Consiglio di Stato, sezione terza, Sentenza 27 febbraio 2019, n. 1393.
La massima estrapolata:
E’ ammessa in via generale non solo la possibilità di avviare il procedimento disciplinare anche nei confronti di un dipendente cessato dal servizio ove vi sia un interesse giuridicamente qualificato dell’Amministrazione, ma in particolare che vi è la necessità e il dovere di farlo in tutti i casi in cui occorra definire aspetti patrimoniali rimasti sospesi o indefiniti in attesa della conclusione del procedimento penale anche in relazione a precedenti periodi di sospensione dal servizio.
Sentenza 27 febbraio 2019, n. 1393
Data udienza 29 gennaio 2019
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Terza
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 29 del 2012, proposto dal signor -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall’avvocato Pi. Vi., con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Lo. Sa. in Roma, (…);
contro
il Ministero dell’Interno – Dipartimento della Pubblica Sicurezza – in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata ex lege in Roma, via (…);
per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l’Abruzzo -Sezione distaccata di Pescara (Sez. I) n. -OMISSIS-, resa tra le parti, concernente la sanzione disciplinare della destituzione dal servizio.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero dell’Interno;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza del giorno 29 gennaio 2019 il Consigliere Antonella Manzione e uditi per le parti l’avvocato Ro. Ma., su delega dell’avvocato Pi. Vi., e l’avvocato dello Stato Gi. Ba.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. La Corte d’Appello di L’Aquila, con sentenza del -OMISSIS- 2000, passata in giudicato, ha prosciolto per intervenuta prescrizione, previa derubricazione del reato ascrittogli, l’odierno appellante, già condannato in primo grado alla pena di anni 4 di reclusione, per fatti risalenti all’epoca in cui prestava servizio in qualità di -OMISSIS- della Polizia di Stato presso la Questura di Pescara.
In particolare, egli, abusando della sua qualità e dei suoi poteri, avrebbe costretto il titolare di un locale ad una dazione di somme ad un’amica, sua dipendente, e al di lei figlio, minacciandolo di controlli su attività complementari a quella di somministrazione di alimenti e bevande (di intrattenimento musicale).
2. All’esito del procedimento disciplinare, avviato in conseguenza di tale pronuncia, il Capo della Polizia, con decreto del -OMISSIS- 2008, notificato il -OMISSIS- 2008, applicava nei confronti dell’interessato, nel frattempo cessato dal servizio per pensionamento, la sanzione della destituzione.
3. Avverso tale decreto ha proposto ricorso avanti al T.A.R. per l’Abruzzo l’interessato, deducendo la violazione dell’art. 14 del d. P.R. n. 737/1981 e 9 della l. n. 19/1990, difetto di motivazione e di istruttoria, nonché erronea individuazione del Consiglio di disciplina competente, e ne ha chiesto l’annullamento.
4. Con la sentenza n. -OMISSIS- del 20 luglio 2011, il T.A.R. per l’Abruzzo ha rigettato il ricorso, compensando le spese di lite.
5. Avverso tale sentenza ha presentato appello l’interessato, riproponendo i motivi già formulati in prime cure, e ne ha chiesto la riforma, con conseguente annullamento del provvedimento disciplinare di destituzione.
6. Si è costituito il Ministero appellato, chiedendo la reiezione dell’avversario gravame.
7. Nella pubblica udienza del 29 gennaio 2019 il Collegio ha trattenuto la causa in decisione.
8. L’appello non è fondato.
9. Preliminarmente, per una corretta ricostruzione in fatto dell’odierna controversia, occorre collocarla temporalmente, individuando i passaggi salienti del procedimento disciplinare terminato con la destituzione dell’appellante, per come peraltro analiticamente indicati nel provvedimento impugnato.
La contestazione degli addebito, in data -OMISSIS- 2007, ha ad oggetto una serie di episodi e di comportamenti tenuti dall’interessato nell’anno -OMISSIS-, abusando del proprio ruolo di responsabile della polizia amministrativa, nei confronti del gestore di un pubblico esercizio di somministrazione di alimenti e bevande, tali da avergli comportato la sottoposizione a procedimento penale conclusosi in appello con il ricordato proscioglimento.
In particolare, il Tribunale di Pescara, con sentenza n. -OMISSIS- del 28 giugno 2000, lo condannava per il reato di concussione continuata (artt. 81 e 317 c.p.); la Corte di Appello di L’Aquila, con sentenza n. -OMISSIS- del 18 maggio 2007, previa derubricazione della fattispecie in quella meno grave di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.), lo proscioglieva per intervenuta prescrizione.
Nell’ambito del procedimento penale il ricorrente veniva tratto in custodia cautelare con il provvedimento del G.I.P. e conseguentemente sospeso dal servizio ai sensi dell’art. 9, comma 1, del d.P.R. n. 737/1981.
Allo spirare del periodo massimo previsto, veniva quindi riammesso (-OMISSIS- 1998), cessando dall’impiego per collocazione a riposo a domanda il -OMISSIS- 1999.
Nelle more, con decorrenza -OMISSIS- 1995, egli veniva immesso nel nuovo ruolo degli ispettori della P.S. con la qualifica di -OMISSIS- superiore ai sensi dell’art. 13, lett. a), del d.lgs. 12 maggio 1995, n. 196.
10. Sostiene in particolare l’appellante che il procedimento disciplinare risulterebbe viziato in radice, perché instaurato nei confronti di un soggetto ormai da tempo cessato dal servizio, in quanto tale non qualificabile come appartenente ai ruoli dell’Amministrazione della pubblica sicurezza, e dunque al di fuori dell’ambito di applicazione del d. P.R. 25 ottobre 1981, n. 737.
La comunicazione del funzionario istruttore, infatti, è del -OMISSIS- 2007 e la contestazione degli addebiti, come già rilevato, del -OMISSIS- 2007, ovvero oltre 10 anni dopo gli accadimenti contestati e circa 8 dal pensionamento.
Il tutto sarebbe avvenuto peraltro in violazione del termine di 90 giorni per la conclusione del procedimento, stabilito dall’art. 9 della l. 7 febbraio 1990, n. 19, che ne impone anche l’attivazione entro 180 giorni dalla notizia del passaggio in giudicato della sentenza di condanna (termine questo rispettato dall’Amministrazione).
11. Afferma il Giudice di prime cure che anche dopo la cessazione dal servizio del dipendente residui in capo all’Amministrazione di appartenenza il potere di “valutare il comportamento dell’impiegato, al fine precipuo di regolare i rapporti anche economici sorti a seguito del provvedimento di sospensione cautelare già intervenuto, come avvenuto nel caso di specie”.
L’affermazione è da condividere.
Rileva il Collegio, infatti, come in senso tassativamente contrario alla tesi dell’appellante converga una molteplicità di norme.
Le disposizioni degli art. 9 e 11 del d. P.R. 25 ottobre 1981, n. 737, unitamente al principio generale fissato per tutte le pubbliche amministrazioni dall’art. 117 della legge 10 gennaio 1957, n. 3, prevedono infatti che, dal momento in cui viene esercitata l’azione penale (con gli atti tipizzati dal vigente codice di rito), sussiste il dovere dell’Amministrazione di non dare inizio al procedimento disciplinare o di sospenderlo ove già avviato.
In questo senso dispone anche l’art. 9, comma 2, l. 7 febbraio 1990, n. 19, in forza del quale il procedimento disciplinare “deve essere proseguito o promosso entro centottanta giorni dalla data in cui l’amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna”.
Sulla base di queste disposizioni, è evidente in primo luogo che l’Amministrazione non solo ha il potere, ma in aggiunta ha il dovere di avviare o riprendere il procedimento disciplinare una volta concluso il procedimento penale.
Ed è altresì evidente che, ove le tempistiche dello stesso non si concilino con la permanenza nello status di “dipendente in servizio”, ciò non può comportare la consumazione del potere disciplinare dell’Amministrazione di appartenenza.
In tal senso si è anche espressa la pronuncia dell’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato n. 8/1997, così come anche la successiva giurisprudenza, dalla quale il Collegio non ha motivo di discostarsi: essa ha chiarito che è ammessa in via generale non solo la possibilità di avviare il procedimento disciplinare anche nei confronti di un dipendente cessato dal servizio ove vi sia un interesse giuridicamente qualificato dell’Amministrazione, ma in particolare che vi è la necessità e il dovere di farlo in tutti i casi in cui, come in quello in esame, occorra definire aspetti patrimoniali rimasti sospesi o indefiniti in attesa della conclusione del procedimento penale anche in relazione a precedenti periodi di sospensione dal servizio (sul punto, v. Cons. Stato, Sez. III, 27 agosto 2014, n. 4350).
13. Nel caso in esame l’Amministrazione aveva il dovere di regolare il periodo durante il quale l’interessato era stato sospeso dal servizio e dalla retribuzione; essa si è altresì occupata anche di statuire gli effetti della retrodatazione del provvedimento sul periodo di effettivo servizio conseguito alla riammissione, riconoscendo all’appellante lo status di ‘funzionario di fattò, nonché di annullare la promozione nel frattempo disposta, con ciò affrontando a tutto tondo le vicende giuridiche curriculari del ricorrente alla luce della disposta destituzione.
Alla luce di quanto sopra, non si riscontra negli atti dell’Amministrazione alcuna contraddizione o alcun difetto di motivazione, tanto più che la sua riammissione in servizio non è stata il frutto di una scelta della stessa, ma è conseguita obbligatoriamente all’avvenuto superamento del termine massimo di 5 anni di durata della sospensione del servizio.
14. La normativa richiamata, che prevede che l’apertura del procedimento disciplinare segue la formazione del giudicato, consente di estendere le stesse motivazioni esposte per respingere anche il motivo del ricorso, pure rubricato sub 1), relativo all’asserita perenzione dell’azione disciplinare, in quanto non sarebbe stato rispettato il termine di 90 giorni previsto per la conclusione del procedimento.
Nel caso di specie, infatti, malgrado il generico richiamo alla l. 7 febbraio 1990, n. 19, contenuto nell’elencazione dei presupposti normativi del provvedimento avversato, la disposizione non pare trovare applicazione.
La tassativa, inequivocabile, quanto specifica norma di cui l’interessato invoca la violazione (art. 9 della l. n. 19/1990), ancorché limitatamente ai 90 giorni per la chiusura del procedimento, come correttamente affermato dal Giudice di prime cure “si applica solo quando il procedimento penale si sia concluso con una sentenza di condanna, mentre nel caso si tratta di una sentenza che ha pronunciato la prescrizione”.
Come anche di recente affermato da questo Consiglio di Stato, infatti, “per le sentenze di condanna, relative ad alcuni specifici delitti contro la pubblica amministrazione, viene in rilievo la legge n. 97/2001; per le sentenze di condanna per reati diversi da quelli indicati nella suddetta legge n. 97/2001, trova applicazione la legge n. 19/1990; per le sentenze di proscioglimento continua a sopravvivere la normativa recata dal d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3” (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 12 aprile 2017, n. 1702).
Le tre normative sopraindicate prendono in considerazione fattispecie tra loro diverse, alle quali il legislatore attribuisce una differenziata capacità offensiva nei confronti dell’Amministrazione di appartenenza, individuando termini distinti e scansioni temporali specifiche.
Discende da ciò che non ne esiste una generale quanto alla tempistica procedimentale, per cui l’Amministrazione dovrà, a seconda delle evenienze, rispettare quella delle tre che si riferisce alla specifica sentenza concretamente intervenuta (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 31 dicembre 2007, n. 6809; id., 7 novembre 2012, n. 5672).
Nel caso di specie, peraltro, ove si fosse trattato di una sentenza irrevocabile di condanna, si sarebbe dovuto applicare l’art. 5 della l. 27 marzo 2001, n. 97, che prevede il termine di conclusione del procedimento di 180 giorni dal suo inizio o dalla sua prosecuzione, in quanto sia il reato di concussione che quello di corruzione rientrano nell’elencazione effettuata dall’art. 3 della stessa per delineare il proprio ambito oggettivo di riferimento; e il giudizio d’appello risultava ancora in corso alla data di entrata in vigore della legge medesima.
Trattandosi invece di una sentenza di proscioglimento, il rilievo del superamento del lasso temporale tra inizio e conclusione del procedimento disciplinare, vuoi che lo si individui nei 90 giorni della l. n. 19/1990, vuoi che si faccia riferimento ai 180 di cui alla l. n. 97/2001, si palesa a maggior ragione infondato: entrambe le disposizioni citate si riferiscono infatti in parte qua alle sentenze di condanna e non trovano pertanto applicazione nel caso di specie.
15. Sul punto il Collegio ritiene utile richiamare un’ulteriore pronuncia dell’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato, nella quale si è affermato che un procedimento penale conclusosi con la dichiarazione di estinzione dei reati per prescrizione è agevolmente assimilabile alla sentenza penale di patteggiamento, per la quale la Corte Costituzionale, nella sentenza del 28 maggio 1999, n. 197, in cui ha affermato la tesi della perentorietà del termine di cui all’art. 9, comma 2, della legge n. 19/1990, ha, tuttavia, escluso che la norma trovi applicazione quando il procedimento disciplinare sia instaurato a seguito di una sentenza che applica la pena su richiesta delle parti (art. 444 c.p.p.), non potendosi precludere, in tal caso, per le particolari modalità del procedimento penale, la necessità di autonomi accertamenti in sede disciplinare (Cons. Stato, Ad. plen., 27 giugno 2006, n. 10).
16. In definitiva, poiché, nella vicenda di cui è causa, viene in questione una sentenza di proscioglimento per prescrizione, trova applicazione l’art. 97, comma 3, del d. P.R. n. 3/1957, secondo il quale “il procedimento disciplinare deve avere inizio, con la contestazione degli addebiti, entro 180 giorni dalla data in cui è divenuta irrevocabile la sentenza definitiva di proscioglimento od entro 40 giorni dalla data in cui l’impiegato abbia notificato all’amministrazione la sentenza stessa” (cfr. Cons. Stato, n. 6809/2007, cit. sub § 14).
17. Poiché l’appellante non deduce la violazione di tali termini, nemmeno sub specie di erroneità dei richiami normativi contenuti nel provvedimento impugnato, la censura è palesemente infondata.
18. Devono essere respinte anche le censure relative all’asserita incompetenza del Consiglio provinciale di disciplina che ha proposto la sanzione: ciò in quanto all’epoca dell’istruttoria disciplinare l’appellante era assegnato alla Questura di Rovigo.
L’affermazione, tutt’altro che chiara sotto il profilo dogmatico, per cui il legame anche con la Questura di Pescara, nel cui ambito territoriale si sono verificati i fatti oggetto del procedimento disciplinare, avrebbe dovuto implicare il coinvolgimento del Consiglio Centrale, appare di per sé generica ed inidonea a scardinare la regola in base alla quale titolare della relativa competenza è il capo dell’ufficio di appartenenza -nel caso di specie, il funzionario incaricato della Questura di Rovigo.
19. Infondate, infine, sono le ulteriori censure procedurali relative al mancato svolgimento delle richieste istruttorie avanzate dall’appellante, dato che l’Amministrazione poteva avvalersi, quanto ai fatti già oggetto del giudizio penale, degli accertamenti effettuati all’interno di quest’ultimo.
Se è vero, infatti, che la sentenza ex art. 129 c.p.p. non “fa stato” in relazione ai fatti ivi accertati e che pertanto l’Amministrazione non può basarsi sui contenuti della stessa per considerare acclarati i comportamenti contestati; lo è egualmente che nel caso di specie la contestazione degli addebiti mutua dalla sentenza di primo grado, non da quella di appello, la descrizione dei comportamenti delittuosi, dei quali il Giudice d’Appello non ha messo in discussione la storicità, bensì rivisto la qualificazione giuridica.
D’altro canto, l’autonoma valutazione degli stessi emerge per tabulas dagli articolati scritti difensivi dell’appellante, che tendono piuttosto ad enfatizzare il proprio riconosciuto valore professionale, screditando la figura del titolare del locale da cui è scaturita la notitia criminis, senza tuttavia dimostrare la mendacità delle relative affermazioni, a fronte delle quali non risulta attivato, neppure su denuncia dell’interessato, alcun procedimento penale per calunnia.
Ciò che conta nel presente giudizio è, dunque, il fatto che nell’ambito del procedimento che lo riguarda, il comportamento del dipendente sia stato oggetto di un’approfondita valutazione anche in relazione alle responsabilità che gli erano attribuite in relazione al suo grado e alla competenza professionale acquisita nell’ambito del controllo delle attività produttive del territorio.
20. Al riguardo va rilevato che, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, nel procedimento disciplinare nei confronti dei pubblici dipendenti, l’Amministrazione è titolare di un’ampia discrezionalità in ordine alla valutazione dei fatti addebitati al dipendente, alla gravità delle infrazioni addebitate ed alla conseguente sanzione da infliggere, in considerazione degli interessi pubblici che devono essere attraverso tale procedimento tutelati, sindacabile dal giudice amministrativo solo per gli aspetti relativi alla manifesta irragionevolezza, illogicità o travisamento del fatto (ex multis Consiglio di Stato, Sez. III, 27 agosto 2014, n. 4350, id., 2 luglio 2014 n. 3324; Sez. VI, 28 gennaio 2011, n. 645).
Non risulta dunque provato che, nella determinazione dell’entità della sanzione irrogata, abbia influito la formulazione dell’originario capo di imputazione, che contemplava 4 ipotesi di reato, laddove perfino la condanna intervenuta in primo grado è limitata ad un solo reato, essendo andato l’interessato assolto per i rimanenti.
Al contrario, la contestazione degli addebiti, effettuata dopo la sentenza di appello, non attinge alla qualificazione giuridica dei fatti, ma ne riferisce la dinamica e li valuta comunque tali da mettere in discussione il “senso morale” dell’agente, con conseguente grave pregiudizio per l’Amministrazione di appartenenza.
21.In definitiva, per quanto testé argomentato, l’appello deve essere respinto e la sentenza del T.A.R. va confermata anche nelle sue motivazioni.
22. Si ravvisano giusti motivi per compensare le spese per il presente grado del giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Terza, definitivamente pronunciando sull’appello n. 29 del 2012, come in epigrafe proposto, respinge l’appello e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata.
Spese del presente grado di giudizio compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’art. 52, comma 1, del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità, nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare il ricorrente. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 29 gennaio 2019, con l’intervento dei magistrati:
Luigi Maruotti – Presidente
Raffaello Sestini – Consigliere
Solveig Cogliani – Consigliere
Giovanni Sabbato – Consigliere
Antonella Manzione – Consigliere, Estensore
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Per aprire la pagina facebook @avvrenatodisa
cliccare qui
Leave a Reply