Corte di Cassazione, sezione terza penale, Sentenza 3 dicembre 2018, n. 53980.
La massima estrapolata:
Del reato di omessa presentazione della dichiarazione risponde l’imprenditore anche se l’incarico era stato affidato ad un commercialista. Per quantificare l’imposta evasa, poi, è corretto considerare i costi non documentati solo ai fini delle imposte dirette mentre, per l’Iva, occorre la prova dell’esistenza delle fatture.
Sentenza 3 dicembre 2018, n. 53980
Data udienza 16 luglio 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI NICOLA Vito – Presidente
Dott. GALTERIO Donatella – Consigliere
Dott. ACETO Aldo – Consigliere
Dott. REYNAUD Gianni F – rel. Consigliere
Dott. ANDRONIO Alessandro M. – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 24/01/2018 della CORTE APPELLO di MILANO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. ALESSANDRO MARIA ANDRONIO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott. GIULIO ROMANO;
Il Proc. Gen. conclude per il rigetto.
RITENUTO IN FATTO
1. – Con sentenza del 24 gennaio 2018, la Corte d’appello di Milano ha parzialmente riformato la sentenza del 15 giugno 2016 del Tribunale di Milano, che aveva condannato l’imputato, per il reato di cui all’articolo 81 c.p., comma 2, e del Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 5 perche’, in qualita’ di legale rappresentante della (OMISSIS) s.c.r.l., al fine di evadere l’IVA, aveva omesso di presentare, pur essendone obbligato, la dichiarazione annuale relativa a tale imposta per gli anni 2008 e 2009. Il Tribunale aveva invece assolto l’imputato per l’omessa dichiarazione IRES, concernente le stesse annualita’. La Corte d’appello di Milano ha dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione con riferimento all’annualita’ IVA 2008 ed ha confermato nel resto la sentenza impugnata, rideterminando la pena per il reato residuo.
2. – Avverso la sentenza l’imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.
2.1. – Con un primo motivo di doglianza, si prospettano vizi della motivazione in relazione alla responsabilita’ penale, sul rilievo che la Corte d’appello avrebbe erroneamente confermato la sentenza di primo grado nel punto in cui, pur avendo assolto l’imputato per il reato concernente l’omessa dichiarazione IRES per la sussistenza di costi fattuali di cui non sarebbe stato possibile affermare con certezza l’inesistenza, aveva contraddittoriamente condannato lo stesso per l’omessa dichiarazione ai fini IVA, pur avendo la difesa addotto la sussistenza dei medesimi costi valutati positivamente per l’esclusione dei reato concernete l’imposta sui redditi delle societa’.
2.2. – Con un secondo motivo di ricorso, strettamente connesso al primo, si censurano la violazione di legge e il vizio di motivazione con riferimento all’omessa disamina della consulenza tecnica della difesa con riferimento al reato concernente l’omessa dichiarazione IVA. La sentenza impugnata avrebbe errato nel non considerare le risultanze della consulenza tecnica di parte – che aveva dimostrato l’insussistenza del reato di omessa dichiarazione IVA, stante la detraibilita’ dei costi sostenuti dalla societa’, come provati in dibattimento – contravvenendo, in tal modo, al principio giurisprudenziale secondo cui, nell’ambito dei reati tributari, deve ritenersi prevalente il dato fattuale rispetto ai criteri di natura meramente formale che caratterizzano l’ordinamento tributario, ben potendo la verifica effettuata dal giudice penale entrare in contrasto con l’accertamento fiscale.
2.3. – Con un terzo motivo di ricorso, si deducono vizi di motivazione in ordine alle doglianze difensive volte a sostenere che l’imputato era estraneo ai fatti, essendo invece responsabile il commercialista della societa’, dott. (OMISSIS), resosi irreperibile a seguito dell’omissione. In particolare, la Corte territoriale avrebbe apoditticamente richiamato la statuizione dei giudici di primo grado sul punto, senza valutare le specifiche doglianze difensive proposte con l’atto d’appello: i giudici del gravame non avrebbero spiegato perche’ si dovesse ritenere irrilevante la sussistenza di una delega che autorizzava il commercialista al compimento degli adempimenti fiscali per la societa’ autorizzata; non avrebbero compiuto alcuna valutazione in ordine al contributo oggettivo e soggettivo fornito dall’imputato nel reato contestato; avrebbero presunto il dolo da un comportamento ordinario, quale l’affidamento della contabilita’ ad un professionista del settore; non avrebbero considerato che, secondo quanto riferito dalla teste (OMISSIS), l’imputato retribuiva regolarmente il commercialista e riceveva dallo stesso frequenti rassicurazioni in ordine agli adempimenti fiscali di cui era incaricato; avrebbero screditato sul punto la stessa teste (OMISSIS) che per tutti gli ulteriori profili su cui aveva riferito era stata ritenuta attendibile; e, infine, non avrebbero considerato che l’improvvisa sparizione del dott. (OMISSIS) aveva reso materialmente impossibile per il (OMISSIS) provvedere agli adempimenti obbligatori, stante l’impossibilita’ di entrare in possesso di tutta la documentazione nella disponibilita’ del commercialista. Ulteriori rilievi riguardano il fatto che la Corte territoriale avrebbe dato per acclarata la sussistenza di un’imposta di rilievo da versare, salvo poi concordare sul risultato negativo degli esercizi in contestazione.
2.4. – Con un ulteriore motivo di ricorso, si deducono vizi della motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo specifico in capo all’imputato. La Corte d’appello avrebbe completamente omesso di rispondere alle doglianze volte a sostenere che l’imputato aveva agito in modo incolpevole o quanto piu’ negligente, ma sicuramente non sollecitato dal fine di evadere le imposte.
2.5. – Con un quinto motivo di ricorso, si censurano la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine al mancato riconoscimento della causa di non punibilita’ di cui all’articolo 131 bis c.p.. In particolare, secondo la difesa, la Corte territoriale avrebbe erroneamente negato il riconoscimento della predetta causa di non punibilita’ sulla base della non “sporadicita’ della condotta” e dellmentita’ dell’imposta evasa”, elementi entrambi illogici, vista l’unicita’ della vicenda e la detraibilita’ dell’IVA oggetto dell’addebito.
2.6. – Con un ulteriore motivo di ricorso, si contesta la determinazione della sanzione ex articolo 133 c.p.. In particolare, secondo la prospettazione difensiva, la Corte d’appello non avrebbe speso alcun argomento con riferimento alla determinazione del trattamento sanzionatorio, laddove, il notevole ridimensionamento delle contestazioni a seguito dell’istruzione dibattimentale e l’incensuratezza dell’imputato l’avrebbero dovuta persuadere a contenere la sanzione irrogata nel minimo edittale.
2.7. – Con un settimo motivo, si contesta la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, sul rilievo che i giudici del gravame non avrebbero tenuto in considerazione le emergenze processuali e le doglianze d’appello, e soprattutto non avrebbero valorizzato il comportamento processuale dell’imputato, che non si sarebbe mai sottratto al contraddittorio con le autorita’, cosi’ fornendo un contributo fattivo al processo, sia con la sua presenza sia con la nomina di un consulente tecnico per la ricostruzione dell’accaduto. Al tempo stesso, i giudici del gravame avrebbero erroneamente valorizzato l’assenza di resipiscenza da parte dell’imputato e la scarsa verosimiglianza del narrato dello stesso, senza considerare da un lato che le attenuanti generiche non possono rappresentare un premio per l’ammissione degli addebiti, e dall’altro che la tesi dell’imputato, riscontrata dalla teste (OMISSIS) e dalla consulenza tecnica in atti, era stata accolta dal primo giudice che, infatti, aveva assolto il (OMISSIS) dalle contestazioni in materia di IRES.
2.8. – Con un ulteriore motivo di ricorso si censura il vizio di motivazione e la violazione di legge con riferimento al mancato riconoscimento della circostanza di cui al primo comma dell’articolo 114 c.p.. Si sostiene che a Corte Territoriale avrebbe completamente omesso di rispondere alle doglianze volte ad evidenziare il comprovato e preponderante ruolo svolto nella vicenda dal commercialista (OMISSIS).
2.9. – Si censura, poi, la rideterminazione della pena a seguito del proscioglimento dell’imputato dalla contestazione relativa all’anno di imposta 2008. Secondo la prospettazione difensiva, la Corte d’appello nel prendere atto dell’intervenuta prescrizione di uno dei reati in contestazione, avrebbe ridotto di tre mesi la pena della reclusione, senza spiegare l’iter logico-giuridico seguito.
2.10. – Con un ultimo motivo di ricorso, si lamenta la mancanza di motivazione con riferimento alla richiesta di correzione di errore materiale di cui all’articolo 130 c.p.p., sollevata dalla difesa con riferimento ad una discrepanza letterale della prima sentenza, che a pag. 8 aveva erroneamente indicato quale data della sentenza il 15 maggio 2016, e non, come corretto, il 15 giugno 2016.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. – Il ricorso e’ infondato.
3.1. – Il primo motivo di ricorso – riferito alla mancata considerazione della sussistenza di costi fattuali detraibili anche in relazione all’IVA – e’ infondato.
Del tutto correttamente i giudici di primo e secondo grado affermano che la sussistenza di costi effettivi non documentati puo’ esplicare effetti sulla determinazione della base imponibile e conseguentemente sulla determinazione dell’imposta, solo con riferimento ai reati concernenti le imposte dirette e non con riferimento all’IVA. Quest’ultima imposta, infatti, e’ collocata in un sistema chiuso di rilevanza sovranazionale che puo’ funzionare solo attraverso la specifica tracciabilita’ di tutte le fatture, attive e passive, emesse nei traffici commerciali, a nulla rilevando l’eventuale ed ipotetica sussistenza di costi effettivi non registrati che, in quanto tali non possono esplicare alcun effetto sulla determinazione della base imponibile e, conseguentemente sulla quantificazione dell’imposta evasa; con la conseguenza che l’accertamento del reato di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 5 non puo’ prescindere dall’allegazione documentale dei costi sostenuti. Infatti, la giurisprudenza richiamata dalla difesa – secondo cui il giudice penale deve compiere una valutazione che prescinda dal mero dato formale emerso nel corso dell’accertamento tributario, valorizzando il dato fattuale formatosi nel corso del processo (ex plurimis Sez. 3, n. 53907 del 01/06/2016; Sez. 3, n. 38684 del 04/06/2014; Sez. 3, n. 37131 del 09/04/2013) – non intende scorporare l’accertamento dell’evasione IVA dal dato documentale delle fatture emesse, ma intende neutralizzare il rischio di un’eventuale pregiudiziale di carattere fiscale e dunque escludere che il giudice penale sia vincolato alle risultanza emerse in sede tributaria, ben potendo, al contrario, svolgere egli stesso una nuova analisi, del tutto automa rispetto al dato formale cristallizzato in sede tributaria, attraverso la quale valorizzare eventuali documenti che l’imputato non aveva, per qualsiasi ragione, presentato durante l’accertamento fiscale, ma puo’ presentare in sede penale. Per questa ragione e’ piu’ che legittima la statuizione del giudice di merito che valorizzi eventuali costi non documentati con riferimento alle imposte dirette – non vincolate al rispetto di stringenti oneri documentali, la cui mancanza ne impedirebbe il funzionamento intrinseco – e, contemporaneamente, escluda la rilevanza di tali costi, non certificati dalle fatture emesse, per i reati in materia IVA. Bene hanno fatto, pertanto, il Tribunale e la Corte d’appello di Milano ad escludere la sussistenza del reato con riferimento al reato concernente l’IRES, a fronte della prova dichiarativa e della consulenza tecnica circa la sussistenza di eventuali costi sostenuti dall’impresa, e a confermare, invece, la sussistenza del reato IVA, vista l’assenza di qualsivoglia prova documentale circa l’effettivita’ dei costi asseriti.
3.2. – Il secondo motivo di ricorso – con cui si censura l’omessa valutazione della consulenza tecnica di parte per il reato concernente l’IVA – e’ anch’esso infondato, in forza di quanto gia’ osservato sub 3.1., da cui consegue che tanto la prova dichiarativa, quanto la consulenza tecnica che siano dirette ad accertare l’eventuale sussistenza di costi effettivi sostenuti dall’impresa, possono trovare spazio nel processo penale solo con riferimento a reati fiscali concernenti le imposte dirette, le quali, come gia’ sottolineato, non sono soggette a specifici obblighi di documentazione e, conseguentemente, consentono un accertamento fattuale fondato su elementi diversi dall’emissione di fatture passive. Le prove dichiarative e la consulenza tecnica non trovano spazio, invece, con riferimento ai reati in materia di IVA che, come gia’ abbondantemente precisato, non possono prescindere dall’allegazione documentale degli eventuali costi sostenuti e, conseguentemente non consentono di valorizzare elementi empirici, non certificati, ricostruiti tramite prova diversa dalle fatture comprovanti l’esistenza di un credito di imposta. Correttamente, dunque, i giudici del merito hanno valorizzato le risultanze della consulenza tecnica con riferimento al reato IRES e ne hanno escluso la rilevanza con riferimento al reato IVA, stante la totale assenza di fatture che potessero certificare i costi sostenuti.
3.3. – Il terzo motivo di ricorso – volto a sostenere l’esclusiva responsabilita’ del commercialista della societa’ per il reato contestato – e’ inammissibile, perche’ consiste nella mera riproposizione di doglienze gia’ esaminate e motivatamente disattese dai giudici di merito. E risulta, comunque, del tutto logica e coerente la valutazione della sentenza impugnata, secondo cui l’eventuale (e neppure accertata) delega attribuita al commercialista per l’adempimento degli oneri contabili e fiscali dell’azienda non esonera l’imprenditore dal predetto adempimento, perche’ quest’ultimo resta comunque il soggetto direttamente onerato dell’obbligo di provvedere al pagamento delle relative imposte. L’obbligo annuale di presentazione della dichiarazione fiscale non puo’, infatti, essere oggetto di delega di funzioni perche’ non integra un’attivita’ duratura e continuativa attribuita alla gestione e al controllo di altro soggetto che agisce sotto la superiore vigilanza dell’imprenditore (circostanza che avviene, ad esempio, in materia di sicurezza sul lavoro), ma, al contrario, integra un adempimento unico e specifico che resta, pertanto, in capo al solo titolare dell’obbligo e dunque al rappresentante legale della societa’. Non per altro, la fattispecie di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 5 integra un reato omissivo proprio di cui, appunto, risponde il solo soggetto titolare dell’obbligo di presentazione della dichiarazione (ex plurimis Sez. 3, n. 37856 del 18/06/2015; Sez. 3, n. 9163 del 29/10/2009). Quest’ultimo non sara’ dunque scriminato nel caso – come quello di specie – in cui il professionista delegato alla gestione della contabilita’ aziendale non presenti la dichiarazione obbligatoria, dovendo egli stesso controllare l’operato del commercialista e, ove necessario, provvedere in tal senso.
3.4. – Parimenti inammissibile – perche’ ripetitivo di doglianze gia’ proposte – e’ il quarto motivo di ricorso, con cui si censura il vizio di motivazione con riferimento all’accertamento del dolo specifico richiesto dal Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 5. Deve in ogni caso rilevarsi che la Corte d’appello ha fornito sul punto una motivazione pienamente logica e coerente, perche’ ha valorizzato dati oggettivi e dirimenti – quali il cospicuo ammontare dell’imposta evasa (notevolmente superiore rispetto alla soglia di punibilita’ vigente), la protrazione per oltre tre esercizi dell’inottemperanza e la qualita’ di evasore totale della societa’ rappresentata dall’imputato anche per l’anno 2010 e dunque per un esercizio ulteriore rispetto a quelli in imputazione – nel pieno rispetto del principio giurisprudenziale secondo cui in tema di reati tributari, la prova del dolo specifico di evasione, nel delitto di omessa dichiarazione di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 5 puo’ essere desunta dall’entita’ del superamento della soglia di punibilita’ vigente, unitamente alla piena consapevolezza da parte del soggetto obbligato dell’ammontare dell’imposta dovuta (ex plurimis Sez. 3, n. 18936 del 19/01/2016).
3.5. – Manifestamente infondato e’ anche il motivo di ricorso sub 2.5., con cui si censura il mancato riconoscimento della causa di non punibilita’ di cui all’articolo 131 bis c.p.. A prescindere dall’assoluta genericita’ dei rilievi difensivi sul punto, si ritiene pienamente condivisibile la statuizione della Corte d’appello che ha ritenuto insussistente la predetta causa di non punibilita’ sulla base di elementi correttamente ritenuti rilevanti in senso contrario, quali la non sporadicita’ della condotta, desumibile dalla protrazione prolungata delle omissioni in esame, e, soprattutto l’ammontare dell’imposta evasa che esclude senza alcun dubbio l’integrazione di un fatto tenue. Deve oltretutto ricordarsi, che, in tema di reati tributari la discrezionalita’ del giudice di merito con riferimento alla possibilita’ di applicare il disposto del 131 bis cod. pen., risulta fortemente limitata, dal momento che la gravita’ del fatto contestato e’ gia’ stata valutata in astratto dal legislatore attraverso la predisposizione di specifiche soglie di punibilita’, sicche’ il fatto puo’ essere ritenuto concretamente tenue e dunque meritevole dell’applicazione della causa di non punibilita’, solo quando l’ammontare dell’imposta evasa sia vicinissimo alla soglia di non punibilita’ predeterminata dal legislatore (ex plurimis Sez. 3, n. 13218 del 20/11/2015; Sez. 3, n. 40774 del 05/05/2015). Tale circostanza non e’ certo sussistente nel caso di specie ove l’imposta evasa per l’unica contestazione per la quale ancora si procede, e’ quantificata in Euro 477.773,00.
3.6. – Inammissibile e’ anche il motivo di ricorso sub 2.6., con cui si censura il mancato contenimento della sanzione nel minimo edittale previsto per il reato contestato. A tale proposito, si rileva che – contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa – la sanzione applicata all’imputato – un anno di reclusione – coincide con il minimo edittale allora previsto dal Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 5 e – come correttamente osservato dalla Corte territoriale – non e’ ulteriormente riducibile, stante il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. Percio’, alcun vizio di motivazione e’ riscontrabile nella sentenza impugnata, pienamente rispettosa del principio secondo cui nel caso in cui venga irrogata inferiore alla media edittale, l’obbligo di motivazione del giudice si attenua; di talche’ e’ sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all’articolo 133 c.p. (ex plurimis Sez. 2, n. 28852 del 08/05/2013; Sez. 1, n. 24213 del 13/03/2013).
3.7. – Inammissibile e’ anche il motivo di ricorso con cui si censura il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. A tale proposito, deve ricordarsi che, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, non e’ necessario che il giudice preda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma e’ sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (ex plurimis Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014; Sez. 2, n. 2285 del 11/10/2004). Nel caso di specie si condivide pienamente la statuizione, ben argomentata, della Corte d’appello che ha ritenuto di negare la concessione del beneficio sulla base di elementi dirimenti e assorbenti rispetto a qualsiasi profilo di senso contrario, quali l’assenza di resipiscenza da parte dell’imputato e la condotta processuale dello stesso, che ha insistentemente proposto tesi di scarsa verosimiglianza. Orbene, a tale proposito si rileva che – contrariamente a quanto statuito dalla difesa – il riferimento dei giudici del merito alla scarsa verosimiglianza non riguarda l’eventuale sussistenza di costi fattuali sostenuti dall’azienda, ne’, tanto meno l’effettiva esistenza di un commercialista delegato alla gestione della contabilita’ aziendale, quanto invece l’impossibilita’, di fatto accertata, che l’imputato non si sia accorto, per bene tre esercizi fiscali, di non pagare alcuna imposta. Tale elemento, unito all’assenza di qualsivoglia elemento positivo di giudizio, giustifica pienamente il mancato riconoscimento delle circostanze in parola.
3.8. – Manifestamente infondato e’ anche il motivo di ricorso con cui si censura il mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’articolo 114 c.p., comma 1. Nessuna lacuna motivazionale e’ riscontrabile sul punto, dal momento che l’applicazione dell’articolo 114 c.p., comma 1, e’ esclusa ex lege. Infatti, la circostanza attenuante di avere prestato un contributo minimo nel fatto realizzato ex articolo 110 o 113 c.p., prevede, per l’appunto, che gli imputati abbiano agito in concorso tra loro. Sicche’ la circostanza in questione non puo’ mai applicarsi al di fuori delle ipotesi di concorso di persone nel reato. Ma nel caso di specie all’imputato non e’ stato condannato in concorso con altro soggetto, ne’ l’articolo 110 c.p. e’ stato contestato in imputazione.
3.9. – Inammissibile e’, altresi’, il motivo di ricorso sub 2.9, con cui si censura l’assenza di motivazione in ordine al ridimensionamento della pena a seguito del proscioglimento da uno dei reati posti in continuazione. Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, infatti, i giudici del gravame hanno accuratamente motivato sul punto, individuando in mesi tre di reclusione la pena prevista per il reato posto in continuazione e venuto meno per intervenuta prescrizione e, dunque ridimensionando la sanzione, originariamente fissata in anni 1 e mesi 3 di reclusione.
4. – Il ricorso, conseguentemente, deve essere rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Quanto, infine, alla correzione dell’errore materiale ex articolo 130 c.p.p., la stessa deve essere disposta, non determinando in ogni caso l’annullamento della sentenza sul punto – e, dunque, non incidendo sulla gia’ rilevata soccombenza totale del ricorrente – nel senso che, alla pag. 8 di questa, il riferimento alla data di pronuncia della sentenza “15.5.2016” deve intendersi sostituito con “15.6.2016”.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Dispone la correzione dell’errore materiale contenuto alla pagina 8 della sentenza pronunciata del Tribunale di Milano n. 8404 del 15/06/2016, nel senso che il riferimento alla data di pronuncia della sentenza “15.5.2016” deve intendersi sostituito con “15.6.2016”. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di sua competenza.
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