Corte di Cassazione, civile, Sentenza|23 dicembre 2022| n. 37747.

Le eccezioni vietate in appello sono soltanto quelle in senso proprio

Le eccezioni vietate in appello, ai sensi dell’articolo 345, comma secondo, del Cpc, sono soltanto quelle in senso proprio, ovvero “non rilevabili d’ufficio”, e non, indiscriminatamente, tutte le difese, comunque svolte dalle parti per resistere alle pretese o alle eccezioni di controparte, potendo i fatti su cui esse si basano e risultanti dalle acquisizioni processuali essere rilevati d’ufficio dal giudice alla stregua delle eccezioni “in senso lato” o “improprie”.

Sentenza|23 dicembre 2022| n. 37747. Le eccezioni vietate in appello sono soltanto quelle in senso proprio

Data udienza 25 novembre 2022

Integrale

Tag/parola chiave: IGIENE E SANITA’ – RESPONSABILITA’ PROFESSIONALE

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINI Giacomo – Presidente

Dott. RUBINO Lina – Consigliere

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere

Dott. VINCENTI Enzo – rel. Consigliere

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 38/2020 R.G. proposto da:
(OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentati e difesi dall’avvocato (OMISSIS);
– ricorrenti –
contro
REGIONE CAMPANIA, in persona del Presidente della Giunta regionale pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA POLI 29 (c/o Ufficio rapp.za Regione Campania), rappresentata e difesa dagli avvocati (OMISSIS) e (OMISSIS);
GESTIONE LIQUIDATORIA EX (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato MASSIMO DE MATTIA, rappresentata e difesa dall’avvocato GIULIO RUSSO;
– controricorrenti –
e contro
(OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS);
– intimati –
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO NAPOLI n. 1048/2019 depositata il 26/02/2019.
Udita la relazione della causa svolta – tenutasi ai sensi del Decreto Legge n. 137 del 2020, articolo 23, comma 8 bis, convertito, con modificazioni, nella L. n. 176 del 2020 (ed oggetto di successive proroghe) – nella camera di consiglio del 25/11/2022 dal Consigliere Dr. ENZO VINCENTI;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dr. FRESA MARIO, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

FATTI DI CAUSA

1. – Con ricorso affidato a sei motivi, (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), in proprio e quali eredi di (OMISSIS), hanno impugnato la sentenza della Corte di appello di Napoli, resa pubblica in data 26 febbraio 2019, che – nella controversia risarcitoria per responsabilita’ sanitaria promossa in conseguenza del decesso di (OMISSIS) avvenuto il (OMISSIS) a causa di complicanze di intervento chirurgico e sulle impugnazioni proposte avverso la decisione di primo grado (resa dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, sezione distaccata di Caserta, che, in accoglimento della domanda attorea, condannava, in solido tra loro, i convenuti Regione Campania, Gestione Liquidatoria della soppressa U.S.L. n. (OMISSIS) e il medico (OMISSIS) al pagamento della somma di Euro 1.140.825,05, a titolo di danno patrimoniale, e della somma di Euro 323.982,48, a titolo di danno non patrimoniale, al lordo della provvisionale di Euro 38.734,26 liquidata in sede penale) -, cosi’ provvedeva: a) rigetto dell’appello incidentale degli attuali ricorrenti; b) accoglimento dell’appello principale proposto dalla Regione Campania e dalla Gestione Liquidatoria e, per l’effetto, in parziale riforma della sentenza di primo grado: b.1.) rideterminazione “nel complessivo importo di 566.623 Euro, in valori monetari correnti alla data del 5 Marzo 2009, (del)l’ammontare del danno patrimoniale subito dagli attori a causa della perdita del contributo economico alla vita familiare offerto dal congiunto premorto”; b.2) condanna dei convenuti Regione Campania, Gestione Liquidatoria e (OMISSIS), in solido tra loro, al pagamento, in favore degli attori della predetta somma di Euro 566.623, oltre accessori, detratta la provvisionale liquidata in sede penale; b.3) compensazione per la meta’ delle spese del doppio di grado di giudizio e condanna solidale dei predetti convenuti al pagamento, in favore degli attori, della restante meta’ delle spese processuali, come liquidate in dispositivo.
1.1. – La Corte territoriale, a fondamento della decisione (e per quanto ancora rileva in questa sede), osservava: a) era parzialmente fondato il motivo di appello principale (che non introduceva una eccezione in senso stretto in violazione del divieto di cui all’articolo 345 c.p.c., comma 2) sull’erronea liquidazione dei danni risarcibili per non aver il Tribunale tenuto conto “della pregressa situazione patologica del paziente e della sua concreta aspettativa di vita al momento dell’esecuzione dell’intervento chirurgico per cui e’ causa, notevolmente inferiore a quella di una persona sana (57 anni)”; a.1.) in base alla c.t.u. disposta, nel grado di appello, “sul tema” e al fine di assumere le “opportune determinazioni del caso” per la determinazione del quantum debeatur, nonche’ tenuto conto delle osservazioni del c.t.p. degli attori, l’aspettativa di vita del paziente (e, quindi, anche “la probabile durata del periodo di protrazione della capacita’… di produrre redditi lavorativi”) era da “determinarsi in un arco temporale di 8 anni”; a.2) quanto ai danni patrimoniali “da perdita del contributo economico offerto dal (OMISSIS) alla vita familiare”, erano corretti i “presupposti numerici dell’operazione utilizzati dal primo giudice” (e, in particolare, l’ammontare del reddito annuo netto percepito dal (OMISSIS) al momento del decesso (88.901,29 Euro), dovendosi altresi’ escludere aumenti “in maniera rilevante” di tale reddito dopo il 1993, “al di la’ della maturazione dei periodici scatti di anzianita’; la quota sibi di 1/4 del reddito netto (22.225,32 Euro)), che (beneficiando il coniuge del contributo del marito per tutto l’arco temporale predetto) andavano correlati al “numero presumibile di anni” per i quali i figli, tenuto conto della rispettiva eta’ (26 anni (OMISSIS) e 22 anni (OMISSIS)), “avrebbero continuato a beneficiare del contributo paterno”, ossia 2 anni per la figlia (OMISSIS) e 6 anni per il figlio (OMISSIS), dovendosi, altresi’, aggiungere in favore di ciascuno le “provvidenze aggiuntive spontaneamente elargite dal padre dopo il presumibile raggiungimento… dell’indipendenza economica” (quantificabili in Euro 10.000,00 all’anno); a.3) pertanto, tenuto conto del contributo economico offerto dal defunto ammontante ad Euro 23.000,00 annui (comprensivo degli incrementi stipendiali per scatti di anzianita’), ne conseguiva che: al coniuge spettavano Euro 184.000,00 (23.000 Euro per 8 anni); alla figlia (OMISSIS) spettavano Euro 60.000 (23.000 Euro per 2 anni + Euro 10.000 per 6 anni); al figlio (OMISSIS) spettavano Euro 158.000 (23.000 Euro per 6 anni + Euro 10.000 per 2 anni); a.4) i convenuti erano, quindi, tenuti, in solido, al pagamento del complessivo importo risarcitorio di Euro 448.000,00, da rivalutarsi al 5 marzo 2009 e, quindi, in definitiva, della somma di Euro 566.623,00, oltre accessori; b) in punto di liquidazione delle spese processuali del doppio grado di giudizio in favore degli attori (compensate per la meta’), occorreva fare riferimento, quanto al secondo grado, al valore della controversia in applicazione del Decreto Ministeriale n. 55 del 2014, articolo 5, comma 1, e, quindi, “alle somme definitivamente attribuite alla parte vincitrice”, applicando il “valore medio” di cui al § 12 della tabella, non potendo, altresi’, essere “riconosciuto il rimborso delle spese indicate nella nota depositata dal difensore dei (OMISSIS)- (OMISSIS), in quanto non specificate”.
2. – Hanno resistito con distinti controricorsi la Regione Campania e la Gestione Liquidatoria ex USL n. (OMISSIS).
Il pubblico ministero ha depositato le proprie conclusioni scritte ai sensi del Decreto Legge n. 137 del 2020, articolo 23, comma 8-bis, (convertito, con modificazioni, nella L. n. 176 del 2020) e Decreto Legge n. 228 del 2021, articolo 16 (convertito, con modificazioni, nella L. n. 15 del 2022), con le quali ha chiesto che il ricorso venga rigettato.
I ricorrenti hanno depositato memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo mezzo e’ denunciata, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4, “nullita’ della sentenza per vizio di ultra o extra petizione ex articolo 112 c.p.c…. laddove il giudice di appello ha emesso un provvedimento diverso da quello richiesto, cosi’ pronunciandosi oltre i limiti delle pretese e delle eccezioni fatte valere dai contraddittori in appello”.
La Corte territoriale avrebbe dovuto rigettare le impugnazioni proposte dalla Regione Campania e dalla Gestione Liquidatoria “non avendo le parti formulato alcuna domanda di riduzione dell’importo liquidato per il danno patrimoniale ma solo di esclusione del medesimo danno”.
1.1. – Il motivo e’ infondato e cio’ anche a prescindere dall’aver le parti appellanti incidentali richiesto o meno la riduzione dell’importo risarcitorio spettante agli attori.
1.1.1. – Il principio della corrispondenza fra il chiesto ed il
pronunciato puo’ ritenersi violato non gia’ quando il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, ovvero in base alla qualificazione giuridica dei fatti medesimi ed all’applicazione di una norma giuridica diverse da quelle invocate dall’istante, ma ogni qual volta, interferendo nel potere dispositivo delle parti, il giudice stesso alteri alcuno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione (petitum e causa petendi), attribuendo o negando ad uno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nell’ambito della domanda o delle richieste delle parti.
Ne consegue che non incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice che esamini una questione non espressamente formulata, tutte le volte che questa debba ritenersi tacitamente proposta, in quanto in rapporto di necessaria connessione con quelle espressamente formulate (tra le altre, Cass. n. 22595/2009; Cass. n. 513/2019; Cass. n. 17897/2019).
E tanto e’ da ritenersi anche la’ dove, in grado di appello, si contesti integralmente la pretesa attorea di risarcimento del danno e se ne richieda il rigetto, cio’ palesandosi come piu’ ampia richiesta idonea a ricomprendere, sia pure implicitamente, la richiesta di riduzione della somma che il primo giudice aveva gia’ riconosciuta, al medesimo titolo, in favore della parte attrice (v., segnatamente, Cass. n. 22595/2009, citata), senza che, per cio’ stesso, vengano, quindi, alterati gli elementi identificativi della promossa azione risarcitoria (alterazione che, del resto, non e’ affatto ravvisabile nella specie alla stregua del tenore degli appelli proposti dalla Regione Campania e dalla Gestione Liquidatoria, come risulta sia dalla sentenza impugnata – cfr. pp. 4 e 5 – sia dal ricorso – cfr. pp. 12 e 13 – la’ dove sono riportate le doglianze dei medesimi appellanti).
1.1.2. – E’, poi, inammissibile (prima ancora che manifestamente infondata per le ragioni gia’ evidenziate) la censura di violazione dell’articolo 342 c.p.c., che i ricorrenti hanno proposto con la memoria ex articolo 378 c.p.c., la quale ha solo funzione illustrativa dei motivi di ricorso e non gia’ integrativa e/o emendativa degli stessi (tra le molte: Cass. n. 5000/1986; Cass. n. 26670/2014; Cass. n. 26332/2016; Cass. n. 8939/2021).
2. – Con il secondo mezzo e’ dedotta, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, “omessa valutazione di un fatto decisivo della controversia… laddove il Giudice dell’appello ha omesso di valutare che il Giudice del primo grado aveva invece considerato le prospettive di vita del de cuius ai fini della valutazione del danno”.
La Corte territoriale avrebbe motivato la propria decisione “come se il Giudice di primo (grado) non avesse tenuto conto, nella liquidazione del danno patrimoniale da lucro cessante, delle prospettive di vita del de cuius e non lo avesse personalizzato”, tuttavia, contraddicendosi la’ dove, poi, ha posto in rilievo (pp. 8 e 9 della sentenza di appello) che lo stesso Tribunale aveva affermato che il danno da perdita del rapporto parentale “va liquidato ave(ndo) riguardo al periodo di tempo nel quale si sarebbe presumibilmente esplicato il godimento del congiunto che l’illecito ha invece reso impossibile”, per poi fare corretta applicazione, ai fini della liquidazione del danno patrimoniale, di tale criterio, utilizzando (oltre agli incontestati “presupposti numerici”) il dato temporale – riconosciuto dal medesimo giudice di secondo grado – di “una prospettiva di vita di 12 anni”.
3. – Con il terzo mezzo e’ prospettata, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, “omessa valutazione di fatti decisivi della controversia”.
La Corte territoriale: a) avrebbe utilizzato per la liquidazione del danno parametri affatto diversi da quelli utilizzati dal primo giudice senza dare conto delle ragioni della propria decisione e violando anche il principio di non contestazione, di cui all’articolo 115 c.p.c., non essendo i criteri “stati espressamente contestati da controparte”, e “per di piu’ senza utilizzare alcun coefficiente di capitalizzazione”; b) non avrebbe tenuto conto di “alcun incremento equitativo” del reddito in ragione degli sviluppi futuri, in violazione dell’articolo 1223 c.c., in quanto, omettendo di esaminare “tutta la documentazione in atti”: b.1) non avrebbe corretto l’errore materiale commesso dal primo giudice in ordine all’individuazione del reddito netto del defunto, che era non gia’ Euro 88.901,29, ma pari ad Euro 93.291,74 (“sommando i redditi, riducendo degli oneri e aumentato dei redditi esenti”), in base “al modello 740 dell’anno 1994 relativo ai redditi del 1993 in atti”; b.2) non avrebbe considerato gli aumenti stipendiali e gli incrementi di reddito per “incarichi esterni” in ragione della progressione in carriera del defunto (che, come magistrato della Corte dei conti, sarebbe andato in pensione a 75 anni e “avrebbe sicuramente e non solo presumibilmente raggiunto la carica di Presidente di Sezione”; c) non avrebbe tenuto conto di tutte le osservazioni dei consulenti di parte ai fini della determinazione della prospettiva di vita del defunto: queste indicavano, come dato temporale medio, anni 19 e, se poste a raffronto con le indicazioni del c.t.u. (5 anni), la media temporale risultava essere di anni 12, ossia quella correttamente utilizzata dal Tribunale e non quella di 8 anni erroneamente presa in considerazione dalla Corte di appello; d) avrebbe omesso di motivare le ragioni per cui quanto ritenuto dal Tribunale, “nella misura in cui ha considerato che la famiglia costituisse un tutto unitario”, fosse errato, basando, invece, la diversificazione delle posizioni dei familiari (e, in particolare, quella dei figli), ai fini della liquidazione del danno patrimoniale, soltanto sui dati anagrafici e non considerando le condizioni personali, anche di disagio e frustrazione, di ciascuno, nonche’ il tenore di vita al quale erano abituati.
3.1. – Il secondo ed il terzo motivo – da scrutinarsi congiuntamente in quanto tra loro connessi – sono inammissibili.
Le complessive doglianze (ribadite con la memoria ex articolo 378 c.p.c.) non sono affatto riconducibili al paradigma legale del vigente n. 5 dell’articolo 360 c.p.c., alla cui stregua avrebbero dovuto essere proposte, ossia con l’indicazione – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui al citato articolo 366 c.p.c. (che, come detto, e’ mancato) – del “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisivita’”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per se’, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorche’ la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., S.U., n. 8053/2014).
I ricorrenti hanno, invece, svolto critiche volte a denunciare insufficienze, illogicita’ e incongruenze della motivazione, proponendo anche una diversa lettura delle emergenze probatorie in contrasto con l’accertamento di fatto operato dal giudice di merito e soltanto ad esso riservato, cosi’ da sollecitare questa Corte ad una inammissibile rivalutazione di dette risultanze, inconciliabile con la struttura e la logica stessa del giudizio di legittimita’.
Cio’ che, infatti, le censure mettono effettivamente in discussione non e’ tanto un omesso esame di fatti decisivi, quanto, piuttosto, profili attinenti al giudizio sui fatti espresso dalla Corte territoriale secondo il proprio motivato convincimento (e, segnatamente, quello sui parametri di calcolo e sui criteri di liquidazione del danno adottati in modo diverso dal primo giudice), in tal modo dando evidenza alla circostanza che il giudice di appello ha, in realta’, apprezzato i fatti storici (in particolare: il reddito annuo, gli aumenti stipendiali e gli incrementi reddituali, il dato temporale della riduzione dell’aspettativa di vita del paziente; la situazione dei vari familiari) rispetto ai quali i ricorrenti deducono un omesso esame. Circostanza, questa, che, trovando pieno conforto nella motivazione della sentenza impugnata in questa sede (cfr. sintesi al § 1.1. dei “Fatti di causa”), rende anch’essa inconsistente (al pari di quanto innanzi rilevato) la denuncia ai sensi del citato articolo 360 c.p.c., n. 5.
Peraltro, occorre osservare che la decisione del giudice di appello si pone in coerenza anche con il principio per cui, in tema di danno patrimoniale futuro la cui liquidazione, equitativa, impone di dare rilievo al parametro della “speranza di vita”, ai fini del rispetto al principio di integralita’ del risarcimento del danno (articolo 1223 c.c.) e’ necessario riferirsi non alla speranza di vita media nazionale, ma alla prognosi di durata della vita dello specifico soggetto danneggiato, cosi’ da non potersi utilizzare le tabelle di cui al Regio Decreto n. 1403 del 1922, se non nel caso di impossibilita’ (nella specie insussistente) di una prognosi specifica sulla durata della vita del danneggiato medesimo (Cass. n. 16525/2003; Cass. n. 11393/2019; Cass. n. 13727/2022).
Ne’, infine, e’ dato ravvisare nella motivazione adottata dalla Corte territoriale – e sempre nell’ottica dell’evocazione del vizio rubricato dall’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – alcuna anomalia motivazionale (ossia, la “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, la “motivazione apparente”, il “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e la “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione), risultante dal testo della sentenza impugnata a prescindere dal confronto con le risultanze processuali, tale da rendere la motivazione stessa irrispettosa del c.d. “minimo costituzionale” e, quindi, in violazione dell’articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4, (Cass., S.U., n. 8053/2014, citata), giacche’ l’apparato argomentativo che sorregge la decisione si snoda secondo un percorso del tutto intelligibile, non palesando affatto contraddizioni intrinseche (tantomeno insuperabili).
4. – Con il quarto mezzo e’ denunciata, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli articoli 345, 167 e 184 c.p.c. e articolo 2967 c.c. (recte: articolo 2697).
Il giudice di appello avrebbe violato le disposizioni anzidette in quanto avrebbe ammesso nel grado di appello eccezioni e prove nuove in violazione del divieto imposto dall’articolo 345 c.p.c. – e anche in violazione del principio sulla ripartizione dell’onere della prova (articolo 2697 c.c.) -, giacche’ le controparti, in primo grado, non avevano, tempestivamente (articolo 167 c.p.c.), “assunto alcuna posizione sulle domande attoree”, cosi’ da risultare “decadute dal poter far valere le relative questioni in appello”, ossia dal poter invocare “una causa estintiva o impeditiva” della azionata pretesa risarcitoria (“ad es. assenza delle prospettive di vita del de cuius”), ormai preclusa anche in forza dello “sbarramento” di cui all’articolo 184 c.p.c., il quale non avrebbe neppure consentito al giudice di appello di disporre c.t.u., da ritenersi ammessa non gia’ d’ufficio, ma “su richiesta delle parti”; cio’ che, a mente del citato articolo 184 c.p.c., sarebbe potuto avvenire solo in primo grado.
4.1. – Il motivo e’ infondato.
Giova rammentare che e’ principio consolidato quello per cui le eccezioni vietate in appello, ai sensi dell’articolo 345 c.p.c., comma 2, sono soltanto quelle in senso proprio, ovvero “non rilevabili d’ufficio”, e non, indiscriminatamente, tutte le difese, comunque svolte dalle parti per resistere alle pretese o alle eccezioni di controparte, potendo i fatti su cui esse si basano e risultanti dalle acquisizioni processuali essere rilevati d’ufficio dal giudice alla stregua delle eccezioni “in senso lato” o “improprie” (tra le altre: Cass. n. 11774/2007; Cass. n. 11015/2011; Cass. n. 7107/2017).
E’, dunque, corretta la decisione della Corte territoriale che ha ritenuto che le doglianze mosse dagli appellanti, principale e incidentale, alla sentenza di primo grado costituissero non gia’ la deduzione di fatti estintivi, modificativi o impeditivi del diritto azionato (come erroneamente ritenuto dagli attuali ricorrenti, evocando la violazione non solo dell’articolo 345 c.p.c., ma anche, in connessione con tale norma, degli articoli 167 e 184 c.p.c.), bensi’ mere difese, in quanto volte a contestare, in base alle risultanze probatorie gia’ acquisite agli atti, la sussistenza e l’entita’ del danno riconosciuto e liquidato dal primo giudice.
Varra’, infatti, evidenziare che non solo l’esistenza del pregiudizio effettivamente patito dal danneggiato, ma anche l’esatta entita’ globale di esso e’ tema di allegazione e prova che, ai sensi dell’articolo 2697 c.c., incombe sul danneggiato, configurandosi, dunque, la deduzione dei fatti incidenti sull’entita’ del danno subito, in quanto tale, come mera difesa e ben potendo il giudice, per determinare l’esatta misura del danno risarcibile, fare riferimento, per il principio dell’acquisizione della prova, a tutte le risultanze del giudizio (cfr. tra le tante in tal senso: Cass. n. 3799/1983; Cass. n. 10821/2002; Cass. n. 24177/2020; Cass. n. 26757/2020; Cass. n. 23588/2022).
Del resto, l’enunciato principio e’ in armonia con le coordinate piu’ generali che connotano la materia della responsabilita’ civile (e che, ad esempio, trovano precipua concretizzazione nell’istituto della c.d. compensatio lucri cum damno), secondo cui “il risarcimento deve coprire tutto il danno cagionato, ma non puo’ oltrepassarlo, non potendo costituire fonte di arricchimento del danneggiato, il quale deve invece essere collocato nella stessa curva di indifferenza in cui si sarebbe trovato se non avesse subito l’illecito” (cosi’ Cass., S.U., n. 12564/2018).
Sicche’, cade anche l’ulteriore profilo di censura che lamenta l’ammissione di c.t.u., da parte della Corte territoriale, al fine di acquisire “dati scientificamente attendibili” (cfr. p. 9 della sentenza di appello) sulle prospettive di vita del paziente, tenuto conto che il divieto di ammissione di nuovi mezzi di prova e nuovi documenti nel giudizio di appello, previsto dall’articolo 345 c.p.c. e che deriva dal carattere tendenzialmente chiuso delle fasi di impugnazione, non opera quando il giudice eserciti il proprio potere di disporre o rinnovare le indagini tecniche attraverso l’affidamento di una consulenza tecnica d’ufficio (tra le tante: Cass. n. 1620/1989; Cass. n. 12416/1995; Cass. n. 13343/2000; Cass. n. 15945/2017).
5. – Con il quinto mezzo e’ dedotta, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “violazione del Decreto Ministeriale n. 44 del 2014 relativo ai parametri forensi… e dell’articolo 91 c.p.c.”.
La Corte territoriale, anzitutto, avrebbe fatto errata applicazione dell’articolo 6 del citato decreto ministeriale, poiche’, senza fornire alcuna motivazione, non avrebbe – ai fini della liquidazione delle spese del grado di appello – operato l’incremento del 30% sulle somme liquidate a titolo di compensi; incremento dovuto poiche’ lo scaglione di riferimento, in ragione della somma liquidata (Euro 566.623,00), era quello delle controversie di valore superiore a Euro 520.000,00.
Inoltre, il giudice di appello avrebbe erroneamente ritenuto non specifiche le voci della nota spese e tanto in riferimento, segnatamente, al versamento del contributo unificato per Euro 1.110,00 e alla marca di Euro 8,00.
5.1. – Il motivo e’ fondato solo per quanto di ragione.
5.1.1. – E’, infatti, da accogliere la censura sulla errata applicazione del Decreto Ministeriale n. 55 del 2014, articolo 6 in ordine alla liquidazione delle spese processuali del grado di appello.
Ai sensi dell’articolo 5, comma 1, del citato D.M., ai fini della determinazione della controversia, nei giudizi per liquidazione di danni “si ha riguardo di norma alla somma attribuita alla parte vincitrice piuttosto che a quella domandata”.
Tale e’ il criterio che, per l’appunto, e’ stato applicato dalla Corte territoriale (cfr. p. 29 della sentenza di appello), che ha, inoltre, motivato nel senso della determinazione dei compensi “in misura corrispondente al valore medio previsto dal paragrafo 12 della tabella” (p. 29 della sentenza di appello).
A tal riguardo, il giudice di secondo ha, quindi, liquidato, a titolo di compensi professionali, l’importo di Euro 9.580,00: ossia la meta’ esatta – in ragione della disposta compensazione delle spese del doppio grado di giudizio – dei valori medi di cui al citato par. 12 per le cause di valore da Euro 260.000,01 ad Euro 520.000,000, il cui intero ammontare (per le 4 fasi ivi contemplate) ammonta, infatti, ad Euro 19.160,00.
Tuttavia, l’importo risarcitorio definitivamente attribuito agli attori e’ pari a complessivi Euro 527.888,74, ossia la somma risarcitoria di Euro 566.623,00 (comprensiva della rivalutazione alla data della decisione di primo grado) detratto il complessivo importo di Euro 38.734,26 agli stessi riconosciuto dal giudice penale a titolo di provvisionale (cfr. pp. 30 e 31 della sentenza di appello).
E il Decreto Ministeriale n. 55 del 2014, articolo 6, comma 1, dispone che “(a)lla liquidazione dei compensi per le controversie di valore superiore a Euro 520.000,00 si applica di regola il seguente incremento percentuale: per le controversie da Euro 520.000,00 ad Euro 1.000.000,00 fino al 30 per cento in piu’ dei parametri numerici previsti per le controversie di valore fino a Euro 520.000,00”.
Questa Corte, in tema di liquidazione delle spese processuali successiva al Decreto Ministeriale n. 55 del 2014, ha enunciato il principio secondo cui non trova fondamento normativo un vincolo alla determinazione secondo i valori medi ivi indicati, dovendo il giudice solo quantificare il compenso tra il minimo ed il massimo delle tariffe, a loro volta derogabili con apposita motivazione, la quale e’ doverosa allorquando si decida di aumentare o diminuire ulteriormente gli importi affinche’ siano controllabili le ragioni che giustificano lo scostamento e la misura di questo (Cass. n. 89/2021; Cass. n. 19989/2021; Cass. n. 14198/2022).
Nella medesima prospettiva, ma piu’ in particolare, si e’ altresi’ affermato che, in tema di compensi professionali in favore degli avvocati per gli affari di valore superiore ad Euro 520.000,00, il Decreto Ministeriale n. 55 del 2014, nella parte in cui prevede (articolo 6, comma 1) che alla relativa liquidazione si applica, “di regola”, un incremento fino al 30% dei parametri numerici contemplati dai relativi scaglioni di riferimento, impone uno specifico apporto motivazionale, esplicativo delle ragioni sottese a tale scelta, nel solo caso in cui il giudice reputi di non disporre alcun incremento percentuale (Cass. n. 29170/2021).
La Corte territoriale, in violazione del ricordato principio di diritto, non ha, invece, fornito alcuna motivazione del mancato aumento previsto, “di regola”, dal citato articolo 6, comma 1.
5.1.2. – E’, invece, infondata l’ulteriore doglianza sulla mancata liquidazione delle spese in relazione agli esborsi per contributo unificato e per la marca da bollo, dovendo a tal riguardo
trovare applicazione il principio per cui, in tema di spese processuali, qualora il provvedimento giudiziale rechi la condanna alle spese e, nell’ambito di essa, non contenga alcun riferimento alla somma pagata dalla parte vittoriosa a titolo di contributo unificato, la decisione di condanna deve intendersi estesa implicitamente anche alla restituzione di tale somma, in quanto il contributo unificato, previsto dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13 costituisce un’obbligazione ex lege di importo predeterminato, che grava sulla parte soccombente per effetto della stessa condanna alle spese, la cui statuizione puo’ conseguentemente essere azionata, quale titolo esecutivo, per ottenere la ripetizione di quanto versato in adempimento di quell’obbligazione (Cass. n. 18828/2015; Cass. n. 15320/2017; Cass. n. 18529/2019).
Principio, questo, che, per identita’ di ratio, va esteso anche al caso in cui non vi sia alcun riferimento alla marca da bollo.
6. – Con il sesto mezzo e’ prospettata, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “violazione del Decreto Ministeriale n. 44 del 2014 relativo ai parametri forensi”, per aver la Corte territoriale, nella liquidazione dei compensi, “omesso del tutto di considerare l’attivita’ svolta nel sub procedimento relativo all’istanza di sospensione avanzata dagli appellanti e rigettata”.
6.1. – Il motivo e’ inammissibile.
Esso e’ formulato, infatti, nell’assoluta carenza di specifica indicazione del contenuto proprio degli atti e dei documenti su cui la censura si fonda (ossia gli atti e documenti del sub-procedimento ex articolo 283 c.p.c.), cui i ricorrenti erano tenuti a mente dell’articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 4; atti e documenti che, del resto, non sono affatto localizzati processualmente, in palese violazione anche di quanto disposto dall’articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 6.
7. – Va, dunque, accolto per quanto di ragione il quinto motivo di ricorso, che, per il resto, e’ da rigettare.
La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata in relazione al motivo accolto e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa puo’ essere decisa nel merito, ai sensi dell’articolo 384 c.p.c., comma 2.
A tal riguardo, va confermata la liquidazione delle spese processuali del grado di appello in relazione all’importo di Euro 9.580,00 per compensi professionali, giacche’ (alla luce dei principi sopra rammentati: § 5.1.1. che precede) non e’ dato addivenire all’aumento indicato dal Decreto Ministeriale n. 55 del 2014, articolo 6, comma 1, in considerazione del fatto che e’ assai ridotto (poco meno di Euro 8.000,00) lo scarto tra lo scaglione delle cause di valore fino a 520.000,00 – su cui e’ parametrata la liquidazione del giudice di appello in base ai valori medi – e lo scaglione da 520.000,01 a Euro 1.000.000,00 previsto dal citato articolo 6, comma 1 (essendo, quindi, la somma attribuita agli attori appena superiore al valore che segna il confine tra i due scaglioni), dovendosi, altresi’, dare rilievo (ai sensi del Decreto Ministeriale n. 55 del 2014, articolo 4) alla circostanze della non peculiare difficolta’ della questione giuridica relativa alla liquidazione del danno patrimoniale in favore dei congiunti del vittima primaria dell’illecito, che non palesa contrasti nella giurisprudenza di legittimita’.
8. – In ragione dell’accoglimento soltanto per quanto di ragione di un motivo di ricorso attinente alle spese del grado di appello, ma con conferma della liquidazione disposta dal giudice di secondo grado in forza di decisione nel merito in questa sede, le spese del giudizio di legittimita’ vanno compensate (cfr., tra le molte, Cass. n. 37794/2021) tra i ricorrenti e le parti controricorrenti nella misura di un quarto.
I restanti tre quarti di dette spese vanno poste a carico dei ricorrenti, in solido tra loro, e liquidate in favore di ciascuna parte controricorrente come da dispositivo. I ricorrenti, infatti, sono da reputarsi soccombenti all’esito del presente giudizio di legittimita’, giacche’, sebbene accolto in parte il solo motivo investente la statuizione delle spese in grado di appello – con reiezione di tutte le altre ragioni di doglianza, concernenti, quasi totalmente, la proposta domanda di risarcimento danni -, la censurata liquidazione della Corte territoriale e’ stata, pero’ (come detto), in toto confermata, in quanto correttamente determinata nel relativo importo.
Non occorre provvedere alla regolamentazione delle spese del presente giudizio nei confronti delle parti rimaste soltanto intimate.
P.Q.M.
Accoglie nei termini di cui in motivazione il quinto motivo e rigetta il ricorso nel resto;
cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, conferma la statuizione resa dal giudice di appello sulla liquidazione delle spese processuali del secondo grado;
compensa le spese del giudizio di legittimita’ per un quarto del totale tra i ricorrenti e le parti controricorrenti e condanna i ricorrenti al pagamento, in favore di ciascuna parte controricorrente, dei restanti tre quarti di dette spese, che liquida in Euro 4.500,00, per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

 

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