Suprema Corte di Cassazione
sezione VI
ordinanza 24 giugno 2015, n. 13138
Osserva:
La CTR di Torino ha respinto l’appello dell’Agenzia, appello proposto contro la sentenza n. 6-16-2011 della CTP di Torino che – in causa avente ad oggetto “disconoscimento dell’esenzione IVA ex art. 10 comma 1 n. 18 del DPR n. 633/1972”, siccome l’attività “dentistica” svolta dalla parte contribuente era stata in concreto esercitata da soggetti non legalmente abilitati, oltre al recupero dell’IRAP sul maggior imponibile non dichiarato, imposte riferite all’anno 2007- aveva accolto il ricorso proposto dalla “Centro dentistico M.F.R. e snc” avverso il relativo avviso di accertamento.
La predetta CTR – dopo avere premesso che l’Ufficio muoveva dal presupposto che l’intervento del direttore sanitario dott. C. era stato “solo formale e sporadico”, sicché non vi era stata attività diretta alle cure del paziente né la qualità di operatore sanitario di chi l’aveva posta in essere – argomentava che “spetta all’ufficio dimostrare se ed in quale misura le prestazioni odontoiatriche sono state rese abusivamente” ovvero di fatto rese da un odontotecnico: in assenza di tale prova la pretesa non risultava dimostrata. D’altronde, era anche “inammissibile la distinzione tra attività lecitamente ed illecitamente esercitate ai fini della concessione dell’esenzione IVA”. L’Agenzia ha interposto ricorso per cassazione affidato a due motivi.
La parte contribuente non si è difesa.
Il ricorso – ai sensi dell’art. 380 bis cpc assegnato allo scrivente relatore – può essere definito ai sensi dell’art. 375 cpc.
Con il secondo motivo di impugnazione (centrato sulla violazione dell’art. 10 del DPR n.633/1972, in combinato disposto con gli art. 2697 comma 1 cpc e 51 comma 2 n. 2 DPR n. 633/1972, da esaminarsi preliminarmente perché di più agevole soluzione e perché dirimente in ipotesi di rigetto, siccome riferito ad una delle due autonome rationes decidendi su cui si regge la decisione impugnata) la parte ricorrente – dopo avere premesso che nessuno dei soci nella società contribuente è in possesso dell’abilitazione all’esercizio dell’odontoiatria e che nella struttura venivano prestate contempo le attività odontoiatriche (dal C.) e quelle odontoprotesiche (dagli altri soci) – ha evidenziato di avere ritenuto non esentabili da IVA le (complessive?) prestazioni rese all’interno di quest’ultima, sul presupposto che non risultavano effettuate da soggetti abilitati all’esercizio della professione sanitaria. Ciò posto, la ricorrente si è doluta dell’applicazione fatta dal giudicante della regola in tema di onere della prova, così violando il principio secondo il quale “in materia tributaria è il contribuente a dover provare i presupposti di fatto e di diritto legittimanti l’adozione di qualsiasi regime derogatorio all’imposizione ordinaria”. D’altronde, al giudicante sarebbe bastato considerare l’art. 51 comma 2 del DPR n. 633/1972 per desumere dalle “riscontrate irregolarità nella tenuta della contabilità” una presunzione contraria al contribuente idonea a determinare l’inversione su quest’ultimo dell’onere della prova. Il motivo appare inammissibilmente formulato, prima ancora che infondato.
Esso appare più volte carente in termini di assolvimento dell’onere di autosufficienza del ricorso per cassazione, sia per ciò che concerne l’assunto in ordine all’irregolare tenuta della contabilità d’impresa (in ordine al quale nulla di specifico la parte ricorrente ha allegato, se non un asserito “disordine” non meglio illustrato), sia per ciò che concerne la natura delle prestazioni fatturate di cui pretende l’esclusione dal regime di esonero (non solo in assoluto, ma anche in rispetto al complesso delle attività esercitate dalla società, nel paragone con il quale soltanto si sarebbe potuto apprezzare – alla luce del numero dei clienti, dell’impegno personale profuso dai soci, del combinato rapporto tra prestazioni sanitarie e ausiliarie implicate da ciascun genere di programma terapeutico – se vi fossero elementi presuntivi per supporre ciò che l’Ufficio ha supposto, e cioè che l’organizzazione aziendale mascherasse una forma di esercizio abusivo della professione sanitaria).
Nella totale carenza di indagini a proposito degli elementi di fatto donde desumere la verisimiglianza di una siffatta ipotesi accertativa, non restava al giudice del merito se non fare applicazione rigorosa del criterio dell’onus probandi che addossa a chi ha interesse a prospettare l’esistenza di sistema abusivo volto a frodare la legge di quantomeno allegare gli elementi presuntivi (se non gravi, precisi e concordanti, almeno semplici) donde detto sistema possa apprezzarsi, onde consentire a chi ne è imputato di difendersi da specifiche contestazioni.
Ed infatti, in analoga fattispecie codesta Suprema Corte (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 25374 del 17/10/2008) ha avuto modo di insegnare che:”In tema di IVA, le pratiche abusive consistenti nell’impiego di una forma giuridica o di un regolamento contrattuale al fine di realizzare quale scopo principale (seppur non esclusivo) un risparmio di imposta, anche se allo stesso si accompagnino secondarie finalità di contenuto economico, consistono in abusi di diritti fondamentali garantiti dall’ordinamento comunitario e pertanto assumono rilievo normativo primario in tale ordinamento, indipendentemente dalla presenza di una clausola generale antielusiva nell’ordinamento fiscale italiano. L’individuazione dell’impiego abusivo di una forma giuridica incombe sull’amministrazione finanziaria, la quale non potrà limitarsi ad una mera e generica affermazione, ma dovrà individuare e precisare gli aspetti e le particolarità che fanno ritenere l’operazione priva di reale contenuto economie diverso dal risparmio di imposta. (Fattispecie nella quale la S. ha ritenuto costituisse abuso del diritto il frazionamento di un contratto di leasing in una pluralità di contratti distinti, conclusi con soggetti diversi ed aventi ad oggetto rispettivamente la concessione in uso del bene ed i servizi di finanziamento e di assicurazione contro la perdita del bene o il deterioramento del bene, al fine principale di considerare imponibile soltanto il corrispettivo per l’uso del bene, con esenzione degli altri servizi, ai sensi dell’art. 10 n. 1, 2 e 9 del d.P.R. n. 633 del 1972)”.
Non guasta invece evidenziare che il diverso indirizzo giurisprudenziale valorizzato dalla parte ricorrente a sostegno della propria tesi (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 28946 del 10/12/2008, la cui massima tradisce alquanto la effettiva ratio decidendi) ripete le sue ragioni d’essere da tutt’altra situazione di fatto, caratterizzata dalla necessità di distinguere versamenti effettuati sui conti correnti bancari di un lavoratore autonomo, che non trovavano corrispondenza nella contabilità, in base alla presunzione prevista dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, n. 2, (in forza della quale i movimenti bancari si intendono relativi ad operazioni imponibili e, quindi, “sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dal D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 54 e 55 se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono ad operazioni imponibili”). Di siffatta presunzione anche la parte qui ricorrente ha tentato – argutamente – di giovarsi, onde rimediare al difetto nell’assolvimento dell’onere che le incombe, senza che ve ne fossero i presupposti processuali e fattuali.
Il rigetto del motivo dianzi esaminato rende frustraneo l’esame di quello che precede, per le ragioni di già evidenziate.
Pertanto, si ritiene che il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio per inammissibilità.
Ritenuto inoltre:
– che la relazione è stata notificata agli avvocati delle parti;
– che la parte ricorrente ha depositato memoria illustrativa con la quale (anche richiamando significativi stralci del PVC) ha inteso emendare – ma ormai tardivamente – il difetto della compiuta allegazione dei presupposti fattuali indispensabili, per come identificati nella relazione, onde consentire alla Corte di intendere se sussistessero i presupposti di quell’inversione probatoria in ragione dei quali si assume che il giudice del merito abbia violato le norme invocate, presupposti nel difetto dei quali resta comunque assodato che nella fattispecie in esame non possono ritenersi (in astratto) carenti “i requisiti professionali previsti dalla legge”, siccome la società contribuente del tutto legittimamente si avvaleva, nello svolgimento della sua attività, di un direttore sanitario abilitato all’esercizio della professione medica specialistica;
– che il Collegio, a seguito della discussione in camera di consiglio, condivide i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione e, pertanto, il ricorso va rigettato;
– che le spese di lite non necessitano di regolazione, atteso che la parte vittoriosa non si è costituita.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Nulla sulle spese.
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