ufficio del registro delle imprese (att. 99 e seguenti), l’iscrizione delle modificazioni dell’atto costitutivo e degli altri fatti relativi alla società, dei quali è obbligatoria l’iscrizione (2626). Problema dottrinario e non solo nel caso di scioglimento del rapporto sociale e in particolare nel caso di morte del socio nudo proprietario.
Art. 2742 – come norma generale – art. 2742 c.c. surrogazione dell’indennità alla cosa: se le cose soggette a privilegio, pegno (c.c.2784 e seguenti) o ipoteca (c.c.2808 e seguenti) sono perite o deteriorate, le somme dovute dagli assicuratori per indennità della perdita o del deterioramento (c.c.1905) sono vincolate al pagamento dei crediti privilegiati, pignoratizi o ipotecari, secondo il loro grado, eccetto che le medesime vengano impiegate a riparare la perdita o il deterioramento (Cod. Nav. 553, 1026). L’autorità giudiziaria può, su istanza degli interessati, disporre le opportune cautele per assicurare l’impiego delle somme nel ripristino o nella riparazione della cosa.
Gli assicuratori sono liberati qualora paghino dopo trenta giorni dalla perdita o dal deterioramento, senza che sia stata fatta opposizione. Quando però si tratta di immobili su cui gravano iscrizioni, gli assicuratori non sono liberati se non dopo che è decorso senza opposizione il termine di trenta giorni (c.c.2964) dalla notificazione ai creditori iscritti (c.c.2844) del fatto che ha dato luogo alla perdita o al deterioramento.
Ma tel norma secondo la dottrina prevalente è un’ipotesi eccezionale e non applicabile a tale faatispecie poiché nell’ambito del perimento non può rientrare lo scioglimento del rapporto sociale. In tal caso, invece è applicabile secondo il GRAZIANI, l’art. 2803 art. 2803 c.c. riscossione del credito dato in pegno: il creditore pignoratizio è tenuto a riscuotere, alla scadenza, il credito ricevuto in pegno e, se questo ha per oggetto danaro o altre cose fungibili, deve, a richiesta del debitore, effettuarne il deposito nel luogo stabilito d’accordo o altrimenti determinato dall’autorità giudiziaria. Se il credito garantito è scaduto, il creditore può ritenere del denaro ricevuto quanto basta per il soddisfacimento delle sue ragioni e restituire il residuo al costituente o, se si tratta di cose diverse dal danaro, può farle vendere o chiederne l’assegnazione secondo le norme degli artt. 2797 e 2798.
Problema dottrinario nel caso di morte del socio nudo proprietario. E nel caso di continuazione da parte degli eredi ex art. 2284.
A) secondo Gradassi applicazione dell’art. 2743 – art. 2743 c.c. diminuzione della garanzia: qualora la cosa data in pegno o sottoposta a ipoteca perisca o si deteriori, anche per caso fortuito, in modo da essere insufficiente alla sicurezza del creditore, questi può chiedere che gli sia prestata idonea garanzia su altri beni e, in mancanza, può chiedere l’immediato pagamento del suo credito (c.c.1186).
B) secondo la dottrina prevalente (per tutti) Graziani applicazione dell’art. 2803 – poiché la liquidazione della quota, per la morte del socio, determina un credito a favore del creditore pignoratizio.
Problema dottrinario nel caso di riduzione volontaria e per perdite del capitale sociale.
Tale decisione di riduzione è un atto pregiudizievole per il creditore pignoratizio, poiché la quota avrà un valore minore. Applicabilità in questo casoi dell’art. 2743.