Circostanza aggravante di cui all’art. 7 della legge 31 maggio 1965 n. 575

Corte di Cassazione, sezione seconda penale, Sentenza 20 maggio 2019, n. 22039.

La massima estrapolata:

La circostanza aggravante di cui all’art. 7 della legge 31 maggio 1965 n. 575 (ora prevista dall’art. 71 del d.lgs. 6 settembre 2011, n.159), si applica ai reati contemplati nella detta disposizione anche nel caso di delitto (nella specie, estorsione) rimasto allo stadio del tentativo.

Sentenza 20 maggio 2019, n. 22039

Data udienza 11 dicembre 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DIOTALLEVI Giovanni – Presidente

Dott. DE CRESCIENZO Ugo – rel. Consigliere

Dott. FILIPPINI Stefano – Consigliere

Dott. AIELLI Lucia – Consigliere

Dott. ARIOLLI Giovanni – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 20/06/2017 della CORTE APPELLO di CATANIA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. UGO DE CRESCIENZO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dr. CARDIA DELIA, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio in relazione al trattamento sanzionatorio, esclusa l’aggravante L. n. 575 del 2005, articolo 7 rigetto nel resto.
udito il difensore l’avvocato (OMISSIS) in difesa di (OMISSIS) si riporta ai motivi di ricorso.

RITENUTO IN FATTO

(OMISSIS), tramite il difensore, ricorre per Cassazione avverso la sentenza 20.6.2017 con la quale La Corte d’Appello di Catania lo ha condannato alla pena di anni quattro di reclusione ed Euro 800,00 di multa per la violazione degli articoli 56 e 629 c.p., L. n. 575 del 1965, articolo 7 con la recidiva reiterata specifica infraquinquiennale.
La difesa chiede l’annullamento della decisione impugnata denunciando le seguenti violazioni di legge, cosi’ sintetizzate entro i limiti previsti dall’articolo 173 disp. att. c.p.p..
1) ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) ed e): violazione degli articoli 56 e 629. La difesa si duole del grado di valenza probatoria attribuita dal giudicante all’impronta (appartenente al dito pollice della mano destra del (OMISSIS)) rilevata sul foglio di carta ove era riportata la richiesta estorsiva del pagamento di 10.000 Euro; la difesa sostiene che detto elemento non prova la responsabilita’, essendo solo un indizio da valutarsi eventualmente con altri elementi, tenuto conto che non sono state condotte ulteriori specifiche indagini indirizzate ad individuare la presenza di impronte anche di altre persone. La difesa sostiene che il punteggio relativo alla comparazione fra l’impronta dell’imputato e quella rilevata sulla lettera, se pur nei limiti indicati dalla giurisprudenza di legittimita’, e’ modesto, sicche’ la riferibilita’ dell’impronta all’imputato appare essere piu’ presuntiva che fattuale. La difesa si duole infine dell’insufficienza del dato dimostrativo della frequentazione del (OMISSIS) con altre persone che potrebbero avere avuto un ruolo nella vicenda.
2) ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) ed e) violazione degli articoli 56 e 629 c.p. La difesa sostiene che non possono essere fra loro collegati con ragionevole certezza il primo e il secondo episodio di natura estorsiva commessi in danno della persona offesa, mancando infatti qualsiasi collegamento fra due episodi accaduti a due mesi di distanza l’uno dall’altro.
3) ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) ed e). La difesa sostiene la erroneita’ della contestazione della circostanza aggravante di cui alla L. n. 575 del 1965, articolo 7 perche’: a) detta aggravante puo’ trovare applicazione esclusivamente nel caso in cui sia applicata una misura di prevenzione speciale e non quella di cui alla L. n. 1423 del 1956; b) l’aggravante puo’ essere contestata esclusivamente per le ipotesi di delitto consumato e non tentato, come nel caso di specie; c) il fatto cui e’ ricollegata l’applicazione dell’aggravante in parola deve essere connotato dal c.d. “metodo mafioso”; d) l’aggravante va applicata solo nel caso in cui sia stata riconosciuta la pericolosita’ sociale del prevenuto.

RITENUTO IN DIRITTO

I primi due motivi di ricorso possono essere trattati congiuntamente.
Le censure mosse dalla difesa non possono essere esaminate sotto l’aspetto dell'”erronea applicazione della legge penale” ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b), perche’ il ricorrente non ha illustrato specifici errori di diritto in cui sia incorsa la Corte d’Appello nell’applicazione delle norme penali sostanziali (articoli 56 e 629 c.p.). Le doglianze si incentrano su aspetti che ineriscono alla valutazione della prova e quindi sull’applicazione dell’articolo 192 c.p.p., la cui violazione riconduce al diverso vizio della motivazione ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e).
Sotto questa diversa angolazione, il ricorso e’ comunque inammissibile per inosservanza dell’articolo 581 c.p.p., comma 1, lettera c): la doglianza e’ generica, perche’ la difesa non ha indicato un vizio specifico (carenza, manifesta illogicita’ o contraddittorieta’) della motivazione rilevabile dal testo del provvedimento impugnato (o da altro atto del processo che doveva essere indicato in modo specifico e puntuale).
Nel concreto la difesa si duole esclusivamente dall’aspetto relativo alla “valutazione” del materiale probatorio, quindi formula considerazioni su aspetti di merito che non possono essere oggetto di censura in sede di legittimita’.
Passando ad una piu’ generale valutazione della sentenza, si puo’ notare come il giudizio di responsabilita’ relativo ascritto all’imputato si fondi su una pluralita’ di elementi circostanziali il principale dei quali e’ costituito da una impronta del dito pollice della mano destra appartenente all’imputato, e rilevata sulla prima missiva minatoria recapitata alla vittima.
Tale specifica circostanza di fatto, mentre consente di ricondurre all’imputato la sua partecipazione al fatto criminoso, non ha trovato spiegazione in alternative ricostruzioni di fatto che la difesa neppure ha adombrato nel corso del giudizio di merito.
La Corte d’Appello (pag. 8 della sentenza) pone poi in evidenza come il fatto, oggetto di imputazione, vada letto unitamente ad un ulteriore successivo episodio, del tutto simile, riferibile ad altre persone appartenenti ad un omogeneo gruppo malavitoso del quale risulta fare parte anche una persona identificata e che e’ risultata essere collegata con l’imputato, come risulta dimostrato da un loro controllo (mentre erano insieme) su strada da parte della polizia
La complessiva motivazione delle due sentenze di merito e’ organica, logica, convincente e il giudizio di responsabilita’ scaturisce da una decisione che puo’ definirsi frutto di una c.d. “doppia conforme” che consente una lettura congiunta delle sentenze di merito come unico corpo organico, nel quale non si ravvisano aporie frutto di vizi riconducibili all’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e).
Il terzo motivo di ricorso e’ infondato e va rigettato. Il fatto costituente il tentativo di estorsione contestato all’imputato e’ connotato da due circostanze aggravanti: a) articolo 99 c.p., comma 4, (ritenuta secondo la previsione normativa antecedente alla riforma di cui alla L. n. 251 del 2005 tenuto conto del tempus commissi delicti); b) L. n. 575 del 1965, articolo 7 e succ. modificazioni (da ultimo rifluite nel TU delle misure di prevenzione di cui al Decreto Legislativo n. 159 del 2011, articolo 71).
La difesa si duole della seconda aggravante al cui riconoscimento e’ conseguita l’applicazione della misura di sicurezza della colonia agricola (o della casa di lavoro) per la durata di un anno, ed ex articolo 228 c.p. la liberta’ vigilata per la durata di anni uno.
La motivazione della sentenza di primo grado, pienamente confermata da quella del giudice dell’appello, smentisce in toto le plurime doglianze della difesa.
Va in primo luogo osservato che all’imputato, all’epoca della commissione del fatto, era stata applicata la misura di sicurezza della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno per la durata di un anno, sicche’ e’ destituita di validita’ la censura fondata su un’asserita carenza dei presupposti di applicazione dell’aggravante in esame.
Contrariamente a quanto affermato dalla difesa, i giudici di merito ai fini dell’applicazione della misura di sicurezza “pericolosita’ sociale” dell’imputato, hanno condotto una specifica indagine. Il giudizio, corretto in diritto siccome sorretto da motivazione adeguata e convincente, non e’ sindacabile sul piano del merito. In particolare va rilevato che il giudizio di merito e’ confortato: a) dalla valutazione di gravita’ del fatto ex se; b) dai precedenti penali del prevenuto; c) dall’apprezzamento della pericolosita’ sociale gia’ espressa nel decreto di applicazione della misura di prevenzione pressoche’ coevo alla commissione dell’illecito contestato nel presente procedimento penale (v. pag. 12 della sentenza di appello).
E’ poi destituita di fondamento la censura relativa al fatto che nella specie la circostanza aggravante non attiene ad un fatto illecito, qualificabile per le sue modalita’ mafiose: ai fini dell’applicazione dell’aggravante in parola la norma non prevede che essa sia applicabile alle sole ipotesi in cui il factum principis si qualifichi per la c.d. “modalita’ mafiosa”.
Da ultimo va infine rilevato che e’ destituita di fondamento la censura formulata dalla difesa, perche’ il reato ascritto e’ stato contestato nella forma del tentativo; la difesa sostiene che la norma ove e’ prevista la circostanza aggravante in parola, nell’elencare i delitti cui essa e’ ricollegabile, non richiama espressamente anche le ipotesi del tentativo per i medesimi delitti.
La suddetta linea interpretativa, se pur affermata dalla dottrina e in talune pronunce di legittimita’, non puo’ essere seguita.
Se e’ vero, infatti, che l’autonomia del tentativo rispetto al reato consumato costituisce un principio oramai consolidato in dottrina ed in giurisprudenza, e che il delitto tentato costituisce gia’ un reato perfetto, presentando tutti gli elementi necessari e sufficienti per l’esistenza di un reato, con l’estrinsecazione di una condotta che ha gia’ manifestato compiutamente tutta la propria carica di disvalore, cio’ non significa, tuttavia, che quando la legge penale richiama, per determinati effetti, la fattispecie “principale”, senza alcun riferimento alle figure della consumazione e/o del tentativo, la disposizione attenga sempre e soltanto al reato consumato.
Seguendo la prospettiva gia’ tracciata dalla sez. quinta di questa Corte (sentenza n. 809 del 17/02/2000, rv 216457-01, ribadita da Cass. Sez. 6 n. 36640 del 10.7.2014, Rizzo, rv 260334-01), e’ opportuno, invece, ricercare di volta in volta l’intenzione del legislatore, identificando la “ratio” della disposizione, onde stabilire se nella specifica disposizione normativa possa dirsi ricompresa o meno l’ipotesi del tentativo.
Come gia’ affermato nella sentenza n. 36640/2014 (cit.), che questo collegio ritiene di condividere, va ribadito che “…nel caso in esame, per vero, tale operazione interpretativa risulta assai agevole, poiche’ l’inasprimento di pena previsto dalla su menzionata disposizione trova la sua ragione giustificativa nell’avvertita necessita’ di contrastare in maniera piu’ decisa ed efficace, stante la loro maggiore pericolosita’ e determinazione criminosa, il comportamento di coloro che, colpiti da un provvedimento di applicazione della misura di prevenzione, non indugiano a commettere reati di particolare natura (tra i quali quello di estorsione).
Siffatta carica di disvalore e’ riscontrabile, indiscutibilmente, anche nel tentativo di tali delitti, tenuto conto del fatto che consumazione e tentativo riflettono rispettivamente la lesione effettiva e la lesione potenziale dello stesso bene oggetto di tutela, onde la “ratio” della norma induce a ritenere che l’aggravante riguardi anche il tentativo, restando in tal modo salvaguardato il principio di legalita’ penale. Tale soluzione, del resto, risulta pienamente conforme al principio generale di diritto per il quale ineriscono al tentativo tutte le circostanze che, come quella di cui si discute, attenendo ad una particolare qualificazione dell’agente, riguardano elementi preesistenti o concomitanti all’esecuzione del reato.”
Il principio ispiratore che conduce in subiecta materia ad un’interpretazione ancorata alla ricerca della effettiva volonta’ del legislatore, cosi’ distaccandosi da una meccanicistica interpretazione letterale della disposizione, e’ stato ancora ribadito dalla recente sentenza pronunciata dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. SU n. 40985 del 19.4.2018, Di Maro e altro rv 273752) ove e’ stato affrontato e risolto nello stesso senso (mutatis mutandis) l’analogo e parallelo problema relativo all’estensibilita’ del sequestro preventivo previsto dal Decreto Legge 8 giugno 1992, n. 306, articolo 12 sexies ai reati presupposto (al di la’ dall’aspetto letterale della disposizione) anche nella forma del tentativo, purche’ (in questo specifico caso) sia aggravati ex Decreto Legge 13 maggio 1991, n. 152, articolo 7.
Va pertanto confermata l’interpretazione della norma che esalta la volonta’ del legislatore il quale, nel corso del tempo, ha sempre piu’ allargato l’applicazione della L. n. 575 del 1965, articolo 7 (oggi L. n. 159 del 2011, articolo 71) sino a ricomprendere anche ipotesi contravvenzionali e delitti contro la pubblica amministrazione.
Per le suddette ragioni, il ricorso va quindi rigettato e il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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