Suprema Corte di Cassazione
Sezione Seconda
Sentenza del 31 maggio 2012, n. 20976
Ritenuto in fatto
Con ordinanza del 30 giugno 2011 il Tribunale di Rovigo ha respinto l’istanza dì riesame proposta da E.P. ed C.E.F. avverso il decreto di sequestro preventivo in funzione della confisca “per equivalente” disposto dal g.i.p. del medesimo Tribunale in data 3 maggio 2011 fino alla concorrenza di Euro 1.250.091,00 sui beni del P. e di Euro 965.700,00 sui beni della C.
Contro tale provvedimento gli indagati propongono ricorso per l’annullamento, allegando a sostegno due motivi.
Con il primo motivo, i ricorrenti lamentano la violazione di legge consistente nella falsa applicazione degli artt. 19 e 53 del d.lgs n. 231 del 2001. Osservano, in particolare, che il sequestro de quo è stato disposto a loro carico in estensione di quello adottato, con il medesimo provvedimento, nei confronti della T. F. Group s.r.l. (società di cui il P. è legale rappresentante). Si dolgono, quindi, dell’illegittimità della adozione nei loro confronti un provvedimento della specie impugnata, dal momento che il d.lgs. n. 231 del 2001 espressamente si applica (art. 1) solamente a enti forniti di personalità giuridica, alle società e alle associazioni prive di personalità giuridica, ma non anche alle persone fisiche che ne hanno la rappresentanza, tantomeno adducendo a fondamento il concorso nella commissione del reato.
Il secondo motivo attiene alla falsa applicazione dell’art. 322-ter cod. pen., nella parte in cui sulla base di tale disposizione è stato ritenuto confiscabile (e quindi sequestrabile) non solo il prezzo del reato, ma anche il relativo profitto.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.
2. La prima questione, relativa all’estensione del sequestro finalizzato alla confisca per equivalente alle persone fisiche è destituita di fondamento in quanto omette di considerare il disposto dell’art. 322-ter cod. pen.
La norma prevede, infatti, che la confisca (e quindi anche il sequestro ad essa preordinato) deve essere disposta nei confronti del “reo”, quindi anche della persona fisica materialmente autrice del reato.
Nel caso di concorso fra la responsabilità individuale dell’autore e quella ex d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, questa Corte ha chiarito che il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente del profitto del reato di corruzione può incidere contemporaneamente od indifferentemente sui beni dell’ente che dal medesimo reato ha tratto vantaggio e su quelli della persona fisica che lo ha commesso (Sez. 6, 5/3/2009 n. 26611 Rv. 244254).
In particolare, il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente sui beni della persona fisica non richiede, per la sua legittimità, la preventiva escussione del patrimonio della persona giuridica nell’interesse della quale il reato è stato commesso (Sez. 3, 27/1/2011 n. 7138 Rv. 249398; Sez. 2, 20/12/2006 n. 10838/2007 Rv. 235827). Ed infatti, nessuna norma impone di perseguire il patrimonio della persona giuridica beneficiaria dell’utile determinato dal reato, prima di aggredire il patrimonio del soggetto concorrente nel reato medesimo.
Ed inoltre, il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente può interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l’intera entità del profitto accertato, anche se l’espropriazione non può essere duplicata o comunque eccedere nel quantum l’ammontare complessivo dello stesso (Sez. 5, 3/2/2010 n. 10810 Rv. 246364; Sez. 5, 24/1/2011 n. 13277 Rv. 249839). Difatti, il principio solidaristico che informa la disciplina del concorso di persone nel reato, implica l’imputazione dell’intera azione delittuosa e dell’effetto conseguente in capo a ciascun concorrente e comporta la solidarietà nella pena. Atteso il carattere sanzionatorio della confisca per equivalente, la stessa può quindi interessare ciascuno dei concorrenti fino all’intera entità del prezzo o del profitto del reato. L’eventuale riparto fra i concorrenti costituisce fatto interno ai rapporti fra gli stessi.
3. I principi di diritto sopra esposti contraddicono alla radice le censure svolte dai ricorrenti con il primo motivo.
Piuttosto, deve concludersi che è immune da censure di legittimità l’operato dei giudici di merito che hanno disposto il sequestro non soltanto nei confronti della società che ha beneficiato del prezzo o del profitto del reato, ma anche delle persone fisiche che hanno concorso nella sua commissione, entro il limiti della concorrenza del quantum complessivamente sequestrabile e secondo il principio della solidarietà passiva.
4. Venendo all’esame del secondo motivo di ricorso, va rammentato che le Sezioni unite di questa Corte hanno affrontato espressamente il problema di come debba configurarsi il “profitto del reato” nel sequestro preventivo funzionale alla confisca c.d. per equivalente, seppure con riferimento alla previsione contenuta dal d.lgs. n. 231/2001 per il caso di responsabilità degli enti collettivi (Sez. U., 27/03/2008 n. 26654 Rv. 239924).
È stato osservato al riguardo che secondo l’impostazione del diritto penale classico (art. 240 cod. pen.) la confisca andava ascritta tra le misure di sicurezza patrimoniale, fondata sulla pericolosità derivante dalla disponibilità di cose servite o destinate a commettere il reato; la misura era quindi finalizzata a prevenire la commissione di ulteriori reati. Successivamente sono state però introdotte nell’ordinamento, in maniera sempre più marcata, ipotesi di confisca obbligatoria del profitto ricavato dal reato (si pensi ad esempio, per restare alla sola disciplina codicistica, alla confisca di cui agli artt. 322-ter, 600-septies, 640-quater, 644, 648-quater cod. pen.); in tal modo sotto un nomen iuris unitario hanno finito per trovare spazio istituti di diversa natura.
Tale diversa natura emerge a chiare note nella confisca c.d. per equivalente, cui è certamente estranea la finalità special-preventiva e che persegue l’unico obiettivo di privare l’autore del reato del profitto che gliene è derivato.
Con particolare riguardo a quest’ultima ipotesi, si pone il problema ermeneutico della determinazione dell’oggetto dell’ablazione.
Pur in assenza di una definizione legislativa delle nozioni di profitto e provento del reato, è indubbio che queste assumono significati diversi in relazione ai differenti contesti normativi in cui sono inserite.
Si ritiene, in particolare, che nel contesto di un’attività totalmente illecita, la nozione di profitto del reato finisce col comprendere “qualsiasi cosa” riveniente dal fatto delittuoso, individuata esclusivamente secondo il criterio selettivo della “pertinenzialità” del profitto al reato medesimo, ossia della circostanza che l’uno costituisca una conseguenza economica immediata dell’altro. In tal caso, non può farsi spazio all’uso di parametri valutativi di tipo aziendalistico e, in particolare, non è possibile distinguere fra il profitto e l’utile “netto”, cioè l’effettivo guadagno percepito dal reo. Tutta la prestazione è, per così dire, geneticamente marchiata di illiceità e deve essere confiscata.
Altra valutazione deve essere compiuta, invece, nel caso in cui il fatto-reato si inserisce nel contesto di una attività che in sé sarebbe lecita, tanto più se caratterizzata da un rapporto di scambio di natura sinallagmatica.
Assume rilievo, quindi, la distinzione fra il “reato contratto”, cioè il caso in cui vi è una vera a propria immedesimazione del reato con il negozio giuridico, ed il “reato in contratto”, che si ha allorquando il comportamento penalmente rilevante non coincide con la stipulazione del contratto in sé, ma va ad incidere solamente sulla fase di formazione della volontà contrattuale o su quella di esecuzione del programma negoziale.
In questa seconda ipotesi, il contratto “a valle” è lecito ed eventualmente annullabile ex art. 1439 cod. civ..
È di tutta evidenza che nel caso di “reato in contratto” il profitto tratto dall’agente non è interamente ricollegabile alla condotta penalmente sanzionata, giacché la legge penale non stigmatizza la stipulazione contrattuale tout court, ma esclusivamente il comportamento tenuto, nel corso delle trattative o della fase esecutiva, da una parte in danno dell’altra.
Ed allora, il profitto del reato confiscabile non corrisponde a qualsiasi prestazione percepita in esecuzione del rapporto contrattuale, ma solo al vantaggio economico derivante dal fatto illecito. Per cui, se il fatto penalmente rilevante (ad esempio, una corruzione) ha inciso sulla fase di individuazione dell’aggiudicatario di un pubblico appalto, ma poi l’appaltatore ha regolarmente adempiuto alle prestazioni nascenti dal contratto (in sé lecito), il profitto del reato per il corruttore non equivale all’intero prezzo dell’appalto, ma solo al vantaggio economico conseguito per il fatto di essersi reso aggiudicatario della gara pubblica. Tale vantaggio corrisponde, quindi, all’utile netto dell’attività d’impresa.
5. Nella specie, il reato per il quale è stato disposto il sequestro è costituito da una truffa ai danni dello Stato. Trattasi di un “reato contratto”, alla stregua della ricostruzione giuridica della figura illustrata nelle pagine precedenti.
Consegue che, essendovi la totale immedesimazione del reato con il negozio giuridico, l’intero prezzo è sequestrabile, senza fare alcun riferimento alla distinzione fra questo ed il profitto.
Anche sotto questo profilo si deve quindi rilevare che il provvedimento impugnato risulta essersi conformato ai principi di diritto elaborati da questa Corte.
6. Il ricorso è quindi infondato e deve essere rigettato. Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., le parti private che lo hanno proposto devono essere condannate al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Depositata in Cancelleria il 31.05.2012
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