Per una volta, sento il bisogno di comunicare, invece del solito razionale commento, uno puro stato emozionale.
Provo un grande imbarazzo a parlarne, e per naturale riserbo e nel timore di non essere adeguato all’ambizioso compito. L’occasione mi è stata offerta dall’iniziativa editoriale del Corriere, con la distribuzione dello scorso Sabato dell’Ifigenia in Aulide. In debito con le mie reminiscenze liceali, non potevo non leggere l’opera, che era lì a portata di mano, e che quasi prepotentemente mi chiamava.
Mi sono lasciato andare come un bambino rispetto all’ignoto, e ho vissuto la più bella mattinata degli ultimi anni.
Solo a un poeta è dato descrivere con pochi versi la pienezza di un’emozione. Penso all’angoscia in Leopardi, all’amore in Dante, alle note di Pasolini, per restare in tema, poste in calce alla sua traduzione dell’Orestiade di Eschilo ( .. mi son buttato sul testo come una belva in pace). Sono rimasto per alcune ore come intontito dalla liricità del testo e dai profondi contenuti del dramma, che , a distanza di 2500 anni, mi appaiono quanto di più attuale ci possa essere. La follia dei vati. La smodata ambizione che divora un padre, Agamennone, fino a indurlo a sacrificare la diletta figlia.
La tragedia di una madre, Clitemestra, che inutilmente tenta di contrastare il drammatico destino della figlia. La codardia di Achille, l’eroe invincibile, rispetto al volere della folla achea. La demagogia della folla tumultuante. La grande figura di un fanciulla innocente, che si immola per quello che sembra essere il bene comune. L’intervento infine salvifico della divinità. Un sentimento di grande sgomento e di inconsolabile angoscia mi hanno assalito man mano che procedevo nella lettura, sempre più famelica, del testo,come padre e come uomo. In quanto tale, mi è sembrato di vivere un incubo accusatorio, sia pur collettivo, da cui non riuscivo a difendermi. Eppure ero fortemente grato ad Euripide, per avermi sfacciatamente squadernato sulla faccia le nefandezze umane, che ciascuno, per ignavia o per spirito di sopravvivenza, spesso tende a dimenticare. Un bagno di umiltà veramente salutare. E nel contempo, per altro verso, mi compiacevo con la genialità dell’opera, che, con grande lungimiranza, esaltava il ruolo della donna e disprezzava le meschinità degli uomini. Con una chiusura politica di censura delle istituzioni dell’epoca, di grande scuola per i cultori della materia.
E contro la Superstizione, che è il tema dominante dell’opera, mi piace ricordare il celebre commento di Lucrezio, che nel de rerum natura, proprio a proposito del dramma di Ifigenia, afferma: Tantum religio potuit suadere malorum, ove per religio, letteralmente superstizione, può esser inteso qualsiasi mostro, che in passato, nel presente e nel futuro, potrà produrre ( suadere) scelleratezze( malorum) per il genere umano.
Ed Euripide, con la stupenda chiosa finale, dopo avermi sballottato sapientemente, mi ha riportato al piacere della vita, indicando la possibilità di una speranza nel futuro del destino umano: il provvidenziale intervento di un deus ex machina, che ha miracolosamente sottratto Ifigenia alla triste fine imposta dalla Superstizione.
Il dramma si chiude quindi con la vittoria finale dell’Intelligenza sull’Ignoranza.
Questo deve essere, comunque e nonostante tutto, il nostro credo.
articolo a firma Mario Colantonio
pubblicato su Corriere del Mezzogiorno, Pagina della Cultura, edizione del 7.07.2012, intitolato: “L’intelligenza vince l’ignoranza”
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