Corte di Cassazione, sezione terza penale, Sentenza 28 maggio 2019, n. 23463.

La massima estrapolata:

In tema di violenza sessuale, la circostanza aggravante dell’abuso della qualità di ministro di un culto (nella specie derivante dal ruolo sacerdotale), costituendo un “quid pluris” dotato del carattere di specialità rispetto alla condotta tipica incriminata, non è assorbita nella generale categoria dell’abuso di autorità prevista come elemento costitutivo del delitto di cui all’art. 609 bis cod. pen..

Sentenza 28 maggio 2019, n. 23463

Data udienza 24 gennaio 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSI Elisabetta – Presidente

Dott. CERRONI Claudio – Consigliere

Dott. NOVIELLO Giuseppe – Consigliere

Dott. ANDRONIO Alessandr – rel. Consigliere

Dott. ZUNICA Fabio – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza della Corte d’appello di Brescia del 25 gennaio 2018;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dr. ANDRONIO Alessandro M.;
udito il pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dr. Filippi Paola, d e ha concluso per l’annullamento della sentenza impugnata, limitatamente ai reati commessi tra il (OMISSIS), perche’ estinti per prescrizione, con rinvio per la determinazione della pena quanto ai residui reati, e per il rigetto nel resto del ricorso;
udita, per la parte civile, l’avv. (OMISSIS), che ha depositato conclusioni scritte e nota spese, da liquidarsi in favore dello Stato;
uditi, per l’imputato, gli avv.ti (OMISSIS) e (OMISSIS).

RITENUTO IN FATTO

2 – Con sentenza del 25 gennaio 2018 la Corte d’appello di Brescia ha riformato la sentenza emessa il 27 ottobre 2016 dal Tribunale di Bergamo, che aveva assolto l’imputato dal reato di cui all’articolo 609 bis c.p., articolo 609 ter c.p., articolo 61 c.p., nn. 5, 9 e 11, articolo 81 c.p., comma 2, a lui contestato perche’, in tempi diversi e con piu’ azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, in qualita’ di insegnante nella scuola elementare di (OMISSIS) nonche’ educatore nell’oratorio della stessa localita’, aveva costretto e comunque indotto la minore (OMISSIS) – a lui affidata per ragioni di istruzione, cura, vigilanza e custodia – a compiere e subire plurimi atti sessuali, con violenza consistita nel condurre repentina mente e furtivamente la vittima nei locali meno frequentati del menzionato istituto scolastico, della parrocchia o dell’oratorio e nell’appartarsi insieme a lei nei locali della stessa e, in ogni caso abusando della subordinazione psicologica che la minore subiva rispetto al ruolo che l’indagato rivestiva nella scuola e nella comunita’.
La Corte d’appello di Brescia, rinnovata l’istruttoria dibattimentale, escluse le aggravanti di cui all’articolo 61 c.p., nn. 5) e 11), ha condannato l’imputato per i reati a lui ascritti.
2. – Avverso la sentenza l’imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione e chiedendone l’annullamento.
2.1. – Con un primo motivo di doglianza, si censura il vizio di motivazione con riferimento alla valutazione delle prove testimoniali. La sentenza impugnata sarebbe priva dei requisiti previsti dalla giurisprudenza per il sovvertimento di una pronuncia assolutoria, perche’ la Corte d’appello non avrebbe reso la dovuta “motivazione rafforzata”, non essendosi confrontata con tutte le ragioni per cui il primo giudice aveva ritenuto di assolvere l’imputato e non avendo dimostrato che la soluzione contraria non era quella preferibile alla luce delle emergenze processuali, bensi’ l’unica dalle stesse consentita. La Corte d’appello non avrebbe assolto l’obbligo su di essa incombente soprattutto con riferimento alla valutazione delle testimonianze introdotte dalla difesa, ragionevolmente tralasciate dal primo giudice perche’ ritenute incapaci di fornire elementi ulteriori rispetto alla gia’ ritenuta insussistenza del fatto, ma divenute dirimenti per valutare l’attendibilita’ della persona offesa.
In particolare, i giudici del gravame avrebbero del tutto omesso di considerare le plurime testimonianze che avevano escluso che nella stanza dove si erano perpetrati gli abusi era presente una gabbia di canarini, come sempre sostenuto dalla persona offesa.
Ancora, nessuna argomentazione sarebbe stata spesa in ordine alle testimonianze che avrebbero smentito la ricostruzione della vittima in ordine al fatto che l’imputato era solito riaccompagnarla a casa insieme ad altri bambini dopo le lezioni di catechismo. In particolare, il teste (OMISSIS) aveva dichiarato che Don (OMISSIS) l’aveva accompagnato a casa insieme alla (OMISSIS) solo una volta di ritorno da una gita in montagna e mai dopo le giornate trascorse in oratorio, cosi’ smentendo il narrato della persona offesa secondo cui l’imputato la riaccompagnava a casa insieme al predetto testimone dopo le giornate trascorse in oratorio.
Parimenti omessa sarebbe stata la valutazione di quanto dichiarato dalla teste (OMISSIS), moglie ed ausiliaria del titolare della ditta di autotrasporti della zona di svolgimento dei fatti, secondo la quale – almeno per quanto riguardava il catechismo – la ditta era incaricata soltanto del trasporto dei ragazzi di (OMISSIS), circostanza idonea a smentire quanto dichiarato dalla (OMISSIS), secondo cui l’imputate, aveva il tempo di porre in essere gli abusi a suo danno dopo il termine del catechismo perche’ lei prendeva il pulmino che tornava indietro dopo aver accompagnato i ragazzi di un’altra frazione.
Infine, secondo la difesa, i giudici del gravame avrebbero dovuto valorizzare il complesso delle testimonianze da cui era pacificamente emerso che nessun altro bambino che frequentava l’imputato aveva ricevuto le stesse attenzioni sessuali descritte dalla persona offesa; elemento ritenuto stridente con il requisito della “serialita’”, connaturato nella pedofilia.
– Con un secondo motivo, si censura il vizio di motivazione con riferimento alla valutazione dell’ampio intervallo temporale intercorso tra l’epoca di commissione del reato contestato e la data della denuncia da parte della persona offesa.
Secondo le prospettazioni difensive, la Corte d’appello si sarebbe solo superficialmente occupata del predetto argomento – giustificando lo iato temporale sulla base del timore della minore di non essere creduta – senza cogliere, tuttavia, il vero aspetto rilevante del trascorso del tempo, da individuarsi, non nella spiegazione della ritardata denuncia, bensi’ nei cambiamenti psicologici che caratterizzano i passaggi dall’infamia alla giovinezza e, conseguentemente, nel possibile rilievo della circostanza che (OMISSIS), a causa di disturbi comportamentali segnalati da organi scolastici, era stata lungamente seguita sotto il profilo psicologico e comportamentale dal Servizio dell’assistenza domiciliare minori della Comunita’ Montana di (OMISSIS) e successivamente dal Consultorio familiare di (OMISSIS).
Si sostiene che la Corte d’appello avrebbe dovuto considerare tale circostanza, al fine di valutare il possibile intervento di fattori di disturbo idonei ad alterare i ricordi della persona offesa.
In terzo luogo, si deducono vizi della motivazione con riferimento alle plurime contraddizioni in cui sarebbe incorsa la persona offesa durante l’iter processuale e ai molteplici elementi di discordanza rispetto a quanto da lei riferito.
Si lamenta la scorretta valutazione dell’elemento della frequentazione di una psicologa da parte della persona offesa.
In particolare, la Corte d’appello avrebbe dovuto espressamente considerare – come aveva fatto il Tribunale di primo grado – che la persona offesa, pur avendo riferito alla terapeuta episodi molto delicati e tragici della sua vita (acne afferenti la sfera sessuale ed i rapporti con i genitori), non aveva mai accennato agli abusi subiti. Tale elemento, a parere della difesa, si porrebbe in diretta contraddizione con la motivazione resa dai giudici del gravame che avrebbero giustificato le omissioni sulla base del fatto che la minore – come da lei riferito – non comprendeva il senso de le sedute e si confidava, ma non fino al punto di raccontare quell’episodio.
Sarebbe infatti inconcepibile, secondo la difesa, che la (OMISSIS), pur avendo raccontato alla psicologa episodi parimenti gravi, intimi e dolorosi, avesse poi omesso qualsivoglia accenno agli abusi subiti durante l’infanzia e avesse addirittura riferito che le sarebbe piaciuto divenire educatrice del CRE, circostanza che le avrebbe fatto indubbiamente riscontrare l’imputato.
Ancora, la Corte d’appello avrebbe erroneamente escluso la sussistenza di una palese contraddizione nel punto in cui la minore in sede di incidente probatorio aveva dichiarato che gli abusi sessuali si erano verificati anche durante il catechismo, mentre in dibattimento, contraddicendosi, aveva dichiarato che gli incontri avvenivano al termine delle lezioni e che quindi non era mai accaduto che l’imputato fosse entrato in classe per chiamarla all’esterno.
La Corte d’appello avrebbe negato la sussistenza di una contraddizione con argomentazione assolutamente fallace, sostenendo che anche durante l’incidente probatorio la persona offesa aveva inteso riferire che gli abusi avvenivano “durante il periodo di svolgimento del catechismo” e non certo durante lo svolgimento vero e proprio della lezione. Al contrario, secondo le prospettazioni difensive, dal verbale della deposizione si coglierebbe senza dubbio che durante l’incidente probatorio la persona offesa aveva detto espressamente che l’imputato la invitava a seguirlo durante lo svolgimento delle lezioni perche’ sapeva quali aule erano vuote.
Inoltre, secondo la prospettazione difensiva, la Corte territoriale avrebbe erroneamente valutato il fatto che – secondo quanto riferito dalla persona offesa l’imputato non era solito chiudere a chiave la porta della stanza in cui consumava i presunti abusi a suo danno. La motivazione dei giudici del gravame sarebbe manifestamente illogica nel punto in cui avrebbe inteso giustificare il comportamento del prete sulla base della necessita’ di evitare i sospetti suscitati dalla chiusura ermetica della stanza in cui si trovava solo con una bambina; laddove, secondo la difesa, sarebbe chiaro esattamente il contrario: una porta aperta avrebbe consentito piu’ facilmente ai terzi di scoprire i fatto e valutarlo nella sua estrinseca manifestazione. Parimenti errata sarebbe l’argomentazione secondo cui gli atti sessuali posti in essere, per lo piu’ consistiti in toccamenti, non erano tali da determinare un elevato margine di rischio e consentivano di ricomponi in fretta se qualcuno fosse entrato. Tale argomentazione, secondo la difesa, contrasterebbe, infatti, con quanto sempre riferito dalla persona offesa secondo cui le molesti e erano consistite in atti ben piu’ gravi di meri toccamenti che certamente non avrebbero consentito una pronta simulazione nel caso in cui qualcuno avesse aperto all’improvviso la porta non chiusa a chiave.
La difesa censura, poi, la manifesta illogicita’ della motivazione con riferimento agli abusi avvenuti a scuola durante l’ora di religione. In particolare, si ritiene manifestamente illogica l’argomentazione secondo cui l’imputato si permetteva di agire sulla minore con atti furtivi perche’ gli alunni spettatori erano troppo piccoli per rendersi conto delle condotte poste in essere. Tale conclusione sarebbe oggettivamente smentita dal fatto che i bambini facevano la quinta elementare e avevano dunque un’eta’ assolutamente compatibile con la comprensione di chiari atteggiamenti sessualmente finalizzati. Gli episodi, inoltre, non potevano passare inosservati perche’ i banchi non erano staccati, bensi’ attaccati uno con l’altro e, soprattutto, erano rivolti verso la lavagna, sicche’ gli alunni non avrebbero potuto non notare eventuali toccamenti e strusciamenti posti in essere dall’imputato quando la persona offesa si recava alla cattedra, secondo quanto da lei stessa dichiarato.
In ogni caso, i giudici del gravame avrebbero dovuto considerare che durante l’incidente probatorio la persona offesa aveva riferito che le violenze si consumavano quasi tutte le volte in cui incontrava a scuola l’imputato, salvo poi contraddirsi in dibattimento riferendo che gli abusi si erano verificati poco frequentemente e solo quando l’insegnante trovava l’occasione adatta per porli in essere.
Tale contraddizione, svalutata dai giudici del gravame, risulterebbe decisiva al fine di provare l’inattendibilita’ del narrato della minore.
Infine, per la difesa, la Corte d’appello avrebbe erroneamente qualificato come validi riscontri esterni le confidenze fatte dalla persona offesa a diversi soggetti nel corso della crescita.
Non si sarebbe considerato che, se la persona offesa aveva riferito il falso, anche solo per autosuggestione, avrebbe ben potuto trasferire una realta’ travisata alle persone con cui si era confidata.
– Con un quarto motivo, si censura l’erronea applicazione della circostanza aggravante di cui all’articolo 61 c.p., n. 9). La predetta circostanza sarebbe stata riconosciuta in violazione al principio del ne bis in idem, dal momento che gia’ in imputazione si faceva riferimento alla situazione di pressione psicologica subita dalla persona offesa in virtu’ della posizione che l’imputato ricopriva nella comunita’, con conseguente assorbimento della circostanza nella fattispecie di reato contestata all’imputato.
– Con un ultimo motivo di ricorso, si rileva l’estinzione, per intervenuta prescrizione, dei reati successivi al 15 luglio 2005, data in cui la minore ebbe a compiere i dieci anni di eta’.
Infatti la circostanza aggravante ad effetto speciale di cui all’articolo 609 ter, comma 3, dovrebbe applicarsi solo per i fatti commessi entro la predetta data, mentre per i fatti successivi al (OMISSIS), l’unica circostanza aggravante e’ quella di cui all’articolo 609 ter c.p., comma 1, che, vista la cornice edittale da essa prevista, non circostanza aggravante ad effetto speciale e dunque non puo’ essere presa in considerazione per il computo dei termini prescrizionali di cui all’articolo 157 c.p., comma 2.
3. – L’imputato ha depositato memoria difensiva, con cui approfondisce le considerazioni gia’ svolte con riferimento alla ritenuta violazione del principio della motivazione rafforzata”, all’erronea valutazione delle molteplici contraddizioni emergenti dal narrato della persona offesa e all’omessa valutazione della prova decisiva rappresentata dai diari delle sedute di psicoterapia, e rileva la violazione degli articoli 192, 194 e 125 c.p.p., per avere i giudici del gravame condannato l’imputato sulla base delle sole dichiarazioni accusatorie della persona offesa, in relazione alle quali si sarebbe adottato lo schema della “credibilita’ frazionata”, riservato agli imputati di reato connesso ed espressamente escluso dalla giurisprudenza di legittimita’ per la valutazione delle dichiarazioni della vittima di reati sessuali.
In particolare, il provvedimento in questione avrebbe illegittimamente selezionato i dati ritenuti credibili del racconto della minore (le condotte di abuso in se’ considerate, sempre riferite coerentemente dalla persona offesa) ed escluso quelli contraddittori e non coerenti con l’ipotesi accusatoria.

CONSIDERATO IN DIRITTO

4. – Il ricorso e’ inammissibile.
Lo stesso e’ rivolto ad ottenere una rivalutazione di elementi gia’ presi adeguatamente in considerazione dai giudici di secondo grado, riducendosi ad una mera contestazione delle risultanze emerse dalla motivazione della Corte d’appello di Brescia, senza offrire elementi puntuali, precisi e di immediata valenza esplicativa di segno contrario.
Prima di esaminare i singoli motivi di doglianza, devono, pertanto, essere richiamati i consolidati orientamenti di questa Corte circa la portata dell’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), e comma 3.
Va dunque ricordato che il controllo sulla motivazione operato dal giudice di legittimita’ resta circoscritto, per l’espressa previsione normativa dell’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e, al solo accertamento sulla congruita’ e coerenza dell’apparato argomentativo e non puo’ risolversi in una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o nella scelta di nuovi e diversi criteri di giudizio in ordine alla ricostruzione e valutazione dei fatti. Ne consegue che, laddove le censure del ricorrente non sia no tali da scalfire la logicita’ e linearita’ del provvedimento impugnato, queste devono ritenersi inammissibili perche’ proposte per motivi diversi da quelli consentiti (ex plurimis Sez. 6, n. 32878 del 20/07/2011; Sez. 1, n. 33028 del 14/07/2011). Ed e’ bene ricordare che per quanto riguarda il profilo specifico della carenza di motivazione il giudice del gravame non e’ tenuto a rispondere analiticamente a tutti i rilievi mossi dalle parti, purche’ fornisca una motivazione intrinsecamente coerente tale da escludere la fondatezza di tali rilevi (ex plurimis, Sez. 4, n. 38824 del 17/09/2008; Sez. 6, n. 31080 del 14/06/2004). A cio’ deve aggiungersi che non e’ sindacabile in sede di legittimita’, salvo il controllo sulla congruita’ e logicita’ della motivazione, la valutazione del giudice di merito, cui spetta il giudizio sulla rilevanza e attendibilita’ delle fonti di prova, circa contrasti testimoniali o la scelta tra divergenti versioni e interpretazioni dei fatti (ex plurimis, Sez. 5, n. 51.694 del 19/09/2017, Rv. 271623 – 01).
Svolte queste considerazioni di ordine generale, si puo’ passare all’esame dei singoli motivi di ricorso.
4.1. – Il primo motivo, con cui si censura la valutazione del quadro istruttorio, e’ inammissibile.
Preliminarmente, e’ necessario rilevare che – contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa – l’impianto motivazionale della Corte d’appello segue in modo pienamente adeguato lo schema della “motivazione rafforzata”, richiesta dalla giurisprudenza nel caso di sovvertimento di una precedente sentenza assolutoria. I giudici del gravame, infatti, hanno lungamente argomentato – in modo approfondito, logico e coerente – in ordine ai plurimi elementi che hanno reso necessario pervenire ad una sentenza di condanna, ma, soprattutto, si sono confrontati – passaggio dopo passaggio, senza alcuna omissione e con pregnante argomentazione – con tutti i profili considerati dal Tribunale di Bergamo per giustificare la precedente sentenza assolutoria, nel pieno rispetto del principio secondo cui, in caso d sovvertimento di una pronuncia di proscioglimento, la sentenza d’appello deve essere corredata da una motivazione che dia ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati; cosicche’ il differente esito del giudizio di appello possa trovare fondamento, non in quanto rappresenti la soluzione preferibile alla luce delle emergenze dibattimentali, ma l’unica consentita (ex plurimis, Sez. 4, n. 18786 del 18/04/2017).
I giudici del gravame hanno, in particolare, rilevato che il narrato della persona offesa e’ sempre rimasto immutato e coerente durante l’intero corso del processo con riferimento al nucleo centrale dei fatti contestati all’imputato, ossia rispetto agli abusi sessuali da lei subiti dal 2001 al 2006 durante lo svolgimento delle attivita’ parrocchiali e ricreative dell’oratorio e a scuola nel corso delle lezioni di religione, consistite in ripetuti toccamenti, strusciamenti e, una sola volta, nella penetrazione vaginale con le dita.
Sotto tale profilo, la (OMISSIS) non si e’ mai contraddetta, non ha cambiato versione e anzi come correttamente osservato dai giudici del gravame – quando non era in grado di riferire qualcosa di particolare ha sempre genuinamente ammesso di non ricordare.
L’attendibilita’ del narrato della persona offesa, soprattutto, e’ dimostrata da plurimi riscontri esterni – incomprensibilmente svalutati dal Tribunale di Bergamo – costituiti dalle testimonianze delle persone a cui questa, nel tempo, aveva riferito quanto subito.
Del tutto correttamente la Corte d’appello ha attribuito rilevanza alle modalita’ di disvelamento dei fatti e alle confidenze fatte, vagliando adeguatamente le modalita’ di rivelazione, il contesto in cui le stesse sono avvenute, lo stato d’animo della vittima e la concordanza delle stesse, non solo rispetto al contenuto del narrato della persona offesa, ma che anche in ordire alle condizioni fisiche e psicologiche in cui la stessa ha riferito l’accaduto.
Proprio su tali elementi si e’ focalizzata l’analisi della Corte distrettuale, che ha correttamente rivelato come la maggior parte delle confidenze non sono state frutto di una scelta preordinata e razionale di raccontare il proprio tragico vissuto, ma, al contrario, sono scaturite da specifici episodi estemporanei ed inaspettati che hanno colpito l’emotivita’ nascosta della persona offesa e richiamato dentro di se’ il tragico vissuto, tanto da spingerla a confidarsi con le persone di fiducia in quel momento presenti. Emblematica in tal senso e’ la confessione rivolta a (OMISSIS), avvenuta quando i due stavano guardando un programma televisivo sulle violenze sessuali compiute a danno di bambini.
In quell’occasione – come dichiarato sia dalla minore che dal testimone – la minore era scoppiata in un pianto disperato e, su domanda, aveva raccontato gli abusi subiti.
(OMISSIS) aveva poi confermato le iniziali difficolta’ della minore nell’interagire fisicamente con l’altro sesso. Assolutamente concordanti e sempre frutto di episodi estemporanei ed inaspettati sono state le confessioni rese a (OMISSIS), che aveva saputo dalla minore degli abusi subiti perche’ durante una fervida discussione sulla Chiesa aveva domandato alla minore stessa il motivo del suo forte astio, nonche’ a (OMISSIS), che aveva riferito di avere appreso calla persona offesa quanto accaduto gia’ in quinta elementare, sotto la promessa di non raccontare a nessuno quanto accaduto, e aveva aggiunto che una volta questa si era rifiutata di entrare nel bar dell’oratorio perche’ era presente l’imputato. Del pari genuini – secondo la corretta valutazione dei giudici d’appello – sono le confidenze rivolte a (OMISSIS), avvenute in un contesto in cui le due stavano reciprocamente parlando dei primi rapporti sessuali, nonche’ gli “accenni” rivolti nel tempo ad altri amici, idonei a dimostrare la necessita’ della minore di sfogare il suo dolore, ma, parimenti, la ritrosia nel raccontare nel dettaglio quanto subito per paura delle ripercussioni della comunita’.
Conferma l’attendibilita’ della persona offesa, perche’ sintomo di un suo reale disagio connesso con i fatti di cui all’imputazione, anche l’accusa di pedofilia da questa rivolta con rabbia in generale alla classe clericale, quando la madre aveva cercato di convincerla ad andare in chiesa.
Come ben evidenziato dai giudici di secondo grado, si tratta di deposizioni di riscontro pienamente concordanti tra loro. Soprattutto – contrariamente a quanto sostenuto dal Tribunale – le stesse non possono considerarsi meramente de relato perche’, seppure hanno riferito indirettamente i fatti raccontati dalla persona offesa, hanno direttamente descritto le tragiche condizioni in cui la stessa aveva ceduto alla confessione, perche’ incapace di trattenere il dolore, nonche’ l’astio dimostrato nei confronti dell’ordine clericale a causa degli abusi subiti, la paura nutrita di avvicinarsi ai luoghi frequentati dall’imputato e le sue iniziali difficolta’ di interazione sessuale; tutti elementi compatibili con le caratteristiche della vittima di abusi sessuali. E la valenza probante dei predetti riscontri esclude la plausibilita’ di una valutazione alternativa dei fatti, perche’ nessuna altra motivazione avrebbe spinto la minore a raccontare ai propri confidenti gli episodi, accaduti a partire da quando aveva solo dieci anni di eta’; tanto piu’ considerando che non aveva mai avuto intenzione di denunciare l’imputato, perche’ certa di non essere creduta e di inimicarsi l’intera comunita’, sicche’ non avrebbe tratto alcuna utilita’ dal racconto di fatti inventati.
Alla luce del predetto quadro accusatorio, appaiono del tutto irrilevanti le dichiarazioni rese dai testimoni introdotti dalla difesa, correttamente non valutate dalla Corte d’anello perche’ non afferenti al nucleo centrale dei fatti di causa, ma ad argomenti di controllo del tutto marginali o a discrasie assolutamente giustificabili sulla base del tempo tre scorso.
In particolare le testimonianze di (OMISSIS) e (OMISSIS) non risultano assolutamente idonee a smentire l’attendibilita’ della persona offesa perche’ – come si evince chiaramente dai verbali di udienza – la stessa non era stata in grado di riferire quante volte era stata accompagnata a casa dall’imputato con altri bambini e, soprattutto, chi erano questi bambini. Solo per le incalzanti domande della difesa, la persona offesa era riuscita a ricordare di essere tornata a casa con l’imputato e il predetto (OMISSIS), il quale aveva confermato di essere stato accompagnato un paio di volte dall’imputato in presenza della persona offesa, ma a seguito di una gita in montagna e non dopo le lezioni di catechismo.
E’ chiaro, pertanto, che la persona offesa – il cui ricordo e’ molto risalente nel tempo – ha correttamente rilevato la presenza congiunta di (OMISSIS) e del prelato ed ha solamente errato ne l’esatta identificazione dell’episodio di riferimento, da collocarsi nel ritorno dalla gita in montagna e non nel riaccompagnamento a casa dopo le lezioni di catechismo. Ad ogni modo, la predetta discrasia e’ logicamente irrilevante in relazione ai fatti per cui si procedere, afferendo a un profilo assolutamente sconnesso dal nucleo essenziale del racconto.
Analoghe considerazioni devono svolgersi in ordine alla deposizione della teste (OMISSIS), che ha escluso che il pulmino della ditta del marito svolgesse due corse per accompagnare i bambini di ritorno dal catechismo. Anche in questo caso, infatti, il lungo trascorso del tempo puo’ aver inciso sulla memoria della minore che ha ricollegato la doppia corsa allo svolgimento delle lezioni del catechismo e non, come possibile sulla base della deposizione della (OMISSIS), alle giornate trascorse al CRE o al CRI. Anche in questo caso comunque, il riferimento e’ del tutto marginale rispetto al nucleo centrale dei fatti di causa.
4.2. – Inammissibile e’ anche il motivo di ricorso sub 2.2., con cui si censura il vizio di motivazione con riferimento al profilo dell’ampio intervallo temporale intercorso tra lo svolgimento dei fatti e la denuncia degli stessi.
Contrariamente a quanto sostenuto della difesa, infatti, la Corte d’appello ha affrontate il profilo in questione con adeguato approfondimento e ha correttamente affermate che le modalita’ di disvelamento formale dei fatti confermano, piuttosto che escludere, la penale responsabilita’ dell’imputato. Infatti, come sostenuto da (OMISSIS) e, soprattutto, come dichiarato da tutti i testimoni escussi in dibattimento, la persona offesa aveva sempre ritenuto di non voler denunciare l’imputato, perche’ certa di non essere creduta e di incorrere nelle maldicenze della comunita’ di riferimento. Tale convinziole si era lungamente protratta, nonostante tutti i suoi confidenti avessero tentato d sollecitarla a denunciare i fatti subiti. Solo quando un suo amico aveva sporto denuncia per un episodio di rissa – fatto ritenuto molto meno grave di quello da lei subito – la persona offesa si era decisa a denunciare l’imputato, accompagnata dall’amica Spataru, dopo aver avuto una lunga crisi di pianto; e tale ultima circostanza e’ stata confermala da piu’ testimoni.
Dunque, solo un episodio scatenante, del tutto inaspettato e imprevedibile, aveva consentito alla ragazza di trovare il coraggio e la forza interiore per formalizzare la denuncia a danno del proprio aguzzino. E, sulla base di tali elementi, la Corte d’appello logicamente afferma che, se la persona offesa avesse inteso denunciare utilitaristicamente l’imputato l’avrebbe fatto prima, o comunque avrebbe immediatamente colto le sollecitazioni che provenivano dall’esterno. In tale quadro, l’argomentazione della difesa rispetto alle ipotetiche evoluzioni interiori subite dalla minore nel corso della crescita deve, dunque, essere letta al contrario: se durante l’infanzia e la prima adolescenza questa era schiacciata dal timore e dall’incapacita’ di rivelare quanto subito, durante a crescita aveva lentamente sviluppato una forza differente, derivante dal sostegno avvertito dall’esterno e dai fatti che le accadevano intorno, tali da farle percepire la gravita’ non solo degli abusi subiti ma, soprattutto, del silenzio serbato per anni.
La situazione complessiva descritta sub. 4.1., inoltre, consente di affermare con certezza che il disagio interiore e le difficolta’ caratteriali della persona offesa, tali da aver spinto insegnanti e genitori a farle intraprendere diversi percorsi psicoterapeutici, rappresentano l’effetto vegli abusi subiti e non la prova dell’inattendibilita’ della stessa.
– Inammissibile e’ anche il motivo di ricorso sub 2.3., con cui si censura il vizio di motivazione con riferimento ai vali profili di incertezza emergenti dal racconto della persona offesa e, in generale, dai fatti di causa.
A tale proposito si rileva che la Corte d’appello si e’ debitamente confrontata con tutti i profili segnalati dalla difesa, rendendo una motivazione logica, coerente e fermamente ancorata alla ritenuta attendibilita’ del racconto della minore, secondo quanto argomentato sub 4.1.; motivazione la cui tenuta non e’ messa in crisi dalle censure difensive, sostanzialmente rivolte a ottenere un nuova valutazione del merito.
Pienamente adeguata e coerente risulta la motivazione della Corte d’appello con riferimento alle sedute di psicoterapia, durante le quali la persona offesa non aveva fatto alcun riferimento agli abusi subiti. A tale proposito, i giudici del gravame hanno evidenzia:o due profili dirimenti ed assorbenti rispetto a qualsiasi valutazione di segno contrario. Da un lato, infatti, hanno segnalato che la stessa persona offesa aveva dichiarate di non comprendere il senso delle sedute e di aprirsi con la psicologa “fino ad un certo punto” (elemento assolutamente compatibile con l’eta’ e con le difficolta’ della minore), ma dall’altro hanno ricordato che la stessa veniva accompagnata alle sedute dalla madre, che restava ad aspettarla e si confrontava con psicologa. Il collegamento e’ dunque immediate: la minore non voleva denunciare l’imputato proprio per la paura di non essere creduta in primis dai suoi genitori, che nutrivano una stima indiscussa per lui; conseguentemente – come da lei stessa riferito – non avrebbe mai raccontato degli abusi subiti ad una persona che era certa avrebbe trasferito il narrato a sua madre. Proprio il silenzio serbato dalla minore durante lo svolgimento delle sedute dimostra la genuinita’ del comportamento da lei tenuto e, conseguentemente, la veridicita’ del suo narrato. Infatti, se queste avesse inteso strumentalizzare la situazione, avrebbe raccontato gli abusi alla psicologa, cosi’ da precostituirsi un valido argomento di prova.
Parimenti, se la minore si fosse a autosuggestionata nel tempo ed avesse cercato la comprensione delle persone a se’ vicine, si sarebbe sicuramente confidata anche con la terapeuta, soggetto piu’ idoneo a fornirle il conforto di cui aveva bisogno. Dunque – secondo la corretta valutazione della Corte distrettuale – non e’ riscontrabile alcun elemento logico che possa alternativamente giustificare il comportamento della minore, che si era genuinamente confidata solo con le persone i cui si fidava e che sapeva che non avrebbero raccontato nulla ai suoi genitori. In queste senso risultano del tutto irrilevanti le ulteriori e diverse confidenze rivolte alla psicologa che – contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa – non avevano assolutamente riguardato episodi gravi come quello taciuto e comunque si erano riferite a fatti accaduti all’interno delle mura domestiche, evidentemente gia’ conosciuti dai genitori.
Considerazioni non dissimili riguardano le valutazioni della Corte d’appello rispetto all’asserita contraddizione in cui sarebbe caduta la persona offesa con riferimento al momento della perpetrazione degli abusi. Nessuna illogicita’ e’ ravvisabile nell’impugnata sentenza; che ha correttamente escluso la sussistenza della predetta contraddizione affermando che, anche in incidente probatorio, la persona offesa aveva inteso sostenere che l’imputato la costringeva a seguirlo nell’ambito del catechismo o del CRE, ma non durante, svolgimento delle lezioni. Tale conclusione e’ correttamente confermata dal riferimento o alle “aule vuote”, che potevano essere tali solo una volta finite le lezioni che si svolgevano all’interno delle stesse. La persona offesa, del resto, non ha mai affermato, ne’ in incider te probatorio, ne’ in dibattimento, che l’imputato la invitava a seguirlo durante lo svolgimento delle lezioni, ma ha sostanzialmente riferito che l’ambito di svolgimento degli abusi era quello del catechismo o del CRE e che il prete trovava i momenti piu’ opportuni per condurla nelle aule vuote ed abusare di lei.
Parimenti logica e coerente risulta l’argomentazione della Corte d’appello rispetto al profilo della mancata chiusura a chiave della porta della stanza in cui si perpetravano gli abusi. E infatti pienamente logico ritenere che la chiusura non ermetica avrebbe suscitato meno sospetti nel caso in cui qualcuno fosse entrato nella stanza; tanto piu’ considerando che gli atti sessuali posti in essere dall’imputato erano tali da consentire una pronta ricomposizione. A tale proposito, si smentisce quanto asserito dalla difesa rispetto alla maggiore gravita’ dei comportamenti perpetrati, i quali erano invece consistiti in toccamenti, strusciamenti e solo una volta nella penetrazione vaginale con le dita; sicche’ e’ assolutamente logico ritenere che l’imputato avrebbe potuto interrompere la violenza e ricomporsi rapidamente nel caso in cui qualcuno fosse entrato nella stanza.
Allo stesso modo, deve essere ritenuta pienamente adeguata l’interpretazione dei giudici del gravame con riferimento agli abusi perpetrati durante lo svolgimento delle lezioni di religione. Infatti – contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa – e’ del tutto ragionevole sostenere che i bambini di appena dieci anni di eta’ non si rendevano conto della devianza degli atteggiamenti posti in essere dall’insegnante, tanto piu’ considerando che – secondo quanto ripetutamente riferito dalla persona offesa – le condotte perpetrate durante la svolgimento delle lezioni si erano tradotte in strusciamenti e toccamenti; quindi in atti furtivi e rapidi, appositamente celati per non essere notati dagli altri alunni.
Infine, per quanto attiene la valutazione dei riscontri esterni costituti dalle testimonianze dei confidenti della vittima, deve richiamarsi quanto gia’ argomentato sub 4.1.
Nessuna illogicita’ e’ dunque ravvisabile nella sentenza impugnata, che ha approfonditamente preso in considerazione tutti i profili sulla base dei quali il primo giudice aveva ritenuto di assolvere l’imputato e li ha correttamente rivalutati in chiave accusatoria.
– Manifestamente infondato e’ anche il quarto motivo di ricorso, con cui si censura la ritenuta sussistenza della circostanza aggravante di cui all’articolo 61 c.p., n. 9).
A tale proposito, e’ sufficiente qui richiamare l’argomentazione della Corte territoriale che ha ritenuto sussistente la circostanza in questione sulla base del principio secondo cui la stessa e’ configurabile anche se il reato non sia stato commesso nella sfera tipica e ristretta delle funzioni e dei servizi propri del ministero sacerdotale, in quanto e’ sufficiente, da un lato, che a facilitarlo siano stati l’autorita’ e il prestigio connessi alla qualita’ di sacerdote e dall’altro, che vi sia stata violazione dei doveri anche generici nascenti da tale qualita’ (ex plurimis, Sez. 3, n. 1949 del 28/09/2016, dep. 17/01/2017, Rv. 268801 – 01; Sez. 3, n. 37068 del 24/06/2009, Rv. 244963 – 01; piu’ in generale, Sez. 1, n. 24894 del 28/05/2009, Rv. 243805 – 01).
Nel caso di specie, e’ indubbio che l’imputato sia stato fortemente agevolato nella commissione prolungata degli abusi dal prestigio di cui godeva nella comunita’ montana di riferimento, proprio per il ruolo sacerdotale da lui ricoperto. Per questo motivo, infatti, la persona offesa non aveva trovato il coraggio di denunciarlo, convinta di non essere creduta. Ne’, si comprende in quale nodo il riconoscimento della circostanza in questione si ponga in contrasto con il principio del ne bis in idem, dal momento che l’elemento dell’abuso di autorita’ derivante dal ruolo sacerdotale accompagna la commissione del reato di cui all’articolo 609 bis c.p. e lo aggrava, ma non puo’ certamente ritenersi da esso assorbito, trattandosi di un quid pluris, dotato del carattere della specialita’, rispetto alla generale categoria dell’abuso di autorita’, cui si riferisce l’articolo 609 bis.
– Manifestamente infondato e’ l’ultimo motivo di ricorso, con cui si rileva l’estinzione del reato per decorso dei termini prescrizionali riferiti ai fatti successivi al 15 luglio 2005.
A tale proposito, si rileva che al termine prescrizionale di dodici anni e sei mesi, applicabile. in forza dell’articolo 157 c.p., comma 1 e articolo 161 c.p., comma 2, (che avrebbe comportato il maturare della prescrizione al 15 gennaio 2018 per i fatti successivi al 2005) devono sommarsi i 79 giorni di sospensione per richieste difensive, sicche’ la prescrizione, anche per i fatti del 2005, risulta pacificamente maturata dopo la pronuncia della sentenza della Corte d’appello del 25 gennaio 2018. Ne’, l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione puo’ essere dichiarata in questa sede, stante il principio secondo cui l’inammissibilita’ del ricorso per cassazione anche per manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude pertanto la possibilit di rilevare e dichiarare l’estinzione del reato per prescrizione a norma dell’articolo 129 c.p.p. (ex plurimis, Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015).
– Secondo il disposto di cui all’articolo 585 c.p.p., comma 4, l’inammissibilita’ del ricorso principale si estende automaticamente ai motivi aggiunti che, pertanto, devono a loro volta essere dichiarati inammissibili. Solo a titolo di completezza, deve ribadirsi, sul punto, che la Corte d’appello non ha valutato in modo frazionato l’attendibilita’ del racconto della persona offesa, ma, al contrario ha giustificato le poche discrasie emergenti dallo stesso (oltretutto non riguardanti il nucleo centrale dei fatti di causa) sulla base dell’ampio lasso di tempo intercorrente tra lo svolgimento degli episodi delittuosi e il momento della deposizione.
5. – Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilita’”, alla declaratoria dell’inammissibilita’ medesima consegue, a norma dell’articolo 616 c.p.p., l’onere delle spese del procedimento nonche’ quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 2.000,00.
Il ricorrente deve anche essere condannato alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, da liquidarsi in Euro 2.683,00, oltre accessori di legge, in favore dello Stato.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende, nonche’ alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, che liquida in Euro 2.683,00, oltre accessori di legge, in favore dello Stato.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalita’ e gli altri dati identificativi, a norma del Decreto Legislativo n. 196 del 2003, articolo 52, in quanto imposto dalla legge.

Per aprire la mia pagina facebook @avvrenatodisa
Cliccare qui

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *