Corte di Cassazione, sezione quarta penale, sentenza 21 dicembre 2018, n.57937.
Le massime estrapolate:
In tema di reati omissivi colposi, la posizione di garanzia, che può essere generata da investitura formale o dall’esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante, deve essere individuata accertando in concreto la effettiva titolarità del potere-dovere di gestione della fonte di pericolo, alla luce delle specifiche circostanze in cui si è verificato il sinistro.
Sentenza 21 dicembre 2018, n.57937
Pres. Menichetti
est. Ranaldi
Svolgimento del processo
Con sentenza del 5.12.2017 la Corte di appello di Bologna, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Parma, ha condonato la pena inflitta in primo grado a F.F. e ha dichiarato S.M. responsabile, agli effetti civili, del reato a lui ascritto, condannandolo al risarcimento del danno in favore delle parti civili. Per il resto ha quindi confermato la declaratoria di penale responsabilità del F. in ordine ai reati colposi di omicidio in danno dei lavoratori C.F. e G.L. e di lesioni personali gravi in danno del lavoratore Sa.Ro..
1.1. I predetti lavoratori, tutti dipendenti della S.r.l. T. & C., il (OMISSIS) erano rimasti vittima di un incidente avvenuto all’interno del reparto fonderia della società T., che produce acciai speciali centrifugati.
Secondo quanto accertato in sede di merito, i tre lavoratori si trovavano in prossimità alla conchiglia rotante di una delle macchine centrifughe elettricamente alimentate: erano impegnati nella fase di solidificazione del processo tecnologico di colata centrifuga verticale, attraverso cui dovevano realizzare un getto di leghe d’acciaio inossidabile. In quella fase il contenitore-conchiglia, al cui interno erano stati appena colati 361 Kg di metallo fuso alla temperatura di circa 1.600 gradi, compiva circa 480 giri al minuto, sviluppando internamente una pressione di circa 20 tonnellate e generando una notevolissima spinta dell’acciaio fuso verso l’alto, tendente a sollevare il coperchio – detto ‘flangia’ – rispetto alla sua sede. Purtroppo, a causa della deformazione e del cedimento di due dei tre dispositivi meccanici di trattenuta della flangia (costituiti da spine coniche d’acciaio), quest’ultima si sollevava creando un meato attraverso il quale in pochi istanti fuoriusciva d’improvviso e con violenza una massa di circa 270 Kg di acciaio allo stato liquido, sotto forma di pioggia incandescente; ciò generava un’onda d’urto che sbalzava via le protezioni balistiche di lamiera poste sulla conchiglia, mentre i tre operatori prossimi alla macchina rotante venivano colpiti in varie parti del corpo dal fluido schizzato fuori dalla medesima.
1.2. Rispetto al suddetto evento, si contestano al F. e allo S., in cooperazione colposa con T.G. (giudicato separatamente quale datore di lavoro e responsabile del servizio di prevenzione e protezione), i seguenti profili di colpa.
Al F., quale libero professionista esterno all’azienda (perito industriale specialista in prevenzione antinfortunistica), legato al T. da un contratto d’opera intellettuale, si addebita di non aver adeguatamente coadiuvato il datore di lavoro nella valutazione globale di tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori presenti nell’ambito del luogo di lavoro, e nella successiva elaborazione del relativo documento. In particolare, gli si rimprovera di non aver valutato i rischi derivanti dalla messa in servizio e dalle modalità di impiego dell’attrezzatura in questione, malgrado fosse stata autoprodotta e messa in servizio già da alcuni anni, senza un documento progettuale e senza la previa attestazione da parte del costruttore ( T.) della sua conformità ai requisiti essenziali di sicurezza e di salute, con dichiarazione CE ed apposizione di marcatura di conformità CE, come imposto dal regolamento ‘macchine’. Ciò nonostante si trattasse di attrezzatura estremamente pericolosa, generante il gravissimo rischio meccanico di proiezione a distanza di metallo fuso, causato da un’errata concezione del sistema di bloccaggio della flangia, per essere le spine coniche sottodimensionate rispetto alla importante pressione della massa di metallo sulla copertura. Inoltre il macchinario era dotato di protezioni balistiche laterali mobili, anzichè fisse, inadeguate allo scopo. Allo stesso modo, i lavoratori solevano indossare dispositivi di protezione individuale assolutamente inadatti rispetto al rischio causato da temperature estreme.
Allo S., quale consulente esterno all’azienda, legato al T. da un contratto d’opera intellettuale, si addebita di non aver adeguatamente coadiuvato il datore di lavoro nella elaborazione dell’attestazione della conformità CE del macchinario in questione ai requisiti essenziali di sicurezza e salute e nella elaborazione del manuale d’uso e manutenzione del medesimo. In particolare, gli si rimprovera che entrambi i predetti documenti risultavano vuoti di contenuto ed avevano un significato solo autoreferenziale.
Sulla scorta di quanto sopra, ad entrambi i professionisti si contesta, essenzialmente, di non aver segnalato le predette situazioni di rischio al datore di lavoro – il quale nel caso specifico, pur essendo anche r.s.p.p., mancava di cognizioni nella materia della prevenzione e protezione dai rischi professionali per i lavoratori -, dovendosi presumere che alla segnalazione avrebbe fatto seguito l’adozione datoriale delle debite misure prevenzionali.
La Corte di appello, conformemente a quanto statuito dal primo giudice, ha ritenuto – in estrema sintesi – la responsabilità del F. quale soggetto inserito ex contractu nella valutazione dei rischi del ciclo industriale dell’azienda, riconducendo al medesimo l’inadeguato documento di valutazione dei rischi (d.v.r.) redatto ai sensi del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 4.
Quanto alla posizione dello S. – che era stato assolto dal Tribunale in quanto era stato ritenuto che l’attività del medesimo si fosse esaurita in una attività di certificazione del macchinario e di formazione del personale, estranea alla materia della sicurezza -, la Corte territoriale, in accoglimento dell’appello proposto dalle sole parti civili, ha ritenuto che invece anch’egli fosse stato investito contrattualmente di adempimenti connessi con la sicurezza del macchinario e con la relativa materia prevenzionistica a tutela dei lavoratori.
Avverso tale sentenza propongono distinti ricorsi per cassazione, a mezzo dei difensori, gli imputati F.F. e S.M..
Il F. lamenta quanto segue.
I) Inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 589 c.p., comma 3, e conseguente erronea applicazione della disciplina in tema di prescrizione del reato e di successione delle leggi penali nel tempo.
Denuncia che erroneamente i giudici di merito hanno ritenuto l’unicità del reato ascritto al F., mentre è pacifico che si tratta di tre distinti reati (due omicidi ed una lesione personale colposi), unificati solo quoad poenam, trattandosi di un’ipotesi speciale di concorso formale di reati. Ne deriva che le cause estintive trovano applicazione in rapporto ai singoli episodi criminosi, che mantengono la loro autonomia. Osserva pertanto che i reati sono ormai estinti per prescrizione, trovando nel caso applicazione la disciplina più favorevole costituita dalla c.d. legge ex-Cirielli (n. 251/2005), nella formulazione vigente sino al momento dell’entrata in vigore del raddoppio dei termini di prescrizione per il reato di cui all’art. 589 c.p., comma 2, in forza del D.L. n. 92 del 2008, conv. in L. n. 125 del 2008.
II) Inosservanza dell’art. 468 c.p.p., comma 1, con riferimento all’esame di testi e consulenti indicati nella lista del pubblico ministero, depositata oltre il termine perentorio di sette giorni antecedenti la data fissata per il dibattimento.
Lamenta il tardivo deposito della lista testi della parte pubblica, avvenuto il 3.3.2011, rispetto alla prima udienza dibattimentale fissata dinanzi al Tribunale per il giorno 9.2.2011, e l’erroneità della motivazione con la quale la Corte territoriale ha respinto tale eccezione proposta in sede di gravame, basata sull’argomento che l’ormai avvenuta assunzione dei testi nel contraddittorio delle parti non rende inutilizzabili le relative deposizioni. Di contro, osserva che il termine di cui all’art. 468 c.p.p., comma 1, è stabilito a pena di inammissibilità, come tale deducibile in ogni stato e grado del processo e non suscettibile di sanatoria, neanche mediante acquiescenza tacita o mancata opposizione della controparte. Nè nel caso risulta che il PM sia stato rimesso in termini o che il giudice abbia ammesso tale prova testimoniale quale ‘prova contraria’ o d’ufficio ex art. 507 c.p.p..
III) Vizio di motivazione ed erronea applicazione del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 1, comma 4 ter, e art. 4, commi 1 e 2, anche in rapporto all’art. 40 c.p., comma 2, in relazione all’asserita assunzione, da parte del F., dell’obbligo di valutare il rischio concretatosi negli eventi per i quali è processo.
Rileva come le affermazioni di penale responsabilità formulate, nei confronti del ricorrente, da entrambi i giudici di merito trovano fondamento nel preteso riconoscimento, in capo a costui, dell’obbligo di valutare il rischio che si sarebbe poi concretato nell’evento lesivo e in quelli mortali oggetto del processo. Tuttavia, l’individuazione di una simile posizione di garanzia finisce per scontrarsi con i criteri di allocazione della responsabilità penale derivanti dalla normativa antinfortunistica richiamata; in ogni caso, essa non trova alcun riscontro capace di condurre o ritenere provata una simile circostanza ‘al di là di ogni ragionevole dubbio’.
Al riguardo deduce che le disposizioni (all’epoca vigenti) del D.Lgs. n. 626 del 1994, stabiliscono che le attività di valutazione dei rischi per la sicurezza dei lavoratori sono poste a carico del datore di lavoro e non sono da lui delegabili. Nel caso di specie il datore di lavoro era il T., che era anche il responsabile del servizio di prevenzione e protezione.
Quanto alla tesi per la quale il F. avrebbe assunto un qualche obbligo in relazione alla valutazione dei rischi presenti nell’azienda del T., il ricorrente sostiene che ciò non trova alcun reale riscontro con riferimento al caso concreto: in primo luogo perchè ciò non risulta da alcuna espressa pattuizione fra le parti circa i compiti affidati al F.. Sebbene la Corte territoriale affermi che il F. avesse compiti di generale consulenza proprio per la messa in sicurezza delle macchine, atteso che il T. era persona del tutto inesperta in materia prevenzionistica, una simile lettura si edifica su un compendio probatorio solamente parziale e del tutto insufficiente, in quanto asseverata esclusivamente dalle dichiarazioni rese in dibattimento dal T., soggetto originariamente coimputato del F., come tali necessitanti di riscontro esterno, nel caso insussistente.
Quanto al d.v.r. che sarebbe stato redatto dal F., il ricorrente evidenzia che la natura di tale documento è assolutamente controversa; che, inoltre, la possibilità di ascrivere tale documento al F., nel senso di ritenere costui autore di un vero e proprio d.v.r. incompleto e pertanto censurabile, è conclusione in definitiva apodittica. Trattasi, invero, di una mera check-list, utile e funzionale a svolgere l’attività di valutazione dei rischi sulla cui base redigere, poi, il vero e proprio d.v.r., secondo quanto dichiarato dai consulenti della difesa, sulle cui deposizioni la Corte di appello non ha fornito alcuna motivazione. Le stesse dichiarazioni del funzionario dell’ASL Barezzi, che aveva affermato il carattere generico di tale documento, supportava la conclusione che esso fosse una mera check-list, antecedente e funzionale all’elaborazione di un vero e proprio d.v.r.. Quanto poi alla individuazione dell’autore di tale documento, mai sottoscritto dal F., osserva che la stessa dicitura iniziale contenuta nello stesso individua il F. quale mero consulente con il quale sarebbero stati adottati ‘I criteri di analisi della valutazione dei rischi’, con compiti quindi di assistenza nella individuazione dei criteri su cui la valutazione dei rischi vera e propria si sarebbe dovuta fondare, ad ulteriore conferma che si tratta di linee guida e non del documento effettivo.
Deduce che un soggetto estraneo all’organizzazione aziendale a cui sia affidata una generica consulenza non possa essere chiamato a condividere la generale responsabilità del datore di lavoro. Nessun dato contrattuale depone nel senso che al F. fosse stato affidato l’ambito della messa in sicurezza delle macchine che consentono di colare il metallo fuso, con compiti specifici di redazione di un adeguato d.v.r. Nè risulta una delega espressa in tal senso. Inoltre, la valutazione dei rischi specifici della macchina centrifuga risulta svolta da soggetti diversi dal F.. Di qui l’apoditticità dell’inferenza dei giudici bolognesi, secondo cui il T., avvalendosi di consulenti esterni (tra cui il F.), avrebbe demandato agli stessi un obbligo permanente di adottare misure necessarie per la sicurezza e la salute dei lavoratori.
IV) Erronea applicazione dell’art. 41 c.p., con riguardo all’interruzione del nesso causale tra la condotta del F. e gli eventi contestati. Inosservanza delle norme in tema di responsabilità colposa ex art. 43 c.p..
Deduce che il prevenuto ha fornito al T. delle linee guida in relazione agli approfondimenti ed agli accertamenti da svolgere ai fini della valutazione e della redazione del documento D.Lgs. n. 626 del 1994, ex art. 4, adempiendo in modo puntuale all’attività di consulenza richiestagli. Il mancato o insufficiente svolgimento delle verifiche assume valenza di causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento.
Rileva che anche partendo dal diverso presupposto che il F. abbia fornito al T. un vero d.v.r., tuttavia inadeguato rispetto alle attività svolte nell’azienda, il nesso di causalità risulterebbe comunque interrotto. Infatti, atteso che il preteso d.v.r. sarebbe relativo alla valutazione dei rischi in generale presenti nell’azienda e non di quelli concernenti la specifica macchina centrifuga, rileva come il sinistro verificatosi si connoti per la propria abnormità rispetto all’attività che sarebbe stata richiesta al F., attenendo alla progettazione e realizzazione della macchina.
Deduce, inoltre, che il F. non verserebbe comunque in colpa rispetto al sinistro, avuto riguardo al fatto che altri avevano progettato e costruito il macchinario e altri avevano proceduto alla specifica attività di verifica dei rischi ad esso riconducibili. Nè è emersa alcuna evidenza che il F. fosse stato portato a conoscenza di eventuali problemi di tenuta delle spine coniche.
V) Travisamento della prova in ordine alla natura del documento erroneamente inteso come d.v.r. D.Lgs. n. 626 del 1994, ex art. 4, alla sua riconducibilità come tale al F., al coinvolgimento del medesimo nella valutazione dei rischi della macchina centrifuga da cui è scaturito il sinistro.
Deduce che i giudici abbiano pretermesso ogni considerazione di elementi probatori emersi.in ordine al fondamentale aspetto della natura da riconoscere al c.d. documento di valutazione dei rischi, con particolare riguardo a quanto riferito dai consulenti della difesa Fa. e B., che ne hanno escluso tale natura, e rispetto ai quali la Corte territoriale nulla ha osservato.
Sulla riconducibilità di tale documento al F., deduce che esso non risulta sottoscritto dal medesimo e costui viene indicato solo come consulente interpellato per la individuazione dei criteri sulla cui base sarebbe poi stata effettuata la verifica dei rischi.
Neanche risulta agli atti che il F. sia stato incaricato di regolarizzare la macchina centrifuga per la sicurezza, visto che l’analisi dei rischi del macchinario risulta effettuato e sottoscritto da soggetti diversi dal F. ( T. e A.).
VI) Vizio di motivazione con riferimento alla valutazione del grado di colpa ascrivibile al F. e del conseguente quantum di pena inflitta al medesimo.
Deduce che l’affermazione contenuta in sentenza secondo cui sarebbe marcato il grado di colpa del F. in quanto il T. era persona del tutto inesperta in materia di prevenzione, è destituita di fondamento, trattandosi di soggetto che ricopriva he il ruolo di r.s.p.p., per cui è richiesta la frequenza di apposito corso di formazione. Talchè, un simile dato finisce per inficiare la valutazione espressa dalla Corte di appello in ordine al disvalore che connoterebbe la condotta del F., con le connesse conseguenze in punto di valutazione circa la congruità del trattamento sanzionatorio.
Lo S. lamenta quanto segue.
I) Erronea applicazione della legge penale in relazione al D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 28, e art. 31, comma 3, e in relazione al D.P.R. n. 495 del 1996, c.d. ‘Regolamento macchine’.
Lamenta che la Corte territoriale abbia ritenuto, erroneamente, l’obbligo di sicurezza del datore di lavoro del tutto sovrapponibile a quello del progettista e costruttore di macchine. Le critiche mosse al T., infatti, al di là del suo ruolo datoriale, attengono al suo ruolo di progettista e costruttore della macchina centrifuga coinvolta nell’incidente. Il regolamento macchine prescrive che il fabbricante deve effettuare un’analisi dei rischi concernenti la sua macchina, e deve progettarla e costruirla tenendo presente l’analisi. Ne discende come non sia possibile ritenere che la legge abbia duplicato la posizione di garanzia, tipica del costruttore-progettista, verso altri soggetti, sulla generica base della qualifica di consulente esterno per la sicurezza. La valutazione dei rischi di cui all’art. 28 cit. deve ricercare tutti i rischi, ma sicuramente non quelli dei quali non sia possibile ‘apprezzarne la sussistenza con l’ordinaria diligenza’.
L’erronea applicazione della legge penale discende, pertanto, dall’avere sovrapposto le competenze, in termini di analisi dei rischi, del progettista a quelle del r.s.p.p., che può limitarsi a prendere atto soltanto dei rischi di una macchina immediatamente percepibili, mentre nel caso il T. non si era reso conto della inadeguatezza delle ‘spine coniche di fissaggio’ da lui stesso costruite.
Lo S., nella sua qualità di consulente esterno della sicurezza, non aveva alcun obbligo di verificare l’idoneità delle ‘spine coniche di fissaggio’ e, tanto meno, di accorgersi della loro inidoneità ‘a occhio’, di rivisitare la macchina in tutti i suoi aspetti, se non mediante un esplicito incarico in tal senso da parte del T..
Rileva che è privo di riscontro il convincimento della Corte territoriale che la deformazione delle spine coniche durante l’uso fosse la conseguenza della loro inadeguatezza sotto il profilo del calibro. Non risulta inoltre provato che T. si fosse rivolto ai consulenti esterni perchè si era reso conto della inidoneità delle spine coniche di fissaggio, nè che tale problematica sia stata comunicata agli stessi.
A proposito della marcatura CE e della redazione del manuale d’uso della macchina, il ricorrente osserva che si tratta di adempimenti che non avrebbero consentito di prendere atto del difetto delle spine coniche di fissaggio e comunque non connessi con la sicurezza della centrifuga in termini progettuali.
II) Vizio di motivazione in relazione alle contestazioni formulate nei confronti di S. di avere coadiuvato il datore di lavoro nella elaborazione dell’attestazione di conformità CE del macchinario ai requisiti essenziali di sicurezza (RES), di avere elaborato il manuale d’uso e manutenzione della macchina e il documento relativo alle soluzioni adottare per il rispetto dei requisiti essenziali di sicurezza e salute.
Deduce che il giudice di primo grado, sulla base della documentazione e delle testimonianze acquisite, aveva attribuito al ricorrente una mera attività di consulenza per l’ottenimento del certificato di qualità EN ISO. La Corte di appello invece, senza confutare le argomentazioni del primo giudice, rileva che la paternità di S. del documento RES derivi dal documento datato 2.8.2002, nel quale si fa riferimento alla analisi dei rischi e risposta ai requisiti essenziali di sicurezza per la macchina centrifuga. Ma al documento in questione non hanno fatto seguito prove sulla effettiva attuazione del programma contenuto in quel documento. In conclusione, S., non essendo il progettista della macchina non avrebbe potuto entrare nel merito della corretta progettazione delle spine coniche di fissaggio.
Con riferimento alla elaborazione dell’attestazione di conformità CE del macchinario, il giudice di primo grado aveva escluso la sua riferibilità allo S. in quanto il consulente tecnico del PM rilevava come in concreto la macchina centrifuga ne fosse priva. La Corte di appello, lungi dal confutare tale argomentazione, sostiene addirittura che la riconducibilità del documento allo S. derivi dalle dichiarazioni rese in dibattimento dal consulente della difesa arch. Ca..
Con riferimento al manuale d’uso e manutenzione della macchina, il giudice di primo grado aveva escluso la sua riferibilità a S., avendo lo stesso T. affermato che la provenienza del documento era interna all’azienda. La Corte di appello, di contro, richiama la testimonianza di Ca. e le dichiarazioni del T., non sicure sul punto. Peraltro il manuale, in quanto documento differente dalla progettazione di un macchinario, non entra sicuramente nel merito delle scelte progettuali, e quindi di dimensionamento dei componenti della macchina come le spine coniche di fissaggio. S. è stato l’autore del solo fascicolo tecnico, da intendersi come mero contenitore di tutti gli altri documenti in precedenza redatti da altri soggetti. Nè risulta dimostrato il nesso di causalità tra le condotte omissive di cui si discute e l’evento.
VI) Denuncia la violazione dei principi in tema di motivazione rafforzata e del canone di giudizio ‘al di là di ogni ragionevole dubbio’.
Deduce il vizio di motivazione della sentenza impugnata, che insinua il sospetto del mancato superamento del confine del ‘ragionevole dubbio’, in quanto non appare delineata con la dovuta certezza la riferibilità a S. della redazione dei documenti contestati, attribuendogli una sorta di responsabilità oggettiva ed un’assertiva sussistenza del nesso causale tra la condotta contestata e l’evento.
Osserva che non si può imputare allo S. una posizione di garanzia, rectius un dovere di gestione di questo specifico rischio derivante dal sottodimensionamento delle spine coniche di fissaggio della centrifuga, in quanto non rientrante nella sfera del rischio che questi era stato chiamato a governare. Non era suo compito individuare la presenza di vizi occulti di progettazione.
Motivi della decisione
Sul ricorso di F.F. 1. Il primo motivo, con il quale si deduce l’inosservanza e l’erronea applicazione dell’art. 589 c.p., comma 3, e la conseguente erronea applicazione della disciplina in tema di prescrizione del reato e di successione delle leggi penali nel tempo, è infondato.
Esso si fonda sull’erroneo presupposto che la disciplina più favorevole, costituita dalla L. n. 251 del 2005 (c.d. ex-Cirielli), nella formulazione vigente sino al momento dell’entrata in vigore del D.L. n. 92 del 2008 (conv. nella L. n. 125 del 2008), non prevedesse il raddoppio dei termini di prescrizione per il reato di cui all’art. 589 c.p., comma 2.
Non è così.
La citata modifica del 2008 ha solo aumentato la pena edittale del reato di omicidio colposo e aggiunto, all’art. 157 c.p., l’ipotesi dell’art. 589 c.p., comma 4, ai fini del raddoppio dei termini di prescrizione. Di contro, per la fattispecie di cui all’art. 589 c.p., comma 2, (omicidio colposo aggravato dalla violazione della normativa antinfortunistica) ha sempre operato il raddoppio dei termini di prescrizione, sin dalla originaria emissione della legge ex-Cirielli. Ne discende che per tale ipotesi di reato il termine massimo di prescrizione è sempre stato di 15 anni.
E’ poi vero che al F. risultano contestati tre distinti reati costituiti da due episodi di omicidio colposo (in danno dei lavoratori C. e G.) e da un episodio di lesioni personali colpose gravi nei confronti del Sa., unificati in concorso formale ai sensi dell’art. 589 c.p., comma 3 (oggi comma 4); sicchè, quantomeno per il delitto di lesioni colpose di cui all’art. 590 c.p., sarebbe ormai intervenuta la prescrizione, stante il termine massimo pari a sette anni e mezzo previsto per tale ipotesi di reato. Tuttavia, non si ritiene in questa sede di dover pronunciare declaratoria di estinzione del predetto reato, in ragione di quanto si dirà nel prosieguo della trattazione in merito alla posizione di responsabilità del F..
E’ parimenti infondato il secondo motivo, con il quale si deduce l’inosservanza dell’art. 468 c.p.p., comma 1, con riferimento all’esame di testi e consulenti indicati nella lista tardivamente depositata dal pubblico ministero.
Sulla questione, la prevalente giurisprudenza della Corte di cassazione ritiene comunque utilizzabile la prova, tenuto conto dei poteri attribuibili al giudice di ammissione ex officio delle prove ritenute rilevanti ai fini della decisione. Nel caso di specie, è pacifico che le prove orali di cui si tratta sono state ammesse ed acquisite dal giudice in dibattimento. Solo in sede di appello ne è stata eccepita la inammissibilità. Ma una volta assunte, tali prove non possono essere considerate inutilizzabili, posto che l’art. 507 c.p.p., consente al giudice di assumere d’ufficio anche prove irregolarmente indicate dalle parti, ed in ogni caso non sussiste un divieto di assunzione che possa attivare la sanzione di inutilizzabilità prevista dall’art. 191 c.p.p. (cfr. Sez. 2, n. 31882 del 30/06/2016, Cicconetti, Rv. 26750501; Sez. 5, n. 8394 del 02/10/2013 – dep. 2014, Tardiota, Rv. 25904901; Sez. 5, n. 15325 del 10/02/2010, Cascio, Rv. 24687301).
Il terzo motivo, piuttosto articolato, con il quale si deduce il vizio di motivazione e l’erronea applicazione del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 1, comma 4 ter, e art. 4, commi 1 e 2, anche in rapporto all’art. 40 c.p., comma 2, in relazione all’asserita assunzione, da parte del F., dell’obbligo di valutare il rischio concretatosi negli eventi per i quali è processo, è fondato.
Al riguardo, si osserva, in sintesi, che dalla lettura della sentenza impugnata si ricava che la posizione del F. è stata sostanzialmente equiparata a quella del datore di lavoro, attribuendo al prevenuto la peculiare posizione di un vero e proprio ‘garante di fatto’ a tutela dei lavoratori, senza però che la Corte territoriale abbia fornito in motivazione un ragionamento probatorio adeguato ed idoneo a specificare le esatte mansioni attribuite al F. e le modalità di effettivo inserimento del medesimo nella struttura aziendale, nè tantomeno la sicura incidenza della sua asserita condotta omissiva nella verificazione dell’evento.
La sentenza impugnata muove da apodittiche affermazioni in ordine alla posizione di garanzia del F. – che in verità risulta pacificamente un consulente esterno all’azienda – e non offre, nel suo percorso argomentativo, adeguati elementi di riscontro che consentano di avere contezza della effettiva estensione oggettiva dell’incarico affidato al medesimo da parte del datore di lavoro, in maniera tale da poterlo considerare, in luogo di un semplice consulente esterno, un vero e proprio titolare, di fatto, di una specifica posizione di garanzia, come sembra evincersi dall’argomentare della Corte di appello. In effetti, la sentenza impugnata delinea la posizione del F. in termini di longa manus del datore di lavoro, con particolare riguardo a quanto a lui addebitato in ordine alla inadeguata valutazione dei rischi da cui sono derivati gli eventi letali per cui è processo, ma lo fa con argomentazioni apodittiche e contraddittorie.
In termini generali, sarà utile ricordare che, sulla base della normativa di settore e per giurisprudenza costante, è il datore di lavoro ad essere il primo destinatario del generale obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c., in quanto garante dell’incolumità fisica dei prestatori di lavoro (Sez. 4, n. 4361 del 21 ottobre 2014, Ottino, Rv. 26320001); è sempre il datore di lavoro che è tenuto, a norma del D.Lgs. n. 626 del 1994, artt. 3 e 4, (oggi meglio delineati dal D.Lgs. n. 81 del 2008, artt. 17 e 18), alla redazione del documento di valutazione dei rischi (Sez. 4, n. 45808 del 27 giugno 2017, Catrambone ed altro, Rv. 27107901), del piano operativo di sicurezza (Sez. 4, n. 31304 del 19 aprile 2013, Giorgi, Rv. 25595301), nonchè alla nomina del responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP). Si tratta di obblighi non delegabili, tranne che in presenza di rischi particolarmente complessi e specifici che richiedano la presenza di un soggetto altamente specializzato. Ad ogni modo, il conferimento a terzi della delega relativa alla redazione dei suddetti documenti non esonera il datore di lavoro dall’obbligo di verificarne l’adeguatezza e l’efficacia (Sez. 4, n. 27295 del 2 dicembre 2016, Furlan, Rv. 27035501; Sez. 4, n. 22147 del 11 febbraio 2016, Morini, Rv. 26685901). E’ inoltre sempre sul datore di lavoro che grava il fondamentale obbligo di formazione ed informazione dei lavoratori (Sez. 4, n. 39765 del 19 maggio 2015, Vallani, Rv. 26517801; Sez. 4, n. 21242 del 12 febbraio 2014, Nogherot, Rv. 25921901).
In ambito aziendale sono poi individuabili altre figure destinatarie della normativa prevenzionistica, e come tali titolari di distinte posizioni di garanzia in quanto incarnano distinte funzioni e diversi livelli di responsabilità organizzativa e gestionale.
Abbiamo così il dirigente, che costituisce il livello di responsabilità intermedio e che è tenuto a cooperare con il datore di lavoro nell’assicurare l’osservanza della disciplina legale nel suo complesso; trattasi di ruolo conformato ai poteri gestionali di cui dispone concretamente, in quanto ciò che rileva non è solo e non tanto la qualifica astratta, ma anche e soprattutto la funzione assegnata e svolta.
Il preposto, infine, è colui che sovraintende alle attività, attua le direttive ricevute controllandone l’esecuzione, sulla base e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell’incarico.
Si tratta di definizioni di carattere generale che subiscono specificazioni in relazione a diversi fattori, quali il settore di attività, la conformazione giuridica dell’azienda, la sua concreta organizzazione, le sue dimensioni.
E’ evidente che in un’organizzazione di qualche complessità vi siano diverse persone, con diverse competenze, chiamate a ricoprire i ruoli in questione. Queste considerazioni di principio evidenziano che nell’ambito dello stesso organismo può riscontrarsi la presenza di molteplici figure di garanti. Ciò suggerisce che l’individuazione della responsabilità penale passa attraverso una accurata analisi delle diverse sfere di competenza gestionale ed organizzativa all’interno di ciascuna istituzione. Dunque, rilevano da un lato le categorie giuridiche, i modelli di agente, dall’altro i concreti ruoli esercitati da ciascuno. Si tratta, in breve, di una ricognizione essenziale per un’imputazione che voglia essere personalizzata, in conformità ai sommi principi che governano l’ordinamento penale; ciò al fine di evitare l’indiscriminata, quasi automatica attribuzione dell’illecito a diversi soggetti (si tratta di considerazioni contenute nella motivazione della fondamentale sentenza delle Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn e altri).
La sentenza impugnata non si è attenuta a tali fondamentali principi di imputazione oggettiva del reato omissivo improprio derivante da colpa, che richiede una accurata e specifica individuazione delle concrete mansioni e competenze attribuite al soggetto individuato come garante, in maniera tale da poterne affermare la responsabilità penale per non aver impedito l’evento.
5.1. Il ragionamento della Corte territoriale parte dal presupposto che l’evento letale sia stato principalmente causato dal sottodimensionamento delle tre spine coniche destinate alla tenuta della copertura della macchina centrifuga realizzata dal T. (datore di lavoro). Tali spine, durante le lavorazioni, si piegavano saltuariamente con l’andare del tempo, per cui venivano di tanto in tanto sostituite. Il T. era ben consapevole di tale problema, visto che anche lui era solito lavorare presso le macchine. Ne desume la Corte, del tutto congetturalmente, che tale problematica sia stata comunicata ai consulenti. E’ comunque pacifico che la macchina venne progettata e messa in opera dallo stesso T., privo di titoli di studio comprovanti conoscenze tecniche professionali relative alla fonderia in generale o alla colata centrifuga verticale in particolare, sicchè la Corte ribadisce che le gravi anomalie e carenze strutturali della macchina e del suo sistema di bloccaggio siano da ascrivere principalmente al T. stesso, che la ideò, progettò e realizzò in maniera del tutto empirica.
5.2. Da tali presupposti, del tutto condivisibili, la sentenza impugnata, passando a valutare la posizione del F., in maniera del tutto apodittica e contraddittoria afferma perentoriamente che costui, pur essendo pacificamente un consulente esterno incaricato di collaborare alla valutazione dei rischi ai sensi del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 4, avrebbe potuto e dovuto ‘entrare nel merito delle scelte progettuali di una macchina utensile’ e avrebbe avuto ‘l’obbligo giuridico di rivedere un progetto realizzato da altri, e valutare se esso progetto risulti adeguato in termini di sicurezza’. Tutto ciò in funzione del fatto che il F. ‘fosse in collaborazione con il T. da molti anni (più di dieci) e quindi in un’azienda – tra l’altro non particolarmente grande – ed ha certamente avuto modo di visionare tutta la strumentazione ed i macchinari della produzione’. Ne deduce che se un soggetto, come il F., ‘si inserisce ex lege o ex contractu nella valutazione dei rischi del ciclo industriale e questo è comunque avviato ed in atto (…) non è esente da (co)responsabilità’.
Si tratta di passaggi argomentativi che si rivelano assolutamente apodittici e congetturali, poichè non spiegano, in concreto, sulla base di quali elementi specifici si debba ritenere che la posizione di consulente esterno del F., ai fini della valutazione dei rischi aziendali, imponesse al medesimo non soltanto di coadiuvare il datore di lavoro in tale attività finalizzata alla redazione del documento di valutazione dei rischi – il cui obbligo, va qui ribadito, ricade interamente sul datore di lavoro -, ma anche di entrare nel dettaglio delle caratteristiche progettuali della macchina centrifuga, con specifico onere di revisionare l’intero progetto al fine di valutarne le eventuali falle in termini di sicurezza.
5.3. E’ poi del tutto inaccettabile e vuota di significato l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui l’inserimento di un qualsiasi soggetto nella valutazione dei rischi del ciclo industriale non lo esenta da corresponsabilità. In linea generale, avvalersi di consulenti non implica necessariamente il trasferimento degli obblighi di protezione dal datore di lavoro ai soggetti esterni all’azienda, come sembra erroneamente affermare la Corte di appello: semmai è sempre il datore di lavoro (assistito dal r.s.p.p., che nel caso coincidono) che è tenuto per legge ad adottare le opportune misure precauzionali. Si deve, piuttosto, qui ribadire che i principi di imputazione oggettiva e soggettiva del reato colposo commissivo mediante omissione impongono di esaminare in maniera accurata le modalità di inserimento e le specifiche attribuzioni del soggetto all’interno del ciclo aziendale, al fine di delinearne una eventuale posizione di responsabilità quale soggetto garante del bene tutelato.
Nel caso di specie la Corte territoriale, del tutto contraddittoriamente, pur riconoscendo che al F. non risulta attribuita alcuna delega in materia di sicurezza, desume la sua posizione di ‘garante di fatto’ sulla base di ‘una consulenza, sia pure generalizzata’, in relazione alla messa in sicurezza delle macchine. Tuttavia, di tale ‘consulenza generalizzata’, non è dato evincere dalla sentenza impugnata – alcun contenuto effettivo e specifico. In altri termini, non si ha contezza degli esatti compiti contrattualmente attribuiti al consulente F. (ma il discorso vale anche per lo S., su cui v. infra), in assenza di una pattuizione espressa fra le parti. Il convincimento della Corte di merito si basa esclusivamente sulle generiche dichiarazioni del T. (coimputato le cui dichiarazioni necessiterebbero di riscontri), secondo cui il F. ‘si occupava della valutazione dei rischi inerente tutta l’azienda’.
Appare evidente che una simile motivazione non soddisfa i requisiti richiesti dalla giurisprudenza di legittimità ai fini della esatta individuazione di una posizione di garanzia in capo al F., che viene desunta in termini assolutamente apodittici e congetturali.
5.4. Si deve qui ribadire che, in tema di reati omissivi colposi, la posizione di garanzia – che può essere generata da investitura formale o dall’esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante – deve essere individuata accertando in concreto la effettiva titolarità del potere dovere di gestione della fonte di pericolo, alla luce delle specifiche circostanze in cui si è verificato il sinistro (Sez. 4, n. 19029 del 01/12/2016 – dep. 2017, De Nardis, Rv. 26960201).
5.5. La sentenza impugnata offre un percorso motivazionale che non ricostruisce in maniera accurata la fonte ed il contenuto della ritenuta posizione di garanzia del consulente esterno all’azienda, nè la sua eventuale cooperazione colposa, non avendo individuato in maniera specifica l’estensione oggettiva del suo incarico, al di là di generiche affermazioni che stridono con il canone di giudizio ‘al di là di ogni ragionevole dubbio’. Il ragionamento della Corte di appello, che estende automaticamente tale posizione al consulente, è inaccettabile e contrario alle disposizioni legislative in materia antinfortunistica, che individuano nel datore di lavoro, nel r.s.p.p. ed eventualmente nei dirigenti e soggetti preposti interni all’azienda i garanti dei rischi dei lavoratori e gli unici destinatari della normativa prevenzionistica.
Ciò non significa che un consulente esterno non possa essere chiamato a rispondere di eventuali comportamenti colposi che abbiano contribuito, in cooperazione colposa ex art. 113 c.p., con le figure dianzi indicate principali destinatarie degli obblighi prevenzionistici in materia di infortuni sul lavoro – all’aggravamento del rischio, fornendo un contributo causale giuridicamente apprezzabile alla realizzazione dell’evento (Sez. 4, n. 43083 del 03/10/2013, Redondi e altro, Rv. 25719701). Occorre, però, che una simile condotta di cooperazione colposa sia correttamente analizzata e specificamente individuata sulla base di un ragionamento probatorio che dia adeguato conto, al di là di ogni ragionevole dubbio, della sua esistenza e riconducibilità al prevenuto in termini di prevedibilità e prevenibilità dell’evento.
5.6. Da quanto sopra discende che la sentenza impugnata deve essere annullata nei confronti del F., con rinvio per nuovo giudizio alla competente Corte di merito che si atterrà ai principi sopra indicati. In tale statuizione rimangono assorbiti i restanti motivi di censura.
Sul ricorso di S.M..
I motivi di ricorso, che possono essere trattati congiuntamente in quanto fra loro strettamente connessi, sono fondati e meritevoli di accoglimento sulla base delle seguenti considerazioni.
Si devono, intanto, richiamare anche per lo S. le considerazioni già svolte per il F. in merito alla necessità, nel giudizio di responsabilità penale, di ricostruire in maniera accurata la posizione di garanzia a lui attribuita alla luce di elementi concreti e specifici che consentano di ricostruire le sue esatte mansioni e competenze nell’ambito della valutazione dei rischi aziendali che hanno contribuito a determinare l’evento lesivo per cui si procede; trattasi di operazione valutativa che anche per lo S. è stata svolta in maniera largamente carente e inadeguata nella sentenza impugnata.
Con specifico riferimento allo S., il ragionamento probatorio della Corte di merito è ancora più carente di quello svolto per il F., e foriero di conseguenze ben più gravi, in termini di vizio motivazionale deducibile in cassazione, rispetto a quanto statuito nei confronti del F.. Ciò in quanto lo S., a differenza del F., era stato assolto dal giudice di primo grado, sulla base di argomentazioni che la sentenza di appello omette di confutare in maniera specifica, limitandosi sostanzialmente a ricondurre l’attività del consulente in un ambito di generica tutela della sicurezza dei lavoratori, senza che sia dato comprendere quali sarebbero stati gli esatti obblighi a carico dello S. – a tutela dei lavoratori – derivanti dalla attività di consulenza prestata in favore del T..
Al riguardo, occorre qui ribadire il principio enunciato da lungo tempo dalla giurisprudenza della Corte di cassazione (sin da Sez. 1, n. 1381 del 16/12/1994 – dep. 1995, Felice ed altro, Rv. 20148701), secondo il quale la decisione del giudice di appello, che comporti totale riforma della sentenza di primo grado, impone la dimostrazione dell’incompletezza o della non correttezza ovvero dell’incoerenza delle relative argomentazioni, con rigorosa e penetrante analisi critica seguita da completa e convincente dimostrazione che, sovrapponendosi in toto a quella del primo giudice, dia ragione delle scelte operate e del privilegio accordato ad elementi di prova diversi o diversamente valutati. Inoltre, il giudice di appello, allorchè prospetti ipotesi ricostruttive del fatto alternative a quelle ritenute dal giudice di prima istanza, non può limitarsi a formulare una mera possibilità, come esercitazione astratta del ragionamento, disancorata dalla realtà processuale, ma deve riferirsi a concreti elementi processualmente acquisiti, posti a fondamento di un iter logico che conduca, senza affermazioni apodittiche, a soluzioni divergenti da quelle prospettate da altro giudice di merito.
In buona sostanza, la totale riforma della sentenza di primo grado impone al giudice di appello di raffrontare il proprio decisum, non solo con le censure dell’appellante, ma anche con il giudizio espresso dal primo giudice, che si compone sia della ricostruzione del fatto che della valutazione complessiva degli elementi probatori, nel loro valore intrinseco e nelle connessioni tra essi esistenti.
Sul tema in disamina la giurisprudenza della Suprema Corte ha elaborato il concetto di ‘motivazione rafforzata’, per esprimere, con la forza semantica del lemma, il più intenso obbligo di diligenza richiesto al giudice di secondo grado, sia nel caso di pronuncia di condanna in seguito ad assoluzione pronunciata dal primo giudice (Sez. 6, n. 10130 del 20/01/2015, Marsili, Rv. 26290701; Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 23167901), sia nel caso di pronuncia di assoluzione a seguito di precedente sentenza di condanna (Sez. 3, n. 29253 del 05/05/2017, P.C. in proc. C, Rv. 27014901; Sez. 4, n. 4222 del 20/12/2016 – dep. 2017, P.C. in proc. Mangano e altro, Rv. 26894801; anche se nel caso di ribaltamento assolutorio in appello non mancano voci dissonanti: cfr. Sez. 3, n. 46455 del 17/02/2017, Pg e pc in proc. M, Rv. 27111001).
Si tratta di giurisprudenza che è andata successivamente sviluppandosi alla luce della lettura della innovazione introdotta nel 2006 (L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 5) con la modifica dell’art. 533 c.p.p., e l’introduzione del canone dell”al di là di ogni ragionevole dubbio’. Si ritiene che esso implichi che, in mancanza di elementi sopravvenuti, la valutazione peggiorativa compiuta nel processo d’appello sullo stesso materiale probatorio acquisito in primo grado, debba essere sorretta da argomenti dirimenti, tali da rendere evidente l’errore della sentenza assolutoria, la quale deve rivelarsi, rispetto a quella d’appello, non più razionalmente sostenibile, per essere stato del tutto fugato ogni ragionevole dubbio sull’affermazione di colpevolezza. Perchè possa dirsi rispettato il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio non è, dunque, più sufficiente una mera diversa valutazione caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, occorrendo invece una forza persuasiva superiore, tale da far cadere ‘ogni ragionevole dubbio’, in qualche modo intrinseco alla stessa situazione di contrasto. Ciò anche sulla scorta del principio secondo cui la condanna presuppone la certezza della colpevolezza, mentre l’assoluzione non presuppone la certezza dell’innocenza, ma la mera non certezza della colpevolezza (Sez. 6, n. 40159 del 03/11/2011, Galante, Rv. 25106601).
Alla luce di quanto sopra si deve osservare che le doglianze del ricorrente colgono nel segno laddove evidenziano che l’impugnata sentenza, nel riformare in condanna – sia pure ai soli effetti civili – la sentenza assolutoria di primo grado, non ha rispettato l’onere motivazionale di supportare la decisione con un corredo argomentativo rispettoso dei sopra delineati principi in tema di motivazione rafforzata.
9.1. La pronuncia del primo giudice aveva, in sintesi, motivatamente evidenziato che l’incarico dello S. per la ditta del T. aveva avuto luogo per circa un anno, dal febbraio 2002 al marzo 2003; il suo ruolo era stato quello di predisporre la documentazione tecnica che afferisce alla macchina centrifuga in relazione al processo di certificazione di qualità della stessa per l’ottenimento del certificato di qualità EN ISO. Quindi un’attività di consulenza rivolta essenzialmente al mantenimento e miglioramento dei sistemi di qualità, attività affatto diversa rispetto alla consulenza o alla collaborazione in materia di sicurezza per i lavoratori.
9.2. La Corte di appello ha completamente ribaltato tale prospettiva, inserendo l’attività dello S., anche in questo caso del tutto apoditticamente, in un più generale processo di ‘messa a norma’ del macchinario avvenuto, con singolare rovesciamento dei tempi fisiologici di vita della macchina, in epoca successiva alla messa in funzione del macchinario medesimo; sicchè la ‘presa di coscienza’ del T. avrebbe ineluttabilmente coinvolto chiunque avesse ricevuto un qualsiasi incarico diretto a tale singolare ‘regolarizzazione’ ex post della macchina. Secondo la Corte distrettuale, anche lo S. avrebbe dovuto preoccuparsi di individuare i dispositivi di protezione più adatti per la sicurezza dei lavoratori, di fatto sostituendosi al datore di lavoro nella verifica completa delle caratteristiche progettuali del macchinario.
Come già riscontrato per il F., anche allo S. viene attribuito uno specifico ruolo di controllo e di verifica della sicurezza del macchinario che non è dato evincere da alcun elemento specifico indicato in sentenza; la responsabilità del consulente viene desunta, per lo più, da generiche affermazioni che attengono, più correttamente, alla posizione di responsabilità del datore di lavoro in materia di sicurezza, salvo ricondurre apoditticamente anche ai consulenti del medesimo una posizione di corresponsabilità che, però, è affermata in maniera astratta e non è sorretta, nel percorso argomentativo dei giudici di appello, da dati concreti, idonei a fondare in maniera congrua e logica, oltre che corretta in diritto, l’asserita corresponsabilità del consulente esterno.
La sentenza impugnata ricava essenzialmente la responsabilità dello S. dalla sua posizione di consulente esterno chiamato dal datore di lavoro ad occuparsi dei profili di certificazione di qualità del macchinario, profili che, in quanto in qualche modo connessi con la problematica della sicurezza e pericolosità del macchinario, imporrebbero anche al consulente, così come al datore di lavoro, di salvaguardare i lavoratori da tutti i possibili pericoli e rischi derivanti dall’utilizzo del macchinario medesimo.
Si tratta, come è evidente, di un’argomentazione che, oltre ad essere assolutamente generica ed apparente, contiene chiari errori in diritto, non potendo ricavarsi da un soggetto esterno all’azienda, che collabori con il datore di lavoro in ordine alla redazione di documentazione tecnica diretta a regolarizzare, in senso lato, il macchinario in questione, una automatica posizione di garanzia in materia antinfortunistica che si aggiunge a quella specifica del datore di lavoro. Tutto ciò, peraltro, in totale assenza di un serio apprezzamento degli specifici profili colposi addebitabili al consulente, nell’ambito di una corretta valutazione ex ante e non ex post, come invece sembra aver fatto la Corte di appello, laddove imputa allo S. sostanzialmente di non aver adottato le necessarie misure di sicurezza, consentendo la permanenza in azienda di un macchinario pericoloso.
9.3. Sul punto, peraltro, appare corretto il ragionamento del ricorrente secondo cui la Corte territoriale confonde i rischi progettuali della macchina (nel caso non immediatamente evidenti e riconducibili al costruttore/progettista T.) con i rischi derivanti dall’uso della stessa. La sentenza impugnata non spiega adeguatamente in che modo lo S. avrebbe potuto prevedere un rischio riconducibile ad un difetto di progettazione della macchina, tanto più che, alla luce di quanto processualmente emerso, egli si era limitato a predisporre documentazione tecnica per fini completamente diversi rispetto a quelli riconducibili alla prevenzione dei rischi specifici del macchinario in questione. Sfugge, nella sostanza, nè viene spiegato dalla Corte distrettuale, il nesso esistente fra l’incarico allo S. di predisporre la documentazione tecnica per l’ottenimento della marcatura CE, con la possibilità da parte del medesimo, attraverso il detto incarico, di avere contezza dell’asserito difetto delle spine coniche di fissaggio, riguardante la sicurezza della centrifuga in termini progettuali.
In conclusione, le evidenziate lacune logico-giuridiche da cui è affetta la sentenza impugnata, che neanche è stata in grado di fornire una ‘motivazione rafforzata’ rispetto alla sentenza assolutoria del giudice di primo grado nei confronti dello S., ne comportano l’inevitabile annullamento, che deve essere disposto senza rinvio, ex art. 620 c.p.p., lett. l), in quanto appare evidente che i contrastanti esiti dei giudizi di primo e di secondo grado non consentono di pervenire ad una tranquillante e motivata sentenza di responsabilità nei confronti dello S. per i fatti a lui ascritti, rispettosa del canone di giudizio dell”al di là di ogni ragionevole dubbio’. Conseguentemente, va revocata la condanna civile nei confronti del medesimo.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di F.F. e rinvia per nuovo giudizio alla Corte d’appello di Bologna, cui demanda anche la regolamentazione delle spese tra le parti per questo giudizio di legittimità.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di S.M. e revoca le statuizioni civili
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