Immutato il fatto in contestazione il giudice può darne in sentenza una diversa qualificazione giuridica

Corte di Cassazione, sezione quarta penale, Sentenza 6 maggio 2019, n. 18793.

La massima estrapolata:

Immutato il fatto in contestazione il giudice può darne in sentenza una diversa qualificazione giuridica senza alcuna preventiva informazione alle parti, sia in primo grado che in appello, potendo le difese circa la diversa qualificazione giuridica «essere pienamente dispiegate nei successivi gradi di giudizio». Nel giudizio in cassazione, il giudice può dare in sentenza una diversa qualificazione giuridica al fatto, «sempreché le parti siano state rese edotte della possibilità di diversa qualificazione giuridica» o «direttamente vertendo sulla stessa l’atto di impugnazione oppure attraverso un’informativa, anche orale, alle stesse, da parte del PG in sede di requisitoria o anche da parte del Collegio prima della discussione».

Sentenza 6 maggio 2019, n. 18793

Data udienza 28 marzo 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIAMPI Francesco M. – Presidente

Dott. CAPPELLO Gabriella – Consigliere

Dott. PEZZELLA Vincenzo – rel. Consigliere

Dott. RANALDI Alessandro – Consigliere

Dott. CENCI Daniele – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D’APPELLO DI TORINO;
nel procedimento a carico di:
(OMISSIS) nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 21/03/2018 del TRIBUNALE di TORINO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere VINCENZO PEZZELLA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Gen., EPIDENDIO TOMASO che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata, previa riqualificazione del reato ai sensi del 624 bis.
Nessun difensore e’ presente.

RITENUTO IN FATTO

1. Il GM del Tribunale di Torino, con sentenza del 21/3/2018, all’esito di giudizio abbreviato conseguente a procedimento per direttissima, condannava (OMISSIS), riconosciutele le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti e recidiva, alla pena, gia’ cosi’ ridotta per il rito, di mesi otto di reclusione ed Euro quattrocento di multa per il reato continuato di cui agli articoli 81 cpv e 624 c.p., articolo 625 c.p., nn. 2 e 7, perche’, con piu’ azioni esecutive, del medesimo disegno criminoso e al fine di trarne profitto, si impossessava di due mazzi di chiavi appartenenti a (OMISSIS), infermiera presso il reparto di Pediatria dell’Ospedale di (OMISSIS), che le deteneva inserite nella toppa della serratura della porta del proprio ambulatorio, e l’altro a (OMISSIS), che le deteneva in qualita’ di caposala del predetto reparto all’interno della serratura della porta, dell’antibagno annesso allo stesso, nonche’ di un borsello in pelle blu contenente varie monete, sottraendo tali ultimi beni a (OMISSIS), medico ospedaliero, in servizio al pari delle persone suddette preso l’Ospedale di (OMISSIS) che li deteneva all’interno dell’armadietto chiuso a chiave lei assegnato nel locale spogliatoio medici di detto nosocomio. Con le aggravanti di aver commesso tutti i fatti su beni esistenti all’interno di stabilimento pubblico e il fatto in danno di (OMISSIS) anche con violenza sulle cose, consistita nella forzatura del suddetto armadietto. Recidiva reiterata specifica ex articolo 99 c.p. In (OMISSIS).
2. Ricorre per saltum ex articolo 569, articolo 608, commi 1 e 4 in riferimento all’articolo 569 c.p.p. il PG presso la Corte di Appello di Torino chiedendo annullarsi la sentenza impugnata per inosservanza o erronea applicazione dell’articolo 521 c.p.p., comma 1, avendo a suo avviso il tribunale torinese omesso di riqualificare il fatto, erroneamente ricondotto nella contestazione alla fattispecie di cui all’articolo 624 c.p., quale violazione dell’articolo 624 bis c.p., con conseguente errore nella pena irrogata e nel bilanciamento delle circostanze.
(OMISSIS) – ricorda il ricorso – veniva arrestata in flagranza e giudicata con rito direttissimo e successiva richiesta di giudizio abbreviato dal Tribunale di Torino, per il furto sopra riportato. La stessa -come risulta ex actis – fu sorpresa da una pattuglia di c.c. inviata sul luogo, poiche’ una donna era stata avvistata aggirarsi con fare sospetto nei reparti dell’Ospedale Maggiore di (OMISSIS). Venne cosi’ recuperata la refurtiva descritta nel capo d’imputazione, che risultava essere stata sottratta a personale medico e paramedico, in servizio presso il reparto di pediatria.
Dalle dichiarazioni rese dalle persone offese si evinceva come la imputata avesse fatto ingresso, per effettuare i furti in oggetto, in luoghi che, ad avviso del PG ricorrente, devono essere considerati di privata dimora.
In particolare, la Dott.ssa (OMISSIS) dichiarava di detenere i beni a lei sottratti all’interno dell’armadietto chiuso a chiave nel locale spogliatoio-medici della struttura e (OMISSIS) dichiarava che il mazzo di chiavi, rinvenuto nella tasca della (OMISSIS), era stato da lei lasciato nella serratura della porta dell’antibagno del locale magazzino del reparto di pediatria.
Il PG ricorrente ricorda essere pacifico, per giurisprudenza costante che si debba intendere luogo di privata dimora qualsiasi luogo, non aperto al pubblico, nel quale la persona compia, anche in modo transitorio e contingente, atti della vita privata.
Viene ricordato in ricorso che e’ stato costantemente ritenuto luogo di privata dimora il locale spogliatoio (il richiamo e’ a Sez. 5, n. 12180 del 10/11/2014; Dello Buono, Rv. 262815 secondo cui integra il delitto di furto in abitazione previsto dall’articolo 624 bis c.p. il fatto commesso nello spogliatoio di un circolo sportivo, in un caso in cui l’imputato, dopo aver sottratto le chiavi di un’autovettura dalla tasca del giubbotto del proprietario, si era impossessato dell’auto di questi; ed ancora a Sez. 5 n. 32093/2010 del 25/06/2010, Truzzi, Rv.248356 secondo cui integra il reato previsto dall’articolo 624bis c.p., la condotta di colui che, per commettere un furto, si introduca in una baracca adibita a spogliatoio di un cantiere edile, poiche’ il concetto di privata dimora e’ piu’ ampio di quello di abitazione, ricomprendendo ogni luogo non pubblico che serva all’esplicazione di attivita’ culturali, professionali e politiche).
Sostiene il PG ricorrente che i locali magazzino, in generale, essendo luoghi di lavoro non accessibili al pubblico, ed il bagno e l’antibagno connessi ai magazzino, in particolare, essendo riservati solo al personale, rientrano nel concetto di privata dimora, come precisato dalla giurisprudenza (viene ricordato che, perche’ vi sia privata dimora si deve trattare di luoghi non aperti al pubblico, ne’ accessibili a terzi, senza il consenso del titolare, nei quali si svolgano non occasionalmente atti della vita privata compresi quelli destinati ad attivita’ lavorativa o professionale giusto il dictum di Sez. 5, n. 55040 del 20/10/2016, Rovei, Rv 268409, Sez. 5, n. 51113de1 19/10/2017, Capizzano, Rv.. 271629 e, soprattutto, di Sez. Un n. 31345 del 23/03/2017, D’Amico; Rv 270076,).
Si evidenzia che il tribunale, pur giudicando con il rito abbreviato, avrebbe dovuto riqualificare il fatto ex articolo 521 c.p.p. avendo chiarito Sez. 6 n. 9213 del 26/09/1996, Martina, Rv. 206207 che il potere del giudice di dare in sentenza al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione, previsto dall’articolo 521 c.p.p., comma 1, e’ esercitabile anche con la sentenza emessa a seguito di giudizio abbreviato, non rilevando che in tale rito non sia applicabile, per l’esclusione fattane dall’articolo 441 c.p.p., l’articolo 423 cod. proc. pen., in quanto tale ultima norma prevede soltanto la facolta’ del pubblico ministero di modificare l’imputazione procedendo alla relativa contestazione, non avendo nulla a che vedere con l’autonomo ed esclusivo potere-dovere del giudice di dare al fatto una diversa definizione giuridica, contemplato dall’articolo 521 c.p.p., comma 1, applicabile, benche’ non specificamente richiamato in sede di giudizio abbreviato.
Con la riqualificazione del fatto si sarebbe dunque dovuto procedere ad una quantificazione della pena sulla base del minimo di armi 3 di reclusione ed Euro 997 di multa e non si sarebbe potuto effettuare il bilanciamento delle circostanze, ma operare il doppio computo ex articolo 624bis c.p.p., comma 4.
Chiede, pertanto, annullarsi con rinvio la sentenza impugnata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I motivi sopra illustrati appaiono fondati e, pertanto, la sentenza impugnata va annullata con rinvio, ex articolo 569 c.p.p., comma 4, al Tribunale di Torino, in quanto, ancorche’ il ricorso sia stato per saltum, si tratta di uno dei casi in cui, ai sensi dell’articolo 604 c.p.p., comma 1, nel giudizio di appello si sarebbe dovuta annullare la sentenza di primo grado.
2. Fondato e’ il rilievo secondo cui il GM torinese sia incorso in una violazione di legge laddove non ha ritenuto che i fatti contestati andassero sanzionati ai sensi dell’articolo 624bis c.p..
Cio’ in quanto le Sezioni Unite di questa Corte, hanno chiarito che, ai fini della configurabilita’ del reato previsto dall’articolo 624 bis c.p., rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico ne’ accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attivita’ lavorativa o professionale (Sez. Un. 31345 del 23/3/2017, D’Amico, Rv. 270076 che hanno escluso l’ipotesi prevista dall’articolo 624 bis c.p. in relazione ad un furto commesso all’interno di un ristorante in orario di chiusura).
Nella sentenza sopra citata le Sezioni Unite hanno dunque confermato l’orientamento che interpreta la disciplina dettata dall’articolo 624-bis c.p. come estensibile ai luoghi di lavoro soltanto se essi abbiano le caratteristiche proprie dell’abitazione (accertamento questo riservato ai giudici di merito). Potra’, quindi, essere riconosciuto il carattere di privata dimora ai luoghi di lavoro se in essi, o in parte di essi, il soggetto compia atti della vita privata in modo riservato e precludendo l’accesso a terzi (ad esempio, retrobottega, bagni privati o spogliatoi, area riservata di uno studio professionale o di uno stabilimento).
Le SSUU D’Amico hanno preso le mosse dai principi delineati, da un lato, dalla giurisprudenza costituzionale (cfr. le sentenze n. 135/2002 e n. 149/2008) per circoscrivere la nozione di “domicilio” ai fini della copertura costituzionale dell’articolo 14 Cost. (inviolabilita’ del domicilio) e dall’altro, dall’orientamento gia’ espresso dalla giurisprudenza di legittimita’ (il riferimento in sentenza e’ a Sez. U. n. 26795 del 28/03/2006, Prisco, Rv. 234269), secondo cui la nozione di domicilio di cui all’articolo 14 Cost. e’ piu’ estesa di quella ricavabile dall’articolo 614 c.p. e, quale che sia il rapporto tra le due disposizioni, “il concetto di domicilio non puo’ essere esteso fino a farlo coincidere con un qualunque ambiente che tende a garantire intimita’ e riservatezza”.
Non c’e’ dubbio, prosegue la Corte nella sentenza richiamata, che “il concetto di domicilio individui un rapporto tra la persona ed un luogo, generalmente chiuso, in cui si svolge la vita privata, in modo anche da sottrarre chi lo occupa alle ingerenze esterne e da garantirgli quindi la riservatezza. Ma il rapporto tra la persona ed il luogo deve essere tale da giustificare la tutela di questo anche quando la persona e’ assente”.
Sulla scorta di tali principi, le Sezioni Unite D’Amico hanno, dunque, delineato alcuni elementi, ritenuti indefettibili per individuare la nozione di privata dimora: 1. utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni della vita privata (riposo, svago, alimentazione, studio, attivita’ professionale e di lavoro in genere), in modo riservato ed al riparo da intrusioni esterne; 2. durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona, in modo che tale rapporto sia caratterizzato da una certa stabilita’ e non da mera occasionalita’.
3. Nel caso specifico preso in esame (come detto, un ristorante in ora di chiusura), applicando le linee cosi’ tracciate ai luoghi di lavoro, le SSUU D’Amico hanno precisato essere indubbio che in tali luoghi l’individuo svolgesse atti della vita privata, ma che cio’ non era sufficiente per affermare che si trattasse di un luogo di privata dimora, con conseguente tutela rafforzata in termini di trattamento sanzionatorio previsto per il delitto di furto in abitazione, cio’ essendo possibile solo ove essi abbiano le caratteristiche proprie dell’abitazione, cioe’ se in essi, o in parte di essi, il soggetto compia atti della vita privata in modo riservato e precludendo l’accesso a terzi (ad esempio, retrobottega, bagni privati o spogliatoi, area riservata di uno studio professionale o di uno stabilimento).
La conferma che i luoghi di lavoro, di per se’, non costituiscano privata dimora si ricava, per le Sezioni Unite, dall’articolo 52 c.p., comma 3 (aggiunto dalla L. 13 febbraio 2006, n. 59, articolo 1), nel quale si afferma che la disposizione di cui al comma 2 si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all’interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un’attivita’ commerciale, professionale o imprenditoriale.
Nel richiamato comma 2 si fa riferimento, ai fini della presunzione di proporzionalita’ tra offesa e difesa, ai luoghi previsti dall’articolo 614 c.p. (vale a dire a quelli di privata dimora). Se, dunque, la nozione di privata dimora comprendesse, indistintamente, tutti i luoghi in cui il soggetto svolge atti della vita privata, non vi sarebbe stata alcuna necessita’ di aggiungere nell’articolo 52, il comma 3 per estendere l’applicazione della norma anche ai luoghi di svolgimento di attivita’ commerciale, professionale o imprenditoriale. Evidentemente tale precisazione – rilevano le SSUU D’Amico – e’ stata ritenuta necessaria perche’, secondo il legislatore, la nozione di privata dimora non e’, in generale, comprensiva dei luoghi di lavoro.
4. Il perimetro di riconoscibilita’ del concetto di privata dimora e’ stato ulteriormente tracciato nelle sentenze:
– Sez. 5, n. 51113 del 19/10/2017, Capizzano, Rv. 271629 secondo cui non e’ configurabile il reato previsto dall’articolo 624bis c.p. qualora il furto sia commesso nel corridoio di un istituto scolastico, trattandosi di luogo non riconducibile alla nozione di privata dimora, nell’ambito della quale rientrano esclusivamente i luoghi non aperti al pubblico, ne’ accessibili a terzi senza il consenso del titolare e nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata.
– Sez. 5, n. 35764 del 27/3/2018, C. Rv. 273597, secondo cui integra il reato previsto dall’articolo 624-bis c.p. la condotta di chi si impossessa di un ciclomotore introducendosi nel locale adibito al suo deposito, in quanto detto luogo, benche’ disabitato, costituisce pertinenza di una privata dimora.
– Sez. 4, n. 24377 del 26/4/2018, Mancuso, non mass. che ha escluso la sussistenza del reato di cui all’articolo 624bis c.p. nel caso di un furto perpetrato in orario notturno in una tabaccheria;
– Sez. 5, n. 35788 del 4/5/2018, Seferovic, Rv. 273894 secondo cui integra il delitto di cui all’articolo 624-bis c.p. il furto commesso all’interno di un locale adibito a spogliatoio di uno “stand” fieristico.
– Sez. 4, n. 32245 del 20/06/2018, D’Antonio, Rv. 273458 (caso in cui l’azione criminosa si era svolta all’interno di un circolo sportivo e in orario notturno e in cui la Corte ha annullato con rinvio la sentenza impugnata, che aveva ritenuto la privata dimora, rilevando come il giudice del merito non avesse verificato se, all’interno del circolo, il furto fosse stato operato in luoghi aperti al pubblico o in luoghi in cui il soggetto compiva atti della vita privata in modo riservato e precludendo l’accesso a terzi, quali ad esempio, retrobottega, bagni privati o spogliatoi).
– Sez. 5, n. 34475 del 21/6/2018, Tako, Rv. 273633 che ha ritenuto corretta la qualificazione ex articolo 624-bis c.p. del furto commesso di notte all’interno di uno studio legale, ricorrendo i presupposti dello “ius excludendi alios”, dell’accesso non indiscriminato al pubblico e della presenza costante di persone, anche eventualmente in orario notturno, essendo il titolare libero di accedervi in qualunque momento della giornata.
– Sez. 5 n. 53200 del 11/10/2018, Mignone, Rv. 274592, secondo cui non costituisce luogo di privata dimora la stanza di degenza di un ospedale, con la conseguenza che il furto di un oggetto in danno di un paziente ivi ricoverato integra la fattispecie di cui all’articolo 624 c.p. e non quella di cui all’articolo 624-bis c.p..
– Sez. 5 n. 1278 del 31/10/2018 dep. il 2019, Sini, Rv. 274389 che ha ritenuto integrare il reato previsto dall’articolo 624bis c.p. la condotta di chi si impossessa di una bicicletta introducendosi nell’androne di un edificio destinato ad abitazioni, in quanto detto luogo costituisce pertinenza di privata dimora.
Coerentemente, anche in relazione ad altri reati in cui veniva in rilievo il concetto di privata dimora, sono stati applicati i medesimi principi.
Cosi’, in tema di rapina, e’ stata ritenuta sussistente la circostanza aggravante di cui all’articolo 628 c.p., comma 3, n. 3 bis, nel caso di consumazione del fatto all’interno dei locali della guardia medica, trattandosi di luogo che comprende spazi destinati a residenza temporanea del sanitario (Sez. 2, n. 29386 del 31/5/2018, Signorelli ed altro, Rv. 272971). E, ai fini della configurabilita’ del reato di cui all’articolo 615 bis c.p. e’ stato ritenuto privata l’ambulatorio di un ospedale, essendo il suo uso riservato al personale e ai singoli pazienti che vi sono ammessi ed essendo irrilevante la circostanza che ad usare il locale sia anche l’autore dell’indebita interferenza cosi’ Sez. 3 n. 47123 del 24/05/2018, C. Rv. 274419 che ha ritenuto immune da censure la sentenza che aveva ritenuto integrato il reato di cui all’articolo 615 bis c.p. nel caso di videoriprese effettuate da un dipendente ospedaliero ai danni dei pazienti o di colleghi di lavoro all’interno di una stanza adibita momentaneamente a spogliatoio per ragioni di servizio).
5. Orbene, applicando il principio di diritto di cui alte SS.UU. D’Amico al caso che ci occupa, ritiene il Collegio che sia fondata la doglianza secondo cui il GM torinese avrebbe dovuto riqualificare il fatto ai sensi dell’articolo 521 c.p.p., comma 1 con riferimento all’articolo 624bis c.p. aggravato ex articolo 625 c.p., comma 2 dalla violenza sulle cose.
Cio’ pur essendosi proceduto con il rito abbreviato, avendo da tempo chiarito questa Corte di legittimita’ (cfr. Sez. 6 n. 9213 del 26/09/1996, Martina, Rv. 206207; Sez. 1, n. 12061 del 12/11/1992 dep. il 1992, Pieroni ed altro, Rv. 192617) che il potere del giudice di dare in sentenza al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione, previsto dall’articolo 521 c.p.p., comma 1, e’ esercitabile anche con la sentenza emessa a seguito di giudizio abbreviato, non rilevando che in tale rito non sia applicabile, per l’esclusione fattane dall’articolo 441 c.p.p., l’articolo 423 cod. proc. pen., in quanto tale ultima norma prevede soltanto la facolta’ del pubblico ministero di modificare l’imputazione procedendo alla relativa contestazione, non avendo nulla a che vedere con l’autonomo ed esclusivo potere-dovere del giudice di dare al fatto una diversa definizione giuridica, contemplato dall’articolo 521 c.p.p., comma 1, applicabile, benche’ non specificamente richiamato in sede di giudizio abbreviato.
Tale dictum, risalente nel tempo, ma non piu’ contraddetto, e’, peraltro, coerente con l’orientamento successivamente consolidatosi, dopo che era stato in precedenza anche affermato il principio opposto, secondo cui il potere-dovere di restituzione degli atti al pubblico ministero ai sensi dell’articolo 521 c.p.p. puo’ essere esercitato anche dal giudice del rito abbreviato posto che la scelta dell’imputato di essere giudicato allo stato degli atti non puo’ tradursi in una cristallizzazione del fatto reato nei limiti dell’imputazione (cfr. Sez. 1, n. 26333 del 24/05/2001, Paonessa, Rv. 219672; conf. Sez. 6 n. 36310 del 7/7/2005; Notari ed altro, Rv. 232407: Sez. 4, n. 21548 del 23/3/2007, Manca, Rv. 236728 alla cui articolata motivazione si rimanda; Sez. 4, n. 36936 del 12/6/2007, Gamba, Rv. 237238; Sez. 2, Sentenza n. 859 del 18/12/2012 dep. il 2013, Chiapolino, Rv. 254186).
Nel caso che ci occupa, i tre furti di cui all’imputazione, sono stati realizzati, all’interno dell’ospedale di (OMISSIS), e hanno riguardato:
1. un mazzo di chiavi inserito nella toppa della porta dell’ambulatorio dell’infermiera (OMISSIS);
2. un mazzo di chiavi inserito nella toppa della porta dell’antibagno dell’ambulatorio dalla caposala (OMISSIS);
3. un borsello in pelle blu del medico (OMISSIS) detenuto all’interno dell’armadietto a lei assegnato nello spogliatoio medici.
Si tratta, di luoghi tutti che hanno quelle caratteristiche (luoghi di lavoro in cui il soggetto compia atti della vita privata in modo riservato e precludendo l’accesso a terzi) che, secondo i sopra ricordati dictum delle SSUU D’Amico e della giurisprudenza successiva, hanno la valenza di dimora privata.
6. Va evidenziato che il giudice di primo grado ben avrebbe potuto condannare l’imputata per il piu’ grave reato di cui all’articolo 624 bis c.p.p. in quanto il fatto cristallizzato nell’imputazione e’ quello, indipendentemente dal mancato riferimento alla norma in questione.
La giurisprudenza di questa Corte di legittimita’ e’ costante nell’affermare che per “fatto nuovo”, regolato dall’articolo 518 c.p.p., si intende un fatto ulteriore ed autonomo rispetto a quello contestato, ossia un episodio storico che non si sostituisce ad esso, ma che eventualmente vi si aggiunge, affiancandolo quale autonomo thema decidendi, trattandosi di un accadimento naturalisticamente e giuridicamente autonomo.
Il “fatto diverso”, cui si riferisce dell’articolo 521 c.p.p., il comma 2, e’, invece, non solo un fatto che integri una imputazione diversa, restando esso invariato, ma anche un fatto che presenti connotati materiali difformi da quelli descritti nella contestazione originaria, rendendo necessaria una correlativa puntualizzazione nella ricostruzione degli elementi essenziali del reato (cfr. ex multis Sez. 6, n. 26284 del 26/03/2013, Tonietti, Rv. 256861; Sez. 5, n. 2295 del 03/07/2015 – dep. il 2016, Marafioti, Rv. 266019; Sez. 5, n. 10310 del 25/08/1998, Capano, Rv. 211477).
La Corte Costituzionale, in un passaggio della sentenza 103/2010 (Corte Cost., n. 103 del 10/3/2010pubblicata in G.U. 24/03/2010, n. 12) scrive: “Si deve premettere che l’articolo 521 c.p.p. ha codificato il principio della necessaria correlazione tra imputazione contestata e sentenza, in base al quale il giudice puo’ attribuire al fatto una definizione giuridica diversa, senza incorrere nella violazione del suddetto principio, soltanto quando l’accadimento storico addebitato rimanga identico negli elementi costitutivi tipici, cioe’ quando risultano immutati l’elemento psicologico, la condotta, l’evento e il nesso di causalita’. Se il giudice, invece, accerta che il fatto e’ diverso da quello descritto nell’imputazione, deve disporre la trasmissione degli atti al pubblico ministero. L’anzidetto principio e’ diretto a garantire il contraddittorio e il diritto di difesa dell’imputato, il quale deve essere posto nelle condizioni di conoscere l’oggetto dell’imputazione nei suoi elementi essenziali e di difendersi, secondo la linea ritenuta piu’ opportuna, in relazione ad esso”.
Anche per il giudice delle leggi, dunque, l’operazione di rivalutazione che il giudice puo’ compiere, senza far scattare il precetto dell’articolo 521 c.p.p., comma 2 e’ soltanto quella che non va a modificare ne’ l’elemento oggettivo del reato (condotta, evento e nesso causale) ne’ quello soggettivo; o, quantomeno, che non va a stravolgere detti elementi, rendendoli incompatibili rispetto ad un effettivo esercizio del diritto di difesa.
Sussiste, dunque, diversita’ del fatto e percio’, in caso di condanna, si ha violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, se il fatto contestato sia mutato nei suoi elementi essenziali, cosi’ da provocare una situazione di incertezza e di cambiamento sostanziale della fisionomia dell’ipotesi accusatoria capace di impedire o menomare il diritto di difesa dell’imputato (Sez. 6, n. 6346 del 09/11/2012, dep. il 2013, Domizi e altri, Rv. 254888).
Occorre quindi una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa, che nel caso che ci occupa non c’e’ stata.
In ogni caso l’indagine volta ad accertare la violazione del principio non si esaurisce nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perche’, vedendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione e’ del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (cfr. Sez. Un. 36551 del 15/07/2010, Carelli, Rv. 248051; Sez. Un. 16 del 19/06/1996, Di Francesco Rv. 205619).
7. Detto dell’immutazione del fatto, occorre tuttavia interrogarsi sulla possibilita’ che avesse il giudice di primo grado, una volta ritiratosi in camera di consiglio, di uscirne con una decisione, per certi versi, “a sorpresa” rispetto alla qualificazione giuridica di quel fatto che era stata data in imputazione.
La risposta, ad avviso del Collegio, e’ positiva. E cio’ in base ad una corretta interpretazione del principio costituzionale di cui all’articolo 111 Cost., comma 3, che si giova delle sentenze della Corte E.D.U. nel caso (OMISSIS) contro Italia Sez. 2 dell’11/12/2007 e Sez. 1 del 24/2/2018, dalla dottrina comunemente indicate come sentenze ” (OMISSIS) (OMISSIS)” e ” (OMISSIS) (OMISSIS)”.
Tali pronunce offrono un valido spunto, anche rispetto ad un caso come quello che ci occupa, per compiere una piu’ ampia riflessione sul tema del rapporto tra riqualificazione del fatto-reato (operazione squisitamente ermeneutica, che si estrinseca nel ricondurre la fattispecie concreta nell’alveo di una differente norma incriminatrice, ma che purtuttavia non fa acquisire al fatto una connotazione diversa per quel che concerne i suoi elementi essenziali) e mutamento dell’addebito (attivita’ valutativa che invece va a stravolgere l’originaria imputazione anche sotto il profilo fattuale, incidendo proprio su uno degli elementi essenziali del reato che era stato ascritto all’imputato).
Si avra’ violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, come si dira’ di qui a poco secondo quella che e’ un’impostazione tutt’altro che formalistica della Corte di Strasburgo fatta propria da questa Corte di legittimita’- quando si sia di fronte ad un concreto e non meramente ipotetico regresso sul piano dei diritti difensivi, attraverso un mutamento della cornice accusatoria che abbia effettivamente comportato una novazione dei termini dell’addebito tali da rendere la difesa menomata proprio sui profili di novita’ che da quel mutamento sono scaturiti (vedasi in proposito Sez. Un. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264438, in motivazione).
8. Giovera’ ricordare, in estrema sintesi, il caso sottoposto per due volte al vaglio della Corte di Strasburgo.
Condannato in primo ed in secondo grado per i delitti di falso continuato in atti pubblici fidefacenti e di corruzione continuata per atti contrari ai doveri d’ufficio ex articoli 81 e 319 c.p., l’imputato, ex giudice fallimentare del tribunale di Pordenone, si rivolse a questa Corte di legittimita’ chiedendo dichiarare l’intervenuta prescrizione dei reati.
Questa Corte Suprema, tuttavia, con la sentenza Sez. 6, n. 23024 del 4/2/2004, Rv. 230440, ritenne, ai sensi dell’articolo 521 c.p.p., comma 1, che i fatti corruttivi andassero riqualificati nel reato di corruzione in atti giudiziari ex articolo 319 ter c.p. e dunque che, in relazione alla pena edittale stabilita da quest’ultima norma, fossero infondate le doglianze relative alla mancata declaratoria di estinzione del reato per prescrizione.
Da qui, il primo ricorso presentato dal (OMISSIS) alla Corte di Strasburgo, che lamentava l’illegittimita’ di una riqualificazione giuridica in peius “a sorpresa” da parte di questa Corte. E che vide l’11 dicembre 2017 la condanna dell’Italia per l’inosservanza dell’articolo 6, comma 1 e comma 3, lettera a) e b) Cedu, con l’invito alla riapertura o alla rinnovazione del giudizio viziato.
Nella pronuncia ” (OMISSIS) (OMISSIS)” la Corte Europea dei diritti dell’uomo, affermo’ la violazione della norma sopra ricordata, e, in particolare, del diritto dell’imputato di essere informato in modo dettagliato non solo dei motivi dell’accusa, ma anche della qualificazione giuridica attribuita ai fatti oggetto della stessa, che, quindi, venne ritenuto rappresentare un presupposto essenziale per un processo equo.
Ritennero, percio’, i giudici di Strasburgo che, poiche’ con la sentenza 23024/2004 questa Corte aveva proceduto ad una diversa, e piu’ grave, qualificazione giuridica del fatto, senza che ne’ il pubblico ministero ne’ il Collegio avesse segnalato, prima della deliberazione, l’opportunita’ di procedere ad una riqualificazione giuridica dei fatti; il ricorrente non era mai stato avvisato circa tale eventualita’ e, di conseguenza, non aveva mai avuto la possibilita’ di dibattere la nuova accusa in contraddittorio.
Concluse, pertanto, la Corte E.D.U. che era “stato leso il diritto del ricorrente ad essere informato in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico nonche’ il suo diritto a disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa” e, in assenza di domanda di equo soddisfacimento, che “un nuovo procedimento o la riapertura del procedimento su richiesta dell’interessato rappresenta(sse) in linea di massima un mezzo adeguato per porre rimedio alla violazione contestata”.
Questa Corte di legittimita’, investita della questione con ordinanza della Corte di Appello di Venezia, che, provvedendo quale giudice dell’esecuzione su ricorso proposto dal (OMISSIS), aveva dichiarato la ineseguibilita’ ex articolo 670 c.p.p. del giudicato, con sentenza Sez. 6, n. 45807 del 12/11/2008 Rv. 241754, riconosciuta “la forza vincolante delle sentenze definitive della Corte Europea dei diritti dell’uomo, sancita dall’articolo 46 della Convenzione”, dopo aver provveduto alla revoca della sentenza del 4 gennaio 2004, dispose la “nuova trattazione del ricorso”.
con riferimento al quale si era verificata la violazione constatata dalla Corte dei diritti dell’uomo, “limitatamente al punto della diversa qualificazione giuridica data al fatto corruttivo rispetto a quella enunciata nell’imputazione e poi ritenuta dai giudici di merito”.
Si era, tuttavia, di fronte all’assenza di rimedi codicistici, in quanto all’epoca l’ordinamento italiano non prevedeva ancora la c.d. “revisione Europea”, in quanto solo con la sentenza additiva della Corte Costituzionale n. 113 del 2011 sarebbe poi stata dichiarata l’illegittimita’ costituzionale dell’articolo 630 c.p.p. nella parte in cui non prevede un ulteriore caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna, al fine di conseguire la riapertura del processo, quando cio’ sia necessario, ai sensi dell’articolo 46 paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte Europea della Corte dei diritti dell’uomo.
Al risultato, comunque, di una nuova trattazione del ricorso, la sentenza 45807/2008 pervenne applicando estensivamente l’articolo 625bis c.p.p., norma ritenuta idonea “a rimediare, oltre che a veri e propri errori di fatto, a violazioni del diritto di difesa occorse nell’ambito del giudizio di legittimita’ e nelle sue concrete e fondamentali manifestazioni che rendono invalida per iniquita’ la sentenza della Corte di Cassazione”.
La precedente sentenza di legittimita’ del 4 febbraio 2004 n. 23024 nei confronti di (OMISSIS), venne, dunque, revocata, limitatamente ai fatti corruttivi qualificati come reati di corruzione in atti giudiziari ex articolo 319 ter c.p. e si dispose che si procedesse a nuova trattazione del ricorso contro la sentenza della Corte d’appello di Venezia del 2 giugno 2002.
All’esito della nuova trattazione del ricorso suddetto, Sez. 6, n. 36323 del 25/05/2009 Rv. 244971, qualificati nuovamente i fatti corruttivi quali reati di corruzione in atti giudiziari ex articolo 319 ter c.p., rigetto’ ancora una volta il ricorso.
A tale conclusione questa Corte di legittimita’ pervenne sulla scorta dell’affermato principio che il contraddittorio argomentativo sul nomen iuris fosse sufficiente per assicurare l’equita’ processuale, non essendo, invece, imposto dalla giurisprudenza Europea il riconoscimento del diritto alla prova.
Insoddisfatto dell’esito del processo, il (OMISSIS) decise nuovamente di rivolgersi alla Corte di Strasburgo, ritenendo che il rimedio straordinario offertogli dall’ordinamento nazionale avesse nuovamente violato l’equita’ processuale, sotto il profilo dell’articolo 6, comma 1 e comma 3, lettera a) e b) della CEDU.
In particolare, lamentava di non aver beneficiato ne’ del tempo necessario per preparare la propria difesa, ne’ del diritto di comparire personalmente dinanzi alla Corte di Cassazione, ne’ del potere d’ottenere una riapertura del dibattimento al fine d’acquisire ulteriori prove sul riformulato addebito.
Stavolta, pero’, con la sentenza del 22/2/2018, la Corte E.D.U. gli ha dato torto, sul rilievo che il ricorso ex articolo 625 bis c.p.p. non avesse in alcun modo pregiudicato i suoi diritti defensionali, ai sensi dell’invocato articolo 6, comma 1 e comma 3, lettera a) e b) CEDU.
Nello specifico, i giudici sovranazionali hanno ritenuto che, nei cinque mesi trascorsi fra l’annullamento parziale della sentenza e la “riapertura” del processo ex articolo 625bis c.p.p., il (OMISSIS) abbia avuto modo di preparare adeguatamente la propria difesa, tanto che, durante tale lasso di tempo, egli aveva presentato due memorie scritte, mentre il suo difensore aveva presenziato all’udienza del 25 maggio 2009.
Quanto, poi, alla lamentata impossibilita’ di comparire personalmente, la Corte E.D.U. ha evidenziato come la discussione dinanzi al giudice di legittimita’ abbia avuto per oggetto esclusivamente questioni di diritto, che non rendevano necessaria la presenza dell’imputato.
Con riguardo alla mancata acquisizione di nuove prove, infine, i giudici di Strasburgo hanno preso atto del fatto che il ricorrente non aveva mai contestato la ricostruzione dei fatti come operata dai giudici di merito e che non risultava in alcun modo ex actis che la difesa avesse mai chiesto la riapertura dell’istruttoria, essendosi invece il difensore del (OMISSIS), nelle sue memorie, limitato a chiedere l’annullamento senza rinvio della condanna per prescrizione dei reati contestati.
9. Puo’ allora, a questo punto, trarsi una prima conclusione.
L’articolo 111 Cost., comma 3, che – com’e’ noto – costituisce la trasposizione, pressoche’ letterale, della corrispondente disposizione contenuta nell’articolo 6, comma 3, lettera a), della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali, adottata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva con L. 4 agosto 1955, n. 848, secondo cui “ogni accusato ha piu’ specificamente diritto a: a) essere informato (..) in un modo dettagliato della natura e dei motivi della accusa elevata a suo carico” dunque, sancisce il diritto della persona accusata di un reato a essere informata (..) della natura e dei motivi della accusa”.
L’inequivocabile tenore della formulazione dunque, secondo il diritto vivente, alla luce delle pronunce della Corte E.D.U. sopra ricordate, porta ad escludere che tale informazione possa essere limitata ai meri elementi fattuali posti a fondamento della accusa e ad imporre, invece, anche l’enunciazione della qualificazione giuridica dei fatti addebitati, che necessariamente concorre a definirne la “natura” dell’addebito, alla quale l’ordinamento riconnette, in esito all’accertamento giudiziario, le conseguenze sanzionatorie. Solo cosi’, infatti, e’ assicurata, nella sua interezza, la possibilita’ di effettivo esercizio del diritto di difesa nel “giusto processo” attraverso il quale si attua la giurisdizione.
Il diritto alla informazione in ordine alla “natura della accusa” che, in rapporto alla evoluzione del procedimento nella fase processuale, si traduce nel diritto alla contestazione della “imputazione”, vera e propria, consistente nella “enunciazione del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza, con l’indicazione dei relativi articoli di legge” (articolo 405 c.p.p.; articolo 417 c.p.p., comma 1, lettera b); articolo 429 c.p.p., comma 1, lettera c), deve essere correlato al potere del giudice, previsto dall’articolo 521 c.p.p., comma 1, “di dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella contenuta nel capo di imputazione”.
Ebbene, tale contemperamento e’ certamente possibile attraverso un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’articolo 521 c.p.p., comma 1, la quale condizioni l’esercizio del potere di una diversa qualificazione giuridica alla preventiva instaurazione ad opera del giudice del contraddittorio tra le parti sulla quaestio iuris relativa oppure alla possibilita’ che tale contraddittorio sia instaurato anche in un grado successivo.
10. Questa Corte di legittimita’ ha nel corso degli anni conformato la sua giurisprudenza ai principi di cui alle ricordate pronunce della Corte E.D.U. nel caso (OMISSIS), precisando che nel giudizio di legittimita’, il potere della Corte di attribuire una diversa qualificazione giuridica ai fatti accertati non puo’ avvenire con atto a sorpresa e con pregiudizio del diritto di difesa, imponendosi, per contro, la comunicazione alle parti del diverso inquadramento prospettabile, con concessione di un termine a difesa (cosi’ Sez. 6, n. 3716 del 24/11/2015 – dep. il 2016, Caruso, Rv. 266953; conf. Sez. 4, n. 2340 del 29/11/2017 dep. il 2018, D.S, Rv. 271758 che, ritenendo doversi procedere alla riqualificazione giuridica di una circostanza aggravante contestata nell’imputazione, ha annullato la sentenza impugnata limitatamente a tale aggravante, con rinvio alla corte d’appello per l’instaurazione del contraddittorio in ordine al diverso inquadramento giuridico della circostanza; Sez. 4, n. 9133 del 12/12/2017 dep. il 2018, Giacomelli, Rv. 272263 che, invece, ha ritenuto rispettato il principio sopra enunciato in quanto la diversa qualificazione giuridica dei fatti, operata dalla Corte medesima, era stata rappresentata, nel giudizio di cassazione, dal Procuratore generale nel corso della sua requisitoria ed era stata oggetto di discussione, all’esito della quale le parti avevano rassegnato le loro rispettive conclusioni).
In altro caso, i giudici di legittimita’ hanno ravvisato la violazione irrimediabile del diritto di difesa essendo stata ritenuta in sentenza l’ipotesi aggravata del reato di falso in atto pubblico, ex articolo 476 c.p., comma 2, non adeguatamente e correttamente esplicitata nella contestazione, considerato che, anche alla luce dei vincoli posti dalla giurisprudenza della Corte EDU e’ diritto dell’imputato essere informato tempestivamente e dettagliatamente tanto dei fatti materiali posti a suo carico, quanto della qualificazione giuridica ad essi attribuiti (Sez. 5, n. 12213 del 13/02/2014, Amoroso e altri, Rv. 260209).
La giurisprudenza di questa Corte – come evidenzia la condivisibile Sez. 5, n. 19380 del 12/02/2018, Adinolfi, Rv. 273204 – ha dunque in varie prospettive circoscritto la portata del principio e della regola di sistema espressa dalla Corte Europea dei diritti con la sentenza (OMISSIS) (OMISSIS), rifuggendo un’interpretazione meramente formalistica ed andando a ritenerlo applicabile a quei soli casi in cui, effettivamente, l’imputato non avesse avuto modo di rielaborare la propria linea difensiva.
11. Costituisce, pertanto, ius receptum il principio che non sussiste violazione del diritto al contraddittorio quando l’imputato abbia avuto modo di interloquire in ordine alla nuova qualificazione giuridica attraverso l’ordinario rimedio dell’impugnazione, non solo davanti al giudice di secondo grado, ma anche davanti al giudice di legittimita’ (Sez. 6, n. 10093 del 14/02/2012, Vinci, Rv. 251961; Sez. 2, n. 32840 del 09/05/2012, Damjanovic e altri, Rv. 253267; Sez. 5, n. 7984 del 24/09/2012 15 19/02/2013, Jovanovic, Rv. 254649; Sez. 3, n. 2341 del 07/11/2012 – 17/01/2013, Manara, Rv. 254135; Sez. 2, n. 45795 del 13/11/2012, Tirenna, Rv. 254357).
In tale prospettiva, e’ stato percio’ ritenuto che la diversa qualificazione del fatto effettuata dal giudice di appello non determina alcuna compressione o limitazione del diritto al contraddittorio, perche’ l’imputato puo’ contestarla nel merito con il ricorso per cassazione (Sez. 2, n. 17782 del 11/04/2014, Salsi, Rv. 259564; Sez. 5, n. 19380 del 12/02/2018, Adinolfi, Rv. 273204).
E, in un caso che presenta molti tratti comuni rispetto a quello che ci occupa, si e’ concluso nel senso che il diritto al contraddittorio in ordine alla natura e alla qualificazione giuridica dei fatti di cui l’imputato e’ chiamato a rispondere, sancito dall’articolo 111 Cost., comma 3, e dall’articolo 6 CEDU, comma 1 e comma 3, lettera a) e b), cosi’ come interpretato nella sentenza della Corte EDU nel proc. (OMISSIS) c. Italia, e’ garantito anche quando il giudice di primo grado provveda alla riqualificazione dei fatti direttamente in sentenza, senza preventiva interlocuzione sul punto, in quanto l’imputato puo’ comunque pienamente esercitare il diritto di difesa proponendo impugnazione (Sez. 3, n. 2341 del 07/11/2012 – dep. il 2013, Manara e altro, Rv. 254135).
Quanto alla riqualificazione giuridica del fatto dinanzi a questa Corte di legittimita’, come detto in precedenza sub 9., l’unico limite e’ rappresentato dal fatto che la stessa non puo’ avvenire “a sorpresa”, all’atto della deliberazione, occorrendo che le parti siano poste in grado di interloquire – e soprattutto la difesa di spiegare appieno le proprie strategie difensive – in ordine alla possibilita’ di una diversa qualificazione giuridica.
Ne’ vale osservare, in contrario, che i limiti del giudizio di legittimita’ non consentirebbero l’esercizio di un’adeguata attivita’ difensiva.
Ed invero, la questione della qualificazione giuridica del fatto (e non dell’accertamento materiale dello stesso) rientra fra i casi tipici del ricorso per cassazione (articolo 606 c.p.p., lettera b) e quindi puo’ essere adeguatamente discussa anche in ultima istanza.
Risulta pertanto ormai ampiamente superato l’orientamento, gia’ minoritario, espresso in tre sentenze di questa Suprema Corte (Sez. 1, n. 18590 del 29/04/2011, Corsi, Rv. 250275; Sez. 6, n. 20500 del 19/02/2010, Fadda, Rv. 247371; Sez. 5, n. 6487 del 28/10/2011 dep. il 2012, Finocchiaro, Rv. 251730), le quali avevano ritenuto configurabile una nullita’ a seguito della riqualificazione dell’imputazione operata in sentenza senza il previo contraddittorio
In tal senso, prima ancora della seconda pronuncia sul caso (OMISSIS) (OMISSIS) questa Corte, con la pronuncia poi impugnata in sede Europea, si era condivisibilmente orientata nell’affermare che nel giudizio di legittimita’, il diritto del ricorrente a essere informato in modo dettagliato della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico deve ritenersi soddisfatto quando l’eventualita’ di una diversa qualificazione giuridica del fatto operata dal giudice “ex affido” sia stata rappresentata al difensore dell’imputato, in modo che la parte abbia potuto beneficiare di un congruo termine per apprestare la propria difesa. (In motivazione la Corte ha precisato che l’articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione EDU, cosi’ come interpretato dalla giurisprudenza della Corte Edu, puo’ ritenersi rispettato con l’informazione al solo difensore, tenendo conto della natura tecnica del giudizio di legittimita’). cosi’ Sez. 2, n. 37413 del 15/5/2013, (OMISSIS), Rv. 256653.
Puo’ essere utile aggiungere che, coerentemente con il dictum di Sez. 2 n. 37413/2013 potrebbe essere ipotizzabile una contestazione, in fatto, della diversa qualificazione giuridica prospettata, ma in questo caso sarebbe imprescindibile che con il ricorso per cassazione o con le difese in sede di legittimita’ fosse formulata una richiesta di annullamento con rinvio, che specificamente indicasse nuovi elementi di fatto, non valutati dal giudice di merito e non prospettati perche’ non attinenti alla originaria qualificazione, che consentirebbero di escludere la diversa e nuova qualificazione. E nel caso in cui la difesa non assolvesse a tale onere la relativa richiesta di annullamento con rinvio sarebbe viziata da genericita’ (articolo 581 c.p.p., comma 1, lettera c) e articolo 591 c.p.p., comma 1, lettera c).
Va peraltro evidenziato che, nel caso che ci occupa il difensore ha ritenuto legittimamente di non interloquire rispetto alla richiesta di riqualificazione giuridica avanzata dal PG torinese con l’atto d’impugnazione. E, come sottolineato da questa Corte di legittimita’, in tema di correlazione tra accusa e sentenza, quando con l’atto di impugnazione (in quel caso si trattava di appello, ma, mutatis mutandis, il principio vale anche per il ricorso per cassazione) la riqualificazione giuridica del fatto sia espressamente richiesta dal Pubblico Ministero, alla mancata interlocuzione dell’imputato sulla eventualita’ che il fatto contestatogli possa essere diversamente definito non consegue alcuna nullita’ della sentenza, essendo riconducibile il mancato contraddittorio ad una libera scelta della difesa (cosi’ Sez. 5,n. 14040 del 22/01/2014; dolente Rv. 260399).
12. E’ percio’ possibile, a questo punto, alla luce dei principi sopra ricordati affermare conclusivamente il principio di diritto secondo cui, immutato il fatto in contestazione, il giudice puo’ dare in sentenza una diversa qualificazione giuridica allo stesso:
1. senza alcuna preventiva informazione alle parti, sia in primo grado che in appello, potendo le difese in ordine alla diversa qualificazione giuridica essere pienamente dispiegate nei successivi gradi di giudizio, quindi, rispettivamente, dinanzi al giudice di appello o a quello di legittimita’;
2. nel giudizio in cassazione, sempreche’ le parti siano state rese edotte della possibilita’ di diversa qualificazione giuridica o, in un caso come quello che ci occupa, direttamente vertendo sulla stessa l’atto di impugnazione oppure attraverso un’informativa, anche orale, alle stesse, da parte del PG in sede di requisitoria o anche da parte del Collegio prima della discussione.
Orbene, nel caso in esame il fatto e’ rimasto immutato in tutti i suoi elementi e il GM torinese ben avrebbe potuto modificarne la qualificazione giuridica, inquadrandolo, del tutto correttamente, nella fattispecie incriminatrice dell’articolo 624bis c.p. aggravato dalla violenza sulle cose in luogo di quella dell’articolo 624 c.p., articolo 625 c.p., nn. 2 e 7, di cui all’imputazione.
Si verte, infatti, in un caso di mera riqualificazione giuridica della fattispecie nell’esercizio del potere del giudice di applicare la norma di diritto al fatto sottopostogli (narra mihi factum, dabo tibi ius) e il diritto di difesa rispetto alla nuova qualificazione giuridica sarebbe stato pienamente garantito alla (OMISSIS) nei successivi gradi di giudizio.
Tale diversa qualificazione giuridica, tuttavia, ben puo’ essere operata da questa Corte in ragione del fatto che, secondo i principi affermati dalla Corte E.D.U. nella piu’ volte richiamata pronuncia del 22/2/2018 (OMISSIS) (OMISSIS), la difesa dell’imputata, dal ricorso per cassazione del PG di Torino del 28/5/2018 alla data della udienza e della decisione (28/3/2019), com’era accaduto nel caso analizzato dalla Corte di Strasburgo per il ricorso ex articolo 625 bis c.p. del (OMISSIS), ha avuto tutto il tempo per articolare le proprie difese in relazione alla richiesta di riqualificazione dei fatti come furto in abitazione aggravato dalla violenza sulle cose su cu era imperniata l’impugnazione della parte pubblica.
Per una legittima scelta processuale la difesa ha deciso di non presentare memorie e nemmeno di comparire in udienza. Ma il contraddittorio le e’ stato, comunque, garantito.
Consegue, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Torino, dovendo il giudice del rinvio uniformarsi ai principi di diritto ed alla qualificazione giuridica operata da questa Corte di legittimita’ e procedere alla rideterminazione del trattamento sanzionatorio.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia al Tribunale di Torino.

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