Suprema Corte di Cassazione
Sezione lavoro
sentenza n. 14197 del 7 agosto 2012
Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Palermo ha confermato la sentenza di primo grado che aveva rigettato la domanda proposta da M. E. nei confronti della società Villa Igea Gestioni Alberghiere spa perchè venisse accertata l’illegittimità del licenziamento intimatogli dalla società con lettera del 19.5.2005 per avere sottratto beni di proprietà dell’azienda.
A tali conclusioni la Corte territoriale è pervenuta – dopo avere respinto l’eccezione di improcedibilità dell’appello sollevata dalla società Acqua Marcia Turismo spa (società incorporante la Villa Igea Gestioni Alberghiere spa) e le eccezioni sollevate dal lavoratore in ordine alla necessità della previa affissione del codice disciplinare ed alla legittimità del ricorso da parte del datore di lavoro all’attività di investigatori privati per il controllo dell’operato dei propri dipendenti – osservando che la condotta addebitata al lavoratore, consistita nell’essersi appropriato di un quantitativo di beni aziendali che non poteva essere giustificato dalla prassi secondo cui alcuni generi alimentari non consumati potevano essere portati via dal personale, doveva ritenersi tale da comportare una irrimediabile lesione dell’elemento fiduciario e da giustificare così il recesso del datore di lavoro.
Avverso tale sentenza ricorre per cassazione M.E. affidandosi a tre motivi di ricorso cui resiste con controricorso la società Acqua Marcia, che ha proposto anche ricorso incidentale fondato su un unico motivo.
La società ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
Preliminarmente, deve essere disposta la riunione del ricorso principale e di quello incidentale, ex art. 335 c.p.c., trattandosi di impugnazioni proposte avverso la stessa sentenza.
1.- Con il primo motivo del ricorso principale si denuncia violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, nonchè vizio di motivazione, nella parte in cui la Corte territoriale ha ritenuto che, nella specie, non vi fosse necessità dell’affissione del codice disciplinare in relazione ad addebiti che riguardavano la violazione di norme di legge e comunque di doveri fondamentali del lavoratore.
2.- Con il secondo motivo si denuncia violazione della L. n. 300 del 1970, artt. 3 e 6, relativamente alla statuizione con la quale la Corte territoriale ha ritenuto che il ricorso da parte del datore di lavoro all’attività di investigatori privati fosse giustificato poichè, nella specie, si trattava di atti illeciti commessi dal dipendente non riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione lavorativa.
3.- Con il terzo motivo si denuncia il vizio di motivazione in relazione al fatto controverso e decisivo per il giudizio, rappresentato dalla proporzionalità tra la sanzione irrogata ed il fatto contestato.
4.- Con il ricorso incidentale la società denuncia violazione dell’art. 2448 c.c., artt. 137 e 324 c.p.c., riproponendo l’eccezione di improcedibilità dell’appello, già respinta dalla Corte territoriale, evidenziando che, nella specie, al giudice del gravame era sfuggito che la sentenza era stata notificata ad istanza della società Acqua Marcia, con l’espressa indicazione che tale società aveva “fuso per incorporazione la Villa Igea Gestioni Alberghiere”, e che la notifica del ricorso in appello (alla società Villa Igea) era stata effettuata, quindi, nei confronti di una società estinta. Nè il vizio poteva ritenersi sanato per effetto della costituzione in giudizio della società Acqua Marcia Turismo spa, attesa la natura perentoria del termine di impugnazione e l’eccezione formulata al riguardo dall’appellata.
5.- Esaminando nell’ordine logico le questioni proposte dalle parti, deve anzitutto essere respinta l’eccezione di improcedibilità dell’appello riproposta dalla società con il ricorso incidentale.
L’eccezione è infondata in quanto, come questa Corte ha già avuto modo di precisare (Cass. n. 16099/2006), in caso di proposizione dell’atto di appello nei confronti di società incorporata da un’altra società, la costituzione in giudizio da parte della società incorporante sana il vizio dell’atto di citazione con effetto “ex tunc”, in applicazione della norma contenuta nell’art. 164 c.p.c., comma 3, (nel testo sostituito dalla L. 26 novembre 1990, n. 353, art. 9), a tenore della quale la costituzione del convenuto sana i vizi della citazione e restano salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda.
6.- Il rilievo che precede ha carattere assorbente. Va rilevato, per completezza, che, a seguito della nuova formulazione dell’art. 2504 bis c.c., in base al cui primo comma “la società che risulta dalla fusione o quella incorporata assumono i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione”, la fusione configura una vicenda meramente evotutivo-modificativa del medesimo soggetto giuridico (allo stesso modo di quanto avviene con la trasformazione), senza la produzione di alcun effetto successorio ed estintivo, con la conseguenza che essa, implicando ora anche la continuità nei rapporti processuali, non comporta più, a norma degli artt. 110, 299 e 300 c.p.c., interruzione del processo in cui sia parte una società partecipante, per l’appunto, ad una fusione (Cass. n. 14526/2006, Cass. sez. unite n. 2637/2006).
7.- Il primo motivo del ricorso principale è infondato. La Corte di merito si è, infatti, uniformata al principio di diritto ripetutamente enunciato da questa Corte (cfr. ex plurimis Cass. n. 27104/2006, Cass. n. 19306/2004) secondo cui la pubblicità del codice disciplinare, necessaria, in ogni caso, al fine della validità delle sanzioni disciplinari conservative, non è necessaria al fine della validità del licenziamento disciplinare, qualora il licenziamento sia intimato per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, come definiti dalla legge, mentre è necessaria qualora lo stesso licenziamento sia intimato per specifiche ipotesi giustificatrici del recesso previste da normativa secondaria collettiva o legittimamente posta dal datore di lavoro.
8.- Anche il secondo motivo è infondato.
Questa Corte ha già precisato (cfr. ex plurimis Cass. n. 18821/2008, Cass. n. 9167/2003) che le disposizioni (L. n. 300 del 1970, artt. 2 e 3) che delimitano – a tutela della libertà e dignità del lavoratore, in coerenza con disposizioni e principi costituzionali – la sfera di intervento di presone preposte dal datore di lavoro a difesa dei propri interessi – e cioè per scopi di tutela del patrimonio aziendale (art. 2) e di vigilanza dell’attività lavorativa (art. 3) – non precludono il potere dell’imprenditore di ricorrere alla collaborazione di soggetti (come le agenzie investigative) diversi dalle guardie particolari giurate per la tutela del patrimonio aziendale, nè, rispettivamente, di controllare l’adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze specifiche dei dipendenti, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica. Tuttavia, il controllo delle guardie particolari giurate, o di un’agenzia investigativa, non può riguardare, in nessun caso, nè l’adempimento, nè l’inadempimento dell’obbligazione contrattuale del lavoratore di prestare la propria opera, essendo l’inadempimento stesso riconducibile, come l’adempimento, all’attività lavorativa, che è sottratta alla suddetta vigilanza, ma deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione (nel caso esaminato dalla seconda sentenza sopra citata, si trattava dell’appropriazione indebita di danaro riscosso per il datore di lavoro e sottratto alla contabilizzazione).
9.- Quanto all’ambito di applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 6, questa Corte ha avuto modo di precisare (cfr. Cass. n. 1461/88) che l’art. 6 cit. – nel prevedere i casi in cui sono consentite, ai fini della tutela del patrimonio aziendale, le visite personali di controllo sul lavoratore – riguarda unicamente le ispezioni corporali, ma non anche quelle sulle cose del lavoratore, atteso che la norma citata – da interpretarsi letteralmente – contempla solo la “visita personale”, che nell’ordinamento processuale sia civile (art. 118 c.p.c.) che penale (artt. 244-246 c.p.p.) è tenuta distinta dall’ispezione di cose e luoghi.
10.- Alla luce dei principi di diritto enunciati, la sentenza impugnata – che ha affermato la legittimità del ricorso all’attività di investigatori privati qualora il controllo riguardi, come nella specie, atti illeciti commessi dal dipendente che non siano riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione lavorativa, evidenziando anche come la verifica del contenuto dell’autovettura del lavoratore sia avvenuta fuori dei locali aziendali, peraltro ad opera dei Carabinieri appositamente accorsi sul luogo – non merita le censure che le sono state mosse con il secondo motivo di ricorso.
11- Parimenti infondato è il terzo motivo del ricorso principale, che investe l’accertamento dei fatti addebitati al lavoratore ed il giudizio di gravità e di proporzionalità dei fatti medesimi in rapporto alla sanzione irrogata.
12.- Invero, nei licenziamenti per motivi disciplinari l’accertamento dei fatti addebitati al lavoratore e il giudizio di gravità e di proporzionalità dei fatti medesimi rispetto al licenziamento disciplinare, sono riservati al giudice di merito e, come tali, non sono sindacabili in sede di legittimità se sorretti da motivazione congrua e immune da vizi logici (cfr. ex multis Cass. n. 9167/2003).
13.- Sotto altro profilo, questa Corte ha già precisato che ai fini della legittimità del licenziamento disciplinare irrogato per un fatto astrattamente costituente reato, non rileva la valutazione penalistica del fatto nè la sua punibilità in sede penale, dovendosi effettuare una valutazione autonoma in ordine alla idoneità del fatto ad integrare gli estremi della giusta causa o giustificato motivo del recesso (Cass. n. 20731/2007, cui adde Cass. n. 37/2011). Ed ha puntualizzato (Cass. n. 17652/2007) che nel giudizio relativo alla legittimità del licenziamento disciplinare intimato al lavoratore sulla base di un fatto per il quale sia stata esercitata l’azione penale, il giudice civile non è vincolato dal giudicato penale ed è, quindi, abilitato a procedere autonomamente alla valutazione del materiale probatorio acquisito al processo, nel caso di mancata partecipazione al giudizio penale del datore di lavoro, che pure era stato posto in condizione di farlo. Ed infatti l’art. 654 c.p.p., diversamente dall’art. 652 relativo ai giudizi civili di risarcimento del danno, esclude che possa avere efficacia in un successivo giudizio civile la sentenza penale di condanna o di assoluzione, con riferimento ai soggetti che non abbiano partecipato al giudizio penale, indipendentemente dalle ragioni di tale mancata partecipazione.
14.- Alla luce dei principi di diritto enunciati, la sentenza impugnata – che ha motivatamente accertato la gravità dei fatti addotti a sostegno del licenziamento e la proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità di tali fatti – non merita le censure che le sono state mosse con il terzo motivo, ed in particolare sotto il profilo del vizio di motivazione.
15.- Al riguardo, vale rimarcare che, come questa Corte ha costantemente ribadito, il controllo sulla motivazione non può risolversi in una duplicazione del giudizio di merito e che alla cassazione della sentenza impugnata può giungersi non per un semplice dissenso dalle conclusioni del giudice di merito – poichè in questo caso il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento dello stesso giudice di merito, che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione – ma solo in caso di motivazione contraddittoria o talmente lacunosa da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto alla base della decisione (cfr. explurimis, Cass. n. 10657/2010, Cass. n. 9908/2010, Cass. n. 27162/2009, Cass. n. 13157/2009, Cass. n. 6694/2009, Cass. n. 18885/2008, Cass. n. 6064/2008). In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto – consentito al giudice di legittimità (art. 360 c.p.c., n. 5) – non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata; che una revisione siffatta si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità.
16.- Nella specie, il ricorrente, lungi dal denunciare lacune o contraddizioni logiche nella motivazione che sorregge l’accertamento di fatto sul quale è fondata la decisione impugnata, prospetta inammissibilmente una diversa ricostruzione dei medesimi fatti, proponendone un giudizio valutativo parimenti diverso, sicchè anche il terzo motivo di ricorso non può trovare accoglimento.
17.- In conclusione, sia il ricorso principale che quello incidentale devono essere rigettati. Sussistono giusti motivi, desumibili anche dalla soccombenza reciproca, per compensare integralmente tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta entrambi; compensa tra le parti le spese del presente giudizio.
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