Qualora un giudice nazionale sia chiamato a pronunciarsi sulla condanna alle spese di un privato rimasto soccombente

Consiglio di Stato, Sezione quarta, Sentenza 13 febbraio 2020, n. 1137.

La massima estrapolata:

Qualora un giudice nazionale sia chiamato a pronunciarsi sulla condanna alle spese di un privato rimasto soccombente, in qualità di ricorrente, in una controversia in materia ambientale o, più in generale, qualora sia tenuto, come possono esserlo i giudici del Regno Unito, a prendere posizione, in una fase anteriore del procedimento, su un’eventuale limitazione dei costi che possono essere posti a carico della parte rimasta soccombente, egli deve assicurarsi del rispetto di tale requisito tenendo conto tanto dell’interesse della persona che desidera difendere i propri diritti quanto dell’interesse generale connesso alla tutela dell’ambiente; nell’ambito di tale valutazione, il giudice nazionale non può basarsi unicamente sulla situazione economica dell’interessato, ma deve altresì procedere ad un’analisi oggettiva dell’importo delle spese; peraltro, egli può tenere conto della situazione delle parti in causa, delle ragionevoli possibilità di successo del richiedente, dell’importanza della posta in gioco per il medesimo e per la tutela dell’ambiente, della complessità del diritto e della procedura applicabili, del carattere eventualmente temerario del ricorso nelle sue varie fasi nonché della sussistenza di un sistema nazionale di assistenza giurisdizionale o di un regime cautelare in materia di spese; per contro, la circostanza che l’interessato, in concreto, non sia stato dissuaso dall’esercitare la sua azione non è sufficiente, di per sé, per considerare che il procedimento non sia eccessivamente oneroso per il medesimo; infine, tale valutazione non può essere compiuta in base a criteri diversi a seconda che essa abbia luogo in esito ad un procedimento di primo grado, ad un appello o ad un’ulteriore impugnazione.

Sentenza 13 febbraio 2020, n. 1137

Data udienza 30 gennaio 2020

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Quarta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 8357 del 2017, proposto da It. No. Onlus, ed altri, tutti rappresentati e difesi dall’avvocato Ma. Ce., con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Al. Pe. in Roma, via (…);
contro
Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Cr. Ba. e El. Gi., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Fr. Gi. in Roma, via (…);
SAUP Sportello Unico Attività Produttive Associato per i Comuni di (omissis) e (omissis), ed altri, non costituiti in giudizio;
nei confronti
I.L.. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Ba. Si., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Gi. Ma. Gr. in Roma, corso (…);
Federazione Italiana Lavoratori Chimica Tessile Energia Manifatture CGIL di Bologna, in persona del segretario generale, Federazione energia, moda, chimica ed affini CISL di Bologna, in persona del segretario, Unione Italiana Lavoratori Tessile Energia e Chimica UIL di Bologna, in persona del segretario generale, rappresentate e difese dall’avvocato Al. Pi. del Foro di Bologna, ed elettivamente domiciliate presso la Segreteria del Consiglio di Stato in Roma, piazza (…);
per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia Romagna Sezione Prima n. 570 del 3 agosto 2017, resa tra le parti.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di (omissis), di I.L.. s.p.a., di Filctem Cgil Bologna, di Femca – Cisl Bologna e di Uiltec- Uil Bologna;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 30 gennaio 2020 il consigliere Roberto Proietti e uditi per le parti gli avvocati Ma. Ce., Fr. Gi. su delega dell’avvocato Cr. Ba., Ba. Si. e Fr. Am. su delega dell’avvocato Al. Pi.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1. Con ricorso allibrato al n. r.g. 261/2011 proposto dinanzi al TAR per la Emilia Romagna, It. No. – Onlus, ed altri hanno chiesto:
a) l’annullamento della delibera del Consiglio comunale di (omissis) n. 105 del 29.11.2010, avente ad oggetto “approvazione dello schema di atto di programmazione negoziata per la realizzazione di un magazzino verticale ad alta meccanizzazione ai sensi dell’art. 11 della legge n. 241/1990”;
b) l’annullamento o e/o la declaratoria di nullità dell’accordo intercorso tra il Comune di (omissis) e la società I.L.. s.r.l.
1.1. Successivamente, con un secondo ricorso, rubricato al n. r.g. 514/2014, It. No. – Onlus, ed altri, hanno chiesto l’annullamento:
a) delle delibere del Consiglio comunale di (omissis) (ora Comune di (omissis)), n. 101 e n. 102 del 19 dicembre 2013 di approvazione, rispettivamente, del piano strutturale comunale (PSC) e del Regolamento Urbanistico Edilizio (RUE) del Comune di (omissis);
b) delle delibere del Consiglio comunale di (omissis) (ora Comune di (omissis)), n. 16 e n. 17 del 25 marzo 2013, aventi ad oggetto, rispettivamente, l’adozione del PSC e del RUE in forma associata con i Comuni dell’Associazione intercomunale dell’Area bazzanese, nella parte in cui si riferiscono all’area e agli interventi oggetto dell’accordo ex art. 11 della legge n. 241/1990 ed ex art. 18 della l.r. n. 20/2000 stipulato tra il Comune di (omissis) e la società I.L.. s.r.l.;
c) ove necessario, della delibera della Giunta comunale di (omissis) n. 17 del 16 marzo 2011 di approvazione del documento preliminare del PSC in forma associata con i Comuni dell’Associazione intercomunale dell’Area bazzanese, del verbale e degli esiti della conferenza di pianificazione del 28 luglio 2011, dei verbali e dei pareri acquisiti nell’ambito del procedimento della Conferenza dei Servizi in merito al PSC e RUE in data 29.05.2013 e 11.06.2013, della delibera della Giunta provinciale di Bologna n. 398 del 26 novembre 2013;
d) della delibera del Consiglio comunale di (omissis) n. 105 del 29.11.2010, recante “approvazione dello schema di atto di programmazione negoziata per la realizzazione di un magazzino verticale ad alta meccanizzazione ai sensi dell’art. 11 della legge n. 241/90”, nonché per l’annullamento e per la declaratoria di nullità dell’accordo intercorso tra il Comune di (omissis) e la società I.L.. s.r.l.
1.2. Con un terzo ricorso, iscritto al n. r.g. 1100/2015, It. No. – Onlus, ed altri, hanno chiesto l’annullamento:
a) della deliberazione del Consiglio comunale di (omissis) n. 93 del 16.09.2015, avente ad oggetto l’approvazione della variante urbanistica, ai sensi dell’art. A 14-bis della l.r. n. 20/2000, per l’autorizzazione all’ampliamento e riqualificazione dello stabilimento I.L.. divisione IL., sito in località (omissis), Via (omissis), nonché l’approvazione del progetto, il rigetto delle osservazioni alla variante, l’autorizzazione al responsabile dell’Area Qualità Programmazione Territoriale a sottoscrivere con I.L.. la convenzione preliminarmente al rilascio dell’Autorizzazione unica;
b) ove necessario, di tutti i verbali e gli esiti della conferenza di servizi, della delibera della Giunta provinciale di Bologna n. 110 del 25.03.2014 recante valutazione positiva per gli aspetti urbanistici; della delibera della Giunta provinciale di Bologna n. 297 del 31.07.2014 (recante valutazione ambientale positiva sulla variante urbanistica ed alla VALSAT); l’Autorizzazione Unica Ambientale AUA rilasciata alla società I.L.. s.r.l. – Divisione IL. per l’impianto, destinato ad attività di produzione articoli in materiale plastico idonei al contatto con gli alimenti, ubicato nel Comune di (omissis) – località (omissis), Via (omissis), in data 13.08.2015; il parere della Commissione per la Qualità architettonica ed il paesaggio espresso nella seduta n. 06/2013 del 14.11.2013 (avente ad oggetto esame del masterplan progetto preliminare e richiesta di declassificazione edificio classificato 2A); la determinazione del responsabile del Settore qualità programmazione territoriale del Comune di (omissis) n. 532 del 7.10.2015 (di approvazione della bozza di atto di convenzione per l’attuazione di intervento unitario convenzionato di iniziativa privata per l’ampliamento e la riqualificazione dello stabilimento I.L.. divisione IL., in località (omissis), Via (omissis)); la relativa convenzione sottoscritta tra I.L.. ed il Comune di (omissis); la conclusiva automatizzazione unica n. 11/15 rilasciata il 31.10.2015 dal SUAP Associazione per i Comuni di (omissis) e (omissis) per la realizzazione degli interventi descritti nel progetto di ampliamento e riqualificazione dello stabilimento I.L.. divisione IL..
2. Con sentenza n. 570/2017, il TAR per la Emilia Romagna – dopo avere nella sostanza disatteso le plurime eccezioni del Comune di (omissis) (che ha eccepito l’inammissibilità dei ricorsi r.g.n. 261/2011 e r.g.n. 514/2014 per carenza di interesse della parte ricorrente) e di I.L.. s.p.a. (che ha eccepito l’inammissibilità e l’improcedibilità del ricorso r.g.n. 514/2014 per carenza di interesse e per sopravvenuto difetto di interesse della parte ricorrente) – ha rigettato i ricorsi (riuniti) n. 261/2011, n. 514/2014 e n. 1100/2015, ha condannato i ricorrenti al pagamento delle spese di giudizio in favore dell’Amministrazione comunale e della società I.L.. s.r.l., liquidate in Euro 5.000, oltre accessori, per ciascuno, e compensato le spese nei confronti delle associazioni sindacali intervenute ad opponendum.
3. Avverso tale sentenza, It. No. – Onlus, ed altri hanno proposto appello (rubricato al n. r.g. 8357/2017) dinanzi al Consiglio di Stato, deducendo i seguenti motivi di ricorso:
1) erroneità della sentenza per motivazione illogica ed omissiva dell’esame di decisiva documentazione agli atti sul vizio di sviamento dalla causa tipica;
2) erroneità della sentenza per violazione dell’art. 18, comma 3, l.r. n. 20/2000, motivazione illogica e carente sul vizio di incompetenza, omissione di pronuncia sulla violazione della circolare regionale; 3) erroneità della sentenza per violazione dell’art. 18, comma 3, l.r. n. 20/2000, motivazione contraddittoria e incomprensibile, omesso esame di fatti e documenti decisivi per il giudizio;
4) erroneità della sentenza per violazione dell’art. 49 d.lgs. n. 267/2000, travisamento dei fatti ed illogicità della motivazione;
5) erroneità della sentenza per carenza e illogicità della motivazione sulla censura di violazione dell’art. 18 l.r. n. 20/2000 in ordine alle ragioni di rilevante interesse pubblico;
6) manifesta erroneità in fatto della sentenza ove dichiara inammissibile la censura di violazione dell’art. 1 del regolamento del Consiglio comunale di (omissis);
7) erroneità della sentenza impugnata per travisamento dei fatti e conseguente omessa pronuncia sulla violazione dell’art. 18, comma 3, l.r. n. 20/2000;
8) erroneità della sentenza per travisamento dei fatti e omissione di pronuncia sulla censura di nullità dell’atto ex art. 21 septies della legge n. 241/1990;
9) erroneità della sentenza per travisamento, motivazione illogica e violazione dell’art. 15 del d.lgs. n. 152/2006 e dell’art. 32 della l.r. n. 20/2000;
10) grave erroneità della sentenza per falsa applicazione dell’art. A-14 bis della l.r. n. 20/2000, eccesso di potere giurisdizionale;
11) erroneità della sentenza per violazione degli artt. 11 e 31 del d.p.r. n. 380/2001, grave travisamento dei fatti e mancata valutazione della documentazione fornita in istruttoria, omissione di pronuncia;
12) erroneità della sentenza per travisamento e motivazione manifestamente illogica e conseguente parziale omissione di pronuncia sulla censura di violazione degli artt. A-14 bis e 30 della l.r. n. 20/2000, nonché dell’art. 15 del d.lgs. n. 152/2006;
13) erroneità della sentenza per travisamento e conseguente omissione di pronuncia sulla censura di inottemperanza del parere provinciale sulla V.A.S. in relazione alla prevista demolizione del “Mo. di me.”;
14) erroneità della sentenza per motivazione manifestamente illogica sulla censura di violazione dell’art. A-14 bis l.r. n. 20/2000 e travisamento dei fatti sulla conferenza di servizi successiva alla pubblicazione della proposta di variante urbanistica;
15) erroneità della sentenza per violazione dell’art. 39 del d.lgs. n. 33/2013 in relazione alle plurime carenze di pubblicità e partecipazione pubblica della procedura di variante – omissione di pronuncia; 16) illegittima e ingiusta condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio in luogo della compensazione integrale delle medesime.
3.1. I.L.. s.p.a. si è costituita in giudizio chiedendo il rigetto dell’appello e proponendo appello incidentale, mediante il quale ha affermato l’erroneità della sentenza impugnata nelle parti in cui il giudice di primo grado:
1) ha rigettato i ricorsi n. r.g. 261/2011 e n. r.g. 514/2014, anziché dichiararli inammissibili o improcedibili;
2) ha respinto il secondo motivo del ricorso n. r.g. n. 1100/2015, sulla base di una erronea rappresentazione dei fatti;
3) ha dichiarato inammissibile, anziché infondato, il primo motivo del ricorso n. r.g. 514/2014.
3.2. Il Comune di (omissis) si è costituito in giudizio e ha chiesto la reiezione del ricorso in appello e dell’appello incidentale.
3.3. La Federazione Italiana Lavoratori Chimica Tessile Energia Manifatture CGIL di Bologna, la Federazione energia, moda, chimica ed affini CISL di Bologna e l’Unione Italiana Lavoratori Tessile Energia e Chimica UIL di Bologna si sono costituite nel giudizio d’appello chiedendo il rigetto del ricorso.
3.4. All’udienza del 30 gennaio 2020 la causa è stata trattenuta per la decisione.
4. Preliminarmente, va osservato che, a cagione della proposizione dell’appello principale e di quello incidentale, è riemerso l’intero thema decidendum del giudizio di primo grado e, quindi, per ragioni di economia dei mezzi processuali e semplicità espositiva, secondo la logica affermata dalla decisione della Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 5 del 2015, il Collegio ritiene di esaminare direttamente i 3 ricorsi di primo grado (sul principio e la sua applicazione pratica, fra le tante, cfr. Sez. IV n. 1130 del 2016, Sez. V n. 5868 del 2015; Sez. V n. 5347 del 2015 che esclude in radice che tale modus procedendi possa dare corso ad un vizio revocatorio per errore di fatto).
5. Sempre in via preliminare, il Collegio accoglie l’eccezione proposta dalla Società I.L.. s.p.a. con memoria di replica del 9 gennaio 2020, con la quale è stata affermata la tardività della memoria di It. No. del 30 dicembre 2019 in quanto depositata alle ore 16.28 oltre l’orario limite delle 12.00.
5.1. Al riguardo, va considerato che l’apparente antinomia, rilevabile tra il primo ed il terzo periodo dell’art. 4, comma 4, disp. att. c.p.a., va risolta nel senso che il termine delle ore 24.00 per il deposito degli atti di parte vale solo per quegli atti processuali che non siano depositati in vista di una camera di consiglio o di un’udienza di cui sia (in quel momento) già fissata o già nota la data; invece, in presenza di una camera di consiglio o di un’udienza già fissata, il deposito effettuato oltre le ore 12.00 dell’ultimo giorno utile è inammissibile (Cons. giust. amm. sic., sez. giurisdiz., 7 giugno 2018, n. 344; Cons. Stato, sez. III, 24 maggio 2018, n. 3136).
Stante la mancanza di un chiaro sistema di preclusioni quanto alla proposizione delle eccezioni di parte, nonché quanto alla deduzione dei fatti e delle prove, la soluzione più rigorosa è quella più aderente alla lettera della legge, ove si tenga presente che i termini processuali per il deposito di atti e memorie sono generalmente ritenuti perentori e che la loro violazione è ritenuta suscettibile di essere rilevata d’ufficio. Pertanto, nel momento in cui un deposito effettuato oltre le ore 12.00 dell’ultimo giorno utile viene qualificato dalla legge come “effettuato il giorno successivo”, pare logico dedurne l’inammissibilità, ovviamente nel caso in cui il termine per il deposito di atti e memorie vada computato a ritroso. Infatti ad altri fini, in particolare ai fini del calcolo dei termini dilatori minimi per la trattazione in udienze pubbliche e o in camere di consiglio, non sembra dubbio che il deposito ad es. del ricorso introduttivo dopo le ore 12.00, ma prima delle ore 24.00, dell’ultimo giorno utile, sia perfettamente valido, secondo quanto previsto dal primo periodo del novellato art. 4, comma 4, disp. att. c.p.a.
Il profilo più critico della tesi meno rigorosa (seguita da Cons. Stato, sez. IV, 1° giugno 2018, n. 3309) si coglie nel terzo periodo del più volte menzionato art. 4, comma 4, perché una volta che si intenda escludere che esso determini l’inammissibilità dei depositi pomeridiani scadenti nell’ultimo giorno utile, si è poi costretti a ritenere che il deposito pomeridiano comporti lo slittamento dei termini successivi con le immaginabili conseguenze sullo stimolo a comportamenti opportunistici e tattiche dilatorie lesivi del valore della ragionevole durata del processo.
Si può aggiungere che appare debole anche la tesi secondo la quale l’art. 4, comma 4, terzo periodo, cit. troverebbe applicazione solo nei rari casi in cui un deposito determinerebbe, già in base ad altre disposizioni del codice del processo amministrativo, la decorrenza di un termine a difesa. Infatti, l’art. 7, d.l. 31 agosto 2016 n. 168, nell’introdurre il nuovo testo dell’art. 4, comma 4, non pospone la decorrenza iniziale dei termini a difesa al giorno successivo, ma contiene un riferimento più vago ai termini a difesa, con espressione non del tutto univoca. Alla stregua della tesi più liberale l’intervento legislativo finirebbe col risultare stravagante, perché motivato dall’intento di regolare solo ipotesi particolarissime, come quella del termine per l’istanza di fissazione dell’udienza, o ipotesi almeno in parte controverse, come quella sulla decorrenza del termine per i motivi aggiunti. Se, dunque, deve assicurarsi alla disposizione che qui interessa un effetto “utile” e coerente con i principî processuali (a partire da quello di ragionevole durata, messo seriamente in crisi dalla interpretazione più liberale), la tesi rigorosa, dalla quale discende l’inammissibilità dei depositi pomeridiani, appare più plausibile e coerente con il valore costituzionale del giusto processo.
5.2. Tuttavia, in presenza di oggettive incertezze giurisprudenziali può concedersi alla parte appellante, nel caso di specie, il beneficio della rimessione in termini per errore scusabile.
6. Ciò premesso, va rilevato che la presente vicenda scaturisce dall’adozione della delibera del Consiglio comunale di (omissis) n. 105/2010, avente ad oggetto l’approvazione dello schema di atto di programmazione negoziata, per la realizzazione di un magazzino verticale ad alta meccanizzazione, ai sensi dell’art. 11 della legge n. 241/1990.
Oggetto di detto accordo è stato la definizione delle modalità procedurali e delle tempistiche attraverso le quali I.L.. s.p.a. (già I.L.. s.r.l.) avrebbe attuato il progetto di ampliamento degli edifici e delle aree di sua proprietà, siti nel territorio del Comune di (omissis), nella prospettiva di un consolidamento e potenziamento dell’attività produttiva.
In particolare, l’intervento sarebbe consistito nella realizzazione di nuovi impianti produttivi, di servizi e di un magazzino meccanizzato alto 30 metri, nonché nella demolizione di un edificio classificato 2a, previa attivazione della procedura di declassificazione dello stesso.
Con tale accordo il Comune di (omissis) si è, a sua volta, impegnato a dare attuazione a tutte le varianti urbanistiche necessarie per la realizzazione del progetto, mentre la società si è obbligata a realizzare le necessarie opere di urbanizzazione e di infrastrutture ed a corrispondere al Comune un contributo di sostenibilità nella somma di Euro 1.500.000,00.
6.1. Successivamente, i Comuni facenti parte dell’Unione Valle del Samoggia, tra cui il Comune di (omissis), hanno deliberato, con atti dei rispettivi Consigli comunali, di istituire presso la stessa Unione dei Comuni, l’Ufficio di Piano Area Bazzanese per la gestione associata di funzioni urbanistiche.
I Comuni dell’Unione Valle del Samoggia, unitamente al Comune di (omissis) e la Provincia di Bologna, hanno poi sottoscritto un Accordo territoriale, ai sensi dell’art. 15 della l.r. n. 20/2000, per l’elaborazione in forma associata dei nuovi strumenti di pianificazione urbanistica comunale. Conseguentemente, si è avviata la procedura di formazione dei nuovi strumenti urbanistici con la predisposizione del Documento Preliminare al Piano Strutturale Comunale.
I suddetti Comuni, con rispettivi provvedimenti adottati dalle Giunte comunali, hanno approvato detto Documento Preliminare del PSC (in particolare, per quanto riguarda il Comune di (omissis), ciò è avvenuto con deliberazione n. 17 del 16.03.2011).
6.2. A questo punto la società ha presentato, ai sensi dell’art. A-14 bis l.r. n. 20/2000, allo Sportello Unico per le Attività Produttive Associato Valle del Samoggia, un’istanza (prot. n. 18064 del 26.09.2013) per l’avvio del procedimento unico con interventi edilizi, avente ad oggetto: “Variante ai sensi dell’art. A14 bis della l.r. n. 20/2000 e Autorizzazione per l’ampliamento e riqualificazione dello stabilimento I.L.. divisione IL. con ubicazione in località (omissis) via (omissis)”.
Il progetto di I.L.., in attuazione del suddetto accordo ex art. 18 della l.r. n. 20/2000, ha previsto l’ampliamento dell’azienda esistente, con la costruzione di un nuovo magazzino automatizzato alto 30 metri, mutamento della destinazione urbanistica di un terreno agricolo in produttivo, nonché il declassamento e la demolizione di un edificio storico (“Mo. di me.”).
La prima conferenza di servizi si è tenuta in data 20.11.2013.
Con le delibere n. 101 e n. 102 del 19 dicembre 2013 il Consiglio comunale di (omissis) ha approvato, rispettivamente, il PSC (piano strutturale comunale) ed il RUE (Regolamento Urbanistico Edilizio) in forma associata con i Comuni dell’Associazione intercomunale dell’Area Bazzanese.
Dal 1° gennaio 2014 è stato istituito il Comune di (omissis) mediante fusione dei contigui Comuni di (omissis), Castello di Serravalle, Crespellano, Monteveglio e Savigno.
Con delibera n. 297 del 31.07.2014, la Provincia di Bologna ha espresso parere positivo di VAS (Valutazione Ambientale Strategica) rispetto alla variante urbanistica e alla VALSAT (Valutazione di sostenibilità ambientale e territoriale), con alcune prescrizioni già oggetto della conferenza di servizi, in merito al progetto presentato dalla società I.L..
Nelle riunioni del 2.04.2014 e del 12.08.2014 si sono chiusi i lavori della conferenza di servizi con esito favorevole in ordine alla procedura di autorizzazione unica, attivata su istanza della società .
Con la deliberazione n. 93 del 16 settembre 2015, il Consiglio comunale di (omissis) ha deciso di non accogliere le osservazioni alla variante, di approvare, ai sensi dell’art. A-14 bis della l.r. n. 20/2000, la variante urbanistica e gli elaborati tecnici, di autorizzare il Responsabile dell’Area Qualità Programmazione Territoriale a sottoscrivere con la società ILPA la convenzione preliminarmente al rilascio dell’Autorizzazione Unica.
E’ seguita la determinazione n. 532 del 7.10.2015, con cui il responsabile del Settore Qualità Programmazione Territoriale del Comune di (omissis) ha approvato la bozza dell’atto di convenzione per l’attuazione di intervento unitario convenzionato di iniziativa privata IUCP-BZ2, volto all’ampliamento e alla riqualificazione dello stabilimento.
Infine, con l’autorizzazione unica n. 11/15 del 31.10.2015, il SUAP Associato per i Comuni di (omissis) e (omissis) ha autorizzato I.L.. s.p.a. (già I.L.. s.r.l.) alla realizzazione degli interventi descritti nel progetto consistenti nell’ampliamento e riqualificazione dello stabilimento I.L.. divisione IL..
7. Nella controversia sviluppatasi in primo grado, con ricorso n. r.g. 61/2011 gli odierni appellanti hanno impugnato gli atti con i quali il Consiglio comunale di (omissis) (ora (omissis)) ha approvato “i provvedimenti approvativi dell’accordo pubblico-privato tra Comune di (omissis) ed I.L.. ex art. 18 delle L.R. n. 20/2000” sul presupposto che sia l’Accordo (sia la delibera che ne ha approvato lo schema) violassero il paradigma di cui all’art. 18 della legge regionale n. 20/2000.
Al riguardo, va rilevato che, in tale circostanza, il Consiglio comunale si è pronunciato su di uno “schema di atto programmazione negoziata”, recante i punti essenziali dell’Accordo che rimandava, per la propria definizione ed attuazione, al procedimento di cui all’art. A-14 bis, della legge regionale n. 20/2000; diverso rispetto agli accordi con i privati di cui all’art. 18 della medesima legge regionale.
Del resto, l’Accordo in merito al quale il Consiglio ha assunto la relativa deliberazione, non aveva il contenuto discrezionale di un atto di pianificazione territoriale ed urbanistica, limitandosi ad indicare le ragioni, gli scopi e lo strumento attraverso cui perseguire tali finalità .
Infatti, l’art. A-14 bis della legge regionale n. 20/2000 prevede la presentazione del progetto di ampliamento; la convocazione della conferenza di servizi, in seno alla quale debbono essere espressi tutti gli atti di assenso necessari; la rapida conclusione delle conferenza di servizi, il cui esito positivo costituisce proposta di variante allo strumento urbanistico; il deposito del progetto, in relazione al quale possono essere formulate osservazioni; la definitiva approvazione della variante; l’attuazione del progetto tramite intervento diretto.
L’Amministrazione comunale ha seguito tale iter al fine di dare corso alla procedura di cui all’art. A-14 bis l.r. n. 20/2000, che ha condotto al rilascio dell’autorizzazione unica impugnata con il terzo ed ultimo ricorso (n. r.g. 1100/2015).
7.1. Quindi, a parere del Collegio, il primo ricorso (261/2011) aveva ad oggetto atti – non immediatamente lesivi della posizione soggettiva delle parti ricorrenti – superati da quelli che hanno condotto all’approvazione del progetto di ampliamento e riqualificazione dello stabilimento.
Al riguardo, in generale, va rilevato come non sia di per sé sufficiente, ai fini della configurabilità dell’interesse ad agire in giudizio per contestare un determinato provvedimento amministrativo, il mero rapporto di prossimità tra chi agisce e l’opera oggetto del provvedimento impugnato, essendo necessario dedurre una danno, sia pure potenziale (nel senso che con ragionevole certezza si verificherà in futuro), che può derivare da tale atto e dall’opera in questione (Cons. Stato, Sez. V, n. 2108/2013, n. 2460/2012 e n. 7275/2010).
Anche per l’azione in giudizio di soggetti portatori di interessi diffusi e di associazioni di categoria, per agire in giudizio occorre la necessaria sussistenza dell’interesse ad agire.
Le associazioni di categoria devono dimostrare, al pari di ogni altra condizione dell’azione, anche la presenza dell’interesse ad agire, ovvero la concreta ed attuale lesione della propria posizione soggettiva, che deve sussistere dal momento della proposizione del ricorso e permanere fino al momento della decisione.
Tuttavia, proprio perché le associazioni di categoria non devono occuparsi di questioni che interessino i singoli associati, la delibazione della concretezza e attualità della lesione della posizione soggettiva corporativa azionata in giudizio deve essere compiuta dal giudice con riferimento ai suoi profili collettivi e dunque necessariamente sul piano morale e astratto, dunque con un criterio più attenuato (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 6261/2012, sez. V, n. 3084/2011; ad. plen., 3 giugno 2011, n. 10).
Ma nel caso di specie nessuna delle parti ricorrenti – associazioni o privati – ha superato lo scrutinio concernente l’accertamento del minimo di lesività dei provvedimenti impugnati.
8. Analoga sorte spetta al secondo ricorso di primo grado n. 514/2014, con il quale i ricorrenti hanno dedotto l’invalidità derivata degli atti sopra indicati dalle illegittimità denunciate con il citato ricorso n. 261/2011.
8.1. Le censure oggetto dei motivi del citato ricorso, infatti, alla stregua delle considerazioni sviluppate in precedenza, non sono sostenute da idoneo interesse ad agire, posto che le impugnate deliberazioni di adozione e approvazione del PSC e del RUE del Comune di (omissis) non hanno costituito attuazione del contestato Accordo, limitandosi ad identificare l’area oggetto del medesimo quale ambito “la cui attuazione è definita da un accordo sottoscritto”.
Del resto, l’Accordo è stato sottoscritto in data 11.12.2010 e all’epoca dell’adozione e approvazione degli strumenti urbanistici non era in fase di attuazione, posto che la sua esecuzione è avvenuta mediante le fasi procedimentali previste dall’art. A-14 bis della legge regionale n. 20/2000 e si è conclusa con la deliberazione del Consiglio comunale n. 93 del 16.9.2015, con la quale – all’esito di un procedimento diverso da quello ordinario – è stata approvata la variante urbanistica ai sensi del citato articolo A-14 bis (impugnata in primo grado dagli odierni appellanti, unitamente all’autorizzazione unica n. 11/15 2015, con il terzo ricorso n. r.g. 1100/2015).
Quindi, le deliberazioni comunali oggetto del ricorso n. 514/2014 non avevano ad oggetto l’attuazione dell’Accordo e, comunque, sono state superate dalla citata deliberazione n. 93/2015 (autonomamente impugnata).
Sicché anche il ricorso n. 514/2014 va dichiarato inammissibile.
9. Alla luce delle considerazioni che precedono, restano da esaminare i motivi di censura contenuti nel ricorso n. 1100/2015, nei limiti in cui sono stati riproposti in appello (cfr. motivi da 1 a 7 del ricorso proposto in primo grado, poi trasfusi nei motivi da 10 a 15 del ricorso in appello), con i quali è stata contestata la legittimità della deliberazione del Consiglio comunale di (omissis) n. 93 del 16.09.2015, relativa all’approvazione della variante urbanistica, ai sensi dell’art. A-14 bis della l.r. n. 20/2000, per l’autorizzazione all’ampliamento e riqualificazione dello stabilimento oggetto del presente contenzioso.
9.1. In realtà, anche per questa impugnativa potrebbe porsi la questione della sua inammissibilità per carenza di interesse ad agire degli originari ricorrenti alla stregua degli argomenti illustrati al precedente § 7.1, tuttavia, poiché la risoluzione di tale questione richiederebbe delicati accertamenti in fatto e diritto, in ossequio all’insegnamento della Plenaria n. 5 del 2015, il Collegio ritiene che sia più liquida la soluzione consistente nell’esaminare le doglianze nel merito stante la loro infondatezza.
9.2. Deve essere, inoltre, esaminato il sedicesimo motivo di ricorso in appello, con il quale si contesta la sentenza impugnata nella parte in cui ha condannato i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio in favore dell’Amministrazione comunale e della società contro interessata, liquidate in Euro 5.000 oltre accessori per ciascuno.
9.3. Con il primo motivo del citato ricorso di primo grado n. 1100/2015, è stata contestata la violazione, per errata applicazione, dell’art. A-14 bis della l.r. n. 20/2000, oltre al vizio di eccesso di potere per carenza del presupposto in relazione all’intervento di ampliamento dei fabbricati industriali esistenti.
In particolare, secondo la prospettazione di parte ricorrente la norma, prevederebbe un’ipotesi di variante urbanistica semplificata per consentire “interventi di ampliamento e di ristrutturazione dei fabbricati industriali o artigianali, esistenti alla data di entrata in vigore della presente legge…”.
Nella fattispecie, il contestato progetto della società non consisterebbe in un ampliamento di fabbricati industriali esistenti, bensì in un intervento di nuova costruzione di sei edifici, con la conseguenza che non poteva trovare applicazione la speciale procedura di cui al citato articolo A-14 bis.
Quindi, l’interpretazione fornita dall’Amministrazione prima e dal TAR per la Emilia Romagna dopo, in ordine alla sopra richiamata norma, sarebbe inammissibile, atteso che non si potrebbe estendere il campo di applicazione della disciplina di riferimento al di là del dato testuale.
Al riguardo, il Collegio, contrariamente a quanto affermato dai ricorrenti, ritiene di condividere la conclusione cui è giunto il giudice di primo grado, il quale ha evidenziato quanto segue: “Le Indicazioni illustrative che hanno accompagnato la modifica legislativa introdotta nel 2009 hanno sottolineato come la variante speciale trova applicazione nel caso di imprese, già insediate nel territorio urbanizzato, che vogliano ampliare o ristrutturare le proprie attività in essere. Non si vede peraltro come, un’iniziativa assunta dal legislatore per favorire lo sviluppo delle attività produttive, debba applicarsi al solo caso di ampliamenti e ristrutturazioni di fabbricati già esistenti riducendone il campo di applicazione a casi che per lo più non ne avrebbero bisogno salvo che l’ampliamento comprenda una zona che non abbia una destinazione produttiva. In ogni caso la Circolare regionale del 13.5.2015 in materia afferma che “la stessa legge ha introdotto procedure speciali semplificate di variante urbanistica, da avviare obbligatoriamente, per l’approvazione di progetti di ampliamento e ristrutturazione di insediamenti produttivi presenti nel territorio urbanizzato (art. A- 14-bis della L.R. n. 20 del 2000)”.
Invero, valorizzando un’interpretazione teleologica della norma, la cui finalità consiste, per l’appunto, nel favorire lo sviluppo delle attività produttive, sarebbe irragionevole escludere la possibilità di attuare gli interventi di ampliamento del complesso aziendale unitariamente considerato anche attraverso la creazione di nuovi edifici.
In conclusione, il motivo di ricorso in esame è infondato e dev’essere respinto.
9.4. Con un secondo motivo di ricorso è stata censura la violazione degli articoli 11 e 31 del d.P.R. n. 380/2001, per travisamento dei fatti e mancata valutazione della documentazione fornita in istruttoria e per omissione di pronuncia.
In particolare, i ricorrenti denunciano l’asserita esistenza di precedenti abusi edilizi non sanati nell’area interessata dall’intervento, la quale sarebbe stata acquisita ipso jure al patrimonio comunale, a seguito della mancata ottemperanza all’ordinanza di demolizione n. 87/2013.
Secondo la tesi dei ricorrenti, i provvedimenti comunali impugnati sarebbero, dunque, illegittimi sulla base delle seguenti argomentazioni:
a) l’inottemperanza alla diffida ex art. 31 cit. determina ipso jure l’acquisizione del bene e dell’area al patrimonio comunale;
b) la pendenza della procedura approvativa della pianificazione attuativa avente ad oggetto anche l’area in contestazione avrebbe dovuto indurre il Comune a sospendere il procedimento ex art. A-14 bis, in attesa dell’approvazione della sanatoria degli abusi edilizi de quibus;
c) in ogni caso, la procedura ex art. A-14 bis non può costituire uno strumento di sanatoria di abusi edilizi preesistenti.
I ricorrenti odierni appellanti sottolineano che il giudice di primo grado sarebbe incorso in un travisamento dei fatti, dal momento che la società non avrebbe tempestivamente intrapreso l’attività di ripristino dello stato dei luoghi, ottemperando alle ordinanze comunali. L’inottemperanza sarebbe dimostrata dalla documentazione fotografica allegata all’esposto del Comitato Bazzanese (inviato al Comune di (omissis) via PEC il 14.06.2014 e depositato nel giudizio di primo grado), che il TAR per l’Emilia Romagna avrebbe omesso di considerare.
Il Collegio ritiene infondate anche queste censure, posto che l’articolo 31, comma 3, cit. stabilisce che: “Se il responsabile dell’abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall’ingiunzione, il bene e l’area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune. L’area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita”.
Pertanto, decorso inutilmente il termine di novanta giorni ex art. 31, comma 3, e accertata l’inottemperanza all’ordine di demolizione, il bene e l’area di sedime vengono acquisite al patrimonio comunale.
Per quanto attiene al caso di specie, dalla documentazione in atti, risulta che:
d) I.L.. s.r.l. (ora I.L.. s.p.a.) ha presentato domanda di permesso di costruire in sanatoria (prot. n. 0014507 del 31.07.2013) in ordine alle opere abusive accertate dall’Amministrazione comunale in sede di sopralluogo del 4.07.2013;
e) l’ordinanza di demolizione n. 87 è datata 20.8.2013;
f) il progetto definitivo per l’ampliamento e la riqualificazione dello stabilimento I.L.., divisione IL., è stato protocollato il 26.09.2013.
Dunque, dalla vicenda in esame emerge che l’Amministrazione non ha, in seguito, accertato l’inottemperanza all’ordine di demolizione n. 87/2013, pertanto, non può affermarsi che l’area de qua sia stata acquisita al patrimonio comunale.
Inoltre, nelle more, la società I.L.. ha provveduto a presentare domanda di permesso di costruire in sanatoria (prot. n. 0014507 del 31.07.2013) e ad attivare il procedimento unico per l’intervento di ampliamento e riqualificazione dello stabilimento.
Il motivo di ricorso, quindi, è infondato e va respinto.
9.5. Con il terzo motivo di ricorso, è stata lamentata la violazione degli articoli A-14 bis e 30 della l.r. n. 20/2000, nonché dell’art. 15 del d.lgs. n. 152/2006 in relazione all’inottemperanza delle deliberazioni espresse dalla Provincia di Bologna sui profili urbanistici e di valutazione ambientale strategica VAS con riferimento alla prevista cessione (da I.L.. al Comune) di aree destinate ad attrezzature e spazi collettivi.
Al riguardo, è stato rilevato che, con delibera n. 110 del 25.03.2014 e nell’ambito della conferenza di servizi del 26.03.2014, la Giunta provinciale di Bologna ha espresso una valutazione positiva sulla variante urbanistica in esame con alcune osservazioni, tra cui la n. 2, che richiamava “la necessità di reperire standard come previsto dalla normativa del RUE all’art. 3.1.6, che richiede per gli interventi in ambito di PUA, una quota di cessione non inferiore al 15% della superficie territoriale”.
I ricorrenti deducono che tale prescrizione provinciale, da considerarsi vincolante e non una mera indicazione (come sostenuto dal primo giudice), sarebbe stata disattesa: infatti, a fronte di una percentuale di standard del 15% della superficie territoriale (ossia 11.400 mq.) prescritta dall’Amministrazione provinciale, gli elaborati della variante urbanistica approvata dal Consiglio comunale, la convenzione conclusa dal Comune con la società ILPA ed il progetto assentito con l’autorizzazione unica, avrebbero previsto, invece, una cessione da parte dell’azienda di soli 400 mq..
Il Collegio, sul punto, osserva che con la delibera n. 110 del 25.03.2014 la Giunta provinciale di Bologna ha espresso parere positivo in relazione alla variante urbanistica in oggetto, seppure formulando proprie determinazioni, tra cui la n. 2, mediante la quale, in riferimento a “dotazioni per attrezzature e spazi collettivi” ha rappresentato la “la necessità di reperire standard come previsto dalla normativa del RUE all’art. 3.1.6, che richiede per gli interventi in ambito di PUA, una quota di cessione non inferiore al 15% della superficie territoriale di cui un minimo del 3% per parcheggi pubblici. Tale obbligo dovrà essere inserito anche nella scheda IUCP-BZ2 introdotta con il presente procedimento”.
L’Amministrazione, però, come espresso nella delibera consiliare del Comune di (omissis) n. 93 del 16.09.2015, ha proceduto alla monetizzazione delle dotazioni territoriali per attrezzature e spazi collettivi “relativamente alla sola area non individuata in precedenza come ambito consolidato”, ritenendo tale scelta più opportuna e, peraltro, essendo consentito dallo stesso RUE (art. 3.1.8. del RUE), che prevede proprio la possibilità di convertire l’onere di cessione in onere monetario.
In definitiva, anche tale censura è infondata e non può essere accolta.
9.4. Con il quarto motivo di ricorso è stata dedotta la violazione dell’art. 15 del d.lgs. n. 152/2006 per inottemperanza del parere provinciale sulla V.A.S. in relazione alla prevista demolizione del “Mo. di me.”.
I ricorrenti hanno rilevato che la Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici aveva segnalato “l’opportunità che la realizzazione di nuove volumetrie per i previsti nuovi stabilimenti produttivi compenetri la conservazione di elementi peculiari attinenti le preesistenze storiche” (cfr. nota prot. n. 4004 del 25.03.2014) e che la Provincia di Bologna, nell’esprimere una VAS positiva sulla variante, aveva stabilito la seguente condizione: “con la necessità di: integrare lo strumento con le indicazioni e le prescrizioni progettuali proposte dagli Enti competenti in materia ambientale” (doc. 5 primo elenco: vds. pag. 5, ult. cpv.).
Tale ultima prescrizione, secondo i ricorrenti, afferirebbe proprio alla tutela del “Mo. di me.”; invece, sia il progetto che la variante approvati hanno previsto la demolizione del “Mo. di me.”, in asserito contrasto con il parere provinciale di V.A.S..
Al riguardo, il Collegio ritiene infondata anche questa doglianza, perché il “Mo. di me.” (manufatto storico che insisteva nell’area de qua) era ricompreso dal PRG comunale tra le “Zone di tutela di elementi di interesse storico-testimoniale-paesaggistico-ambientale”, ma sullo stesso non gravava un vincolo architettonico o paesaggistico, bensì un vincolo la cui gestione era rimessa esclusivamente all’Amministrazione comunale.
Infatti, dalla documentazione in atti emerge che, in relazione al “Mo. di me.”, la Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per le Province di Bologna, Modena, Reggio Emilia e Ferrara, con nota prot. 50753 del 01.10.2016, ha comunicato l’esito negativo del procedimento di dichiarazione di interesse culturale particolarmente importante, avviato ai sensi degli articoli 10, comma 3, e 13 del D.lgs. n. 42/2004.
Conseguentemente, il Collegio ritiene legittimo l’operato dell’Amministrazione (e, conseguentemente, corretta la sentenza del TAR per la Emilia Romagna), la quale ha escluso che il manufatto in questione fosse soggetto ad un vincolo architettonico o paesaggistico.
9.6. Con il quinto motivo di ricorso è stata affermata l’illegittimità della procedura ex art. A-14 bis l.r. n. 20/2000, stante lo svolgimento di una quarta seduta della conferenza di servizi nel giorno 12 agosto 2014, tenutasi dopo la pubblicazione della proposta di variante urbanistica.
Nello specifico, i ricorrenti affermano, in primis, che la proposta di variante urbanistica sarebbe stata pubblicata e sottoposta alle osservazioni quando non risultava ancora conclusa la conferenza di servizi, in contrasto con il comma 3 dell’art. A-14 bis.
In secondo luogo, denunciano un eccesso di potere per travisamento dei fatti e falsità del presupposto laddove risulta che il Consiglio comunale, riunitosi il 16.09.2015 per l’approvazione della variante, sarebbe stato tenuto all’oscuro dello svolgimento di questa quarta (conclusiva) riunione della conferenza di servizi del 12.08.2014 successivamente alla pronuncia provinciale di VAS, come risulterebbe dalla stessa delibera consiliare n. 93 del 16.09.2015, ove non si farebbe alcuna menzione della predetta ultima riunione della conferenza di servizi, indicando invece come conclusiva (in cui sarebbero stati espressi gli assensi necessari di tutte le amministrazioni interessate) la conferenza del 2 aprile 2014.
Il Collegio ritiene infondato anche questo motivo di ricorso, per le ragioni di seguito indicate.
La quarta conferenza di servizi del 12.08.2014 è stata convocata al fine di acquisire il parere della Provincia di Bologna in merito alla VAS.
Come correttamente rilevato dal giudice di primo grado, la Provincia di Bologna, con nota dell’11 agosto 2014 indirizzata al Responsabile del Servizio Urbanistica del Comune di (omissis), ha ritenuto “superflua la partecipazione alla seduta di Conferenza di Servizi del 12 agosto 2014”, avendo già espresso le proprie valutazioni di competenza mediante la deliberazione della Giunta provinciale n. 297 del 31.07.2014, dichiarata immediatamente eseguibile.
Pertanto, le censure dei ricorrenti risultano infondate.
9.7. Con il sesto ed il settimo dei motivi di ricorso proposto in primo grado, è stata contestata la violazione dell’art. 1.6 delle norme del P.S.C. dei Comuni dell’Area Bazzanese, in relazione alla mancata previa approvazione del P.O.C. e alla difformità della variante dai parametri del P.R.G.; e la violazione dell’art. 39 d.lgs. n. 33/2013 e dell’art. A-14 bis l.r. 20/2000 in relazione alle carenze di pubblicità, trasparenza e facoltà di partecipazione pubblica nel corso della procedura di approvazione della variante urbanistica.
In particolare, i ricorrenti, con tali censure, per come riproposte in appello, hanno contestato che l’ultimo comma dell’articolo 39 del d.lgs. n. 33/2013 faccia salvo quanto previsto dalla vigente legislazione statale e regionale e, quindi, al caso di specie non troverebbe applicazione la disposizione dell’art. A14-bis della l.r. n. 20/2000, in virtù del quale il deposito del progetto e degli atti inerenti alla variante urbanistica deve avvenire una volta conclusa la Conferenza di servizi. I ricorrenti non concordano con tale interpretazione, in quanto la citata clausola di rinvio alla normativa statale e regionale non potrebbe compromettere l’operatività del citato articolo 39, inerente alla trasparenza delle procedure di variante urbanistica.
In secondo luogo i ricorrenti, in merito alla mancata prova di concreto pregiudizio delle proprie facoltà di intervento (affermata dal TAR per la Emilia Romagna nella sentenza impugnata), deducono che se fosse stata consentita una tempestiva ed integrale pubblicazione degli atti della procedura, il Comitato appellante (e i cittadini interessati) avrebbe potuto formulare le osservazioni e le precisazioni contenute negli atti del giudizio già in sede di Conferenza di servizi.
Il Collegio ritiene corretto l’operato dell’Amministrazione ed il ragionamento logico-giuridico seguito dal giudice di primo grado.
L’art. 39 del d.lgs. n. 33/2013 (titolato “Trasparenza dell’attività di pianificazione e governo del territorio”) prevede che: “La documentazione relativa a ciascun procedimento di presentazione e approvazione delle proposte di trasformazione urbanistica d’iniziativa privata o pubblica in variante allo strumento urbanistico generale comunque denominato vigente nonché delle proposte di trasformazione urbanistica d’iniziativa privata o pubblica in attuazione dello strumento urbanistico generale vigente che comportino premialità edificatorie a fronte dell’impegno dei privati alla realizzazione di opere di urbanizzazione extra oneri o della cessione di aree o volumetrie per finalità di pubblico interesse è pubblicata in una sezione apposita nel sito del comune interessato, continuamente aggiornata”.
Come correttamente rilevato dal primo giudice, l’ultimo comma della norma in esame fa salve “le discipline di dettaglio previste dalla vigente legislazione statale e regionale”.
Orbene, nel caso di specie, l’art. A-14 bis della l.r. n. 20/2000 al comma 3 stabilisce che: “L’amministrazione comunale provvede all’immediato deposito del progetto presso la sede del Comune per sessanta giorni dalla pubblicazione sul BUR del relativo avviso. Entro il medesimo termine chiunque può prendere visione del progetto e formulare osservazioni sulla variante si esprime definitivamente il Consiglio comunale entro i trenta giorni successivi alla conclusione del termine per la presentazione delle osservazioni”.
Pertanto, dalla lettura della norma si evince che nell’ambito della speciale procedura ivi contemplata, il deposito degli elaborati progettuali inerenti alla variante urbanistica avviene dopo la conclusione della conferenza di servizi, senza alcuna violazione degli obblighi di pubblicità e trasparenza.
10. Va, infine, esaminato il sedicesimo motivo di appello, con il quale gli appellanti hanno chiesto la riforma della sentenza impugnata relativamente al capo con il quale sono stati condannati al pagamento delle spese di giudizio in favore dell’Amministrazione comunale e della società I.L.., liquidate in Euro 5.000 oltre accessori per ciascuna delle controparti; e della riforma dell’ordinanza cautelare n. 65/2016 della Sezione II del TAR per la Emilia Romagna (resa nell’ambito del procedimento R.G. n. 1100/2015), con la quale i medesimi ricorrenti sono stati condannati alla rifusione di Euro 3.000 per parte costituita, oltre oneri di legge, per una somma complessiva di Euro 16.000,00 oltre accessori di legge.
Gli odierni appellanti hanno chiesto, dunque, la riforma della statuizione relativa alla condanna alle spese del primo grado di giudizio (anche relativamente alla fase cautelare), e, in caso di rigetto dell’appello, la compensazione delle spese di entrambi i gradi di giudizio, affermando che la causa – caratterizzata da questioni tecnico-giuridiche nuove e particolarmente complesse – rientrerebbe tra le controversie in materia ambientale cui si applica la convenzione internazionale di Aarhus “sull’accesso alle informazioni, la partecipazione dei cittadini e l’accesso alla giustizia in materia ambientale”, ratificata dall’Italia con la legge n. 108/2001, il cui articolo 9, comma 4, stabilisce che il procedimento giurisdizionale avverso le decisioni assunte in materia ambientale non deve essere mai “eccessivamente oneroso” (cfr. Corte di giustizia UE, Sez. IV, 11 aprile 2013, C-260/11).
Al riguardo, il Collegio osserva che con la legge 16 marzo 2001, n. 108, è stata ratificata la Convenzione di Aarhus il 25 giugno 1998 sull’accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale.
Come correttamente rilevato dagli appellanti, l’articolo 9, comma 4, di tale Convenzione stabilisce che il procedimento giurisdizionale avverso le decisioni assunte in materia ambientale non deve essere mai “eccessivamente oneroso”.
I giudici nazionali, anche prima del recepimento della citata Convenzione, erano tenuti ad interpretare il diritto interno in modo tale che ai soggetti dell’ordinamento non venisse impedito di proporre o proseguire un ricorso giurisdizionale rientrante nell’ambito di applicazione dello stesso articolo a causa dell’onere finanziario che potrebbe derivarne (Corte di giustizia UE, 14 ottobre 2018, C- 167/17).
Tuttavia, tale giurisprudenza e la richiamata Convenzione non comportano, a parere del Collegio, la deroga al principio della soccombenza di cui all’art. 26 c.p.a., a norma del quale, quando si emette una decisione, occorre provvedere anche sulle spese del giudizio, secondo gli articoli 91, 92, 93, 94, 96 e 97 del codice di procedura civile.
Sul punto, la stessa giurisprudenza comunitaria ha affermato che, per garantire una tutela giurisdizionale effettiva senza costi eccessivi nel settore ambientale (in applicazione della citata direttiva 2003/35), le spese del procedimento non devono superare le capacità finanziarie di un ricorrente “medio” né apparire oggettivamente irragionevoli; è tuttavia consentito ai giudici nazionali di condannare il soccombente a pagare le spese del giudizio, a condizione che l’importo delle stesse sia ragionevole e che esse non siano, nel loro complesso, onerose (Corte di giustizia UE, 13 febbraio 2014, C-530/11).
Del resto, già in precedenza, la Corte di giustizia aveva affermato che l’art. 10 bis, comma 5, della direttiva 27 giugno 1985, n. 85/337/Cee del Consiglio (concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati) e l’art. 15 bis, comma 5, della direttiva 24 settembre 1996 n. 96/61/Ce del Consiglio (sulla prevenzione e la riduzione integrate dell’inquinamento), come modificate dalla direttiva 26 maggio 2003, n. 2003/35/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio, implicano che alle persone ivi contemplate non venga impedito di proporre o di proseguire un ricorso giurisdizionale rientrante nell’ambito di applicazione di tali articoli a causa dell’onere finanziario che potrebbe risultarne (Corte di giustizia UE, 11 aprile 2013, C- 260/11).
Nella medesima occasione, la Corte giustizia aveva affermato che: “qualora un giudice nazionale sia chiamato a pronunciarsi sulla condanna alle spese di un privato rimasto soccombente, in qualità di ricorrente, in una controversia in materia ambientale o, più in generale, qualora sia tenuto, come possono esserlo i giudici del Regno Unito, a prendere posizione, in una fase anteriore del procedimento, su un’eventuale limitazione dei costi che possono essere posti a carico della parte rimasta soccombente, egli deve assicurarsi del rispetto di tale requisito tenendo conto tanto dell’interesse della persona che desidera difendere i propri diritti quanto dell’interesse generale connesso alla tutela dell’ambiente; nell’ambito di tale valutazione, il giudice nazionale non può basarsi unicamente sulla situazione economica dell’interessato, ma deve altresì procedere ad un’analisi oggettiva dell’importo delle spese; peraltro, egli può tenere conto della situazione delle parti in causa, delle ragionevoli possibilità di successo del richiedente, dell’importanza della posta in gioco per il medesimo e per la tutela dell’ambiente, della complessità del diritto e della procedura applicabili, del carattere eventualmente temerario del ricorso nelle sue varie fasi nonché della sussistenza di un sistema nazionale di assistenza giurisdizionale o di un regime cautelare in materia di spese; per contro, la circostanza che l’interessato, in concreto, non sia stato dissuaso dall’esercitare la sua azione non è sufficiente, di per sé, per considerare che il procedimento non sia eccessivamente oneroso per il medesimo; infine, tale valutazione non può essere compiuta in base a criteri diversi a seconda che essa abbia luogo in esito ad un procedimento di primo grado, ad un appello o ad un’ulteriore impugnazione.”.
Alla luce della normativa richiamata e delle coordinate fornite dalla richiamata giurisprudenza comunitaria, il Collegio ritiene che anche il sedicesimo motivo di appello debba essere respinto in quanto:
a) la controversia riguarda solo in parte la materia ambientale e, quindi, per la restante parte, non assume alcun rilievo quanto stabilito dal citato art. 9, comma 4;
b) in generale, la citata Convenzione internazionale e le direttive applicative – che, in parte qua, non introducono precetti puntuali e inderogabili in capo agli Stati lasciando loro ampi margini di flessibilità applicativa – non comportano una deroga al principio della soccombenza di cui all’art. 26 c.p.a., posto che il pagamento delle spese di lite non configura una barriera all’accesso alla giustizia in materia ambientale, mentre il diritto UE mira principalmente a questo obbiettivo e solo in via riflessa alle difficoltà insite nella gestione del processo;
c) nel caso specifico, gli indici forniti dalla richiamata giurisprudenza comunitaria al fine di verificare l’eventuale ‘eccessiva onerosità ‘ del procedimento giurisdizionale, non depongono nel senso che le decisioni assunte dal giudice di primo grado in tema di spese giudiziali possano essere considerate esagerate, avuto riguardo al fatto che la misura delle spese liquidate dal giudice di primo grado non risulta sproporzionata, specialmente se posta in relazione alla situazione delle parti in causa ed alla molteplicità degli obbligati in solido al pagamento delle stesse, i quali, peraltro, non hanno fornito particolari elementi di valutazione a sostegno della tesi dell’eccessività della liquidazione delle spese di giudizio.
11. Alla luce delle considerazioni che precedono, il Collegio respinge l’appello principale e accoglie quello incidentale. Sicché, per l’effetto, in riforma dell’impugnata sentenza, il Collegio dichiara inammissibili i ricorsi di primo grado n. r.g. 261/2011 e n. r.g. 514/2014, e infondato il ricorso di primo grado n. r.g. 1100/2015.
12. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo alla stregua dei parametri indicati dagli artt. 26, comma 1, c.p.a. e dal regolamento n. 55 del 2014; a tali fini le tre associazioni sindacali intimate costituiscono una sola parte.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sul ricorso meglio indicato in epigrafe, così provvede:
a) rigetta l’appello principale;
b) accoglie l’appello incidentale e per l’effetto, in riforma parziale dell’impugnata sentenza, dichiara inammissibili i ricorsi n. r.g. 261/2011 e n. r.g. 514/2014, e infondato il ricorso n. r.g. 1100/2015;
c) condanna i ricorrenti, in solido fra loro, al pagamento delle spese del giudizio di secondo grado in favore del Comune di (omissis), di I.L.. s.p.a. nonché della Federazione Italiana Lavoratori Chimica Tessile Energia Manifatture CGIL di Bologna, della Federazione energia, moda, chimica ed affini CISL di Bologna e dell’Unione Italiana Lavoratori Tessile Energia e Chimica UIL di Bologna, liquidate per ciascuna delle tre parti vittoriose in complessivi euro 5.000,00, oltre I.V.A., C.P.A. e rimborso spese generali al 15%.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dalla competente autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 30 gennaio 2020 con l’intervento dei magistrati:
Vito Poli – Presidente
Luca Lamberti – Consigliere
Nicola D’Angelo – Consigliere
Silvia Martino – Consigliere
Roberto Proietti – Consigliere, Estensore

 

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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