Consiglio di Stato, Sentenza|26 febbraio 2021| n. 1672.
La valutazione in ordine alla gravità dei fatti addebitati in relazione all’applicazione di una sanzione disciplinare, costituisce espressione di discrezionalità amministrativa che non è sindacabile in via generale dal giudice della legittimità, salvo che in ipotesi di eccesso di potere, nelle sue varie forme sintomatiche, quali l’illogicità ed il travisamento dei fatti; spetta pertanto all’amministrazione, in sede di formazione del provvedimento sanzionatorio, stabilire il rapporto tra l’infrazione e il fatto di rilevanza disciplinare in base ad un apprezzamento di larga discrezionalità.
Sentenza|26 febbraio 2021| n. 1672
Data udienza 4 febbraio 2021
Integrale
Tag – parola chiave: Militari – Procedimento disciplinare – Perdita del grado per rimozione – Motivazione e proporzionalità – Procedimento penale per omissione di atti di ufficio e rivelazione e utilizzazione di segreti di ufficio – Aggravante dall’aver agevolato un’associazione di tipo mafioso – Art. 1393, comma 1, D.Lgs. n. 66/2010 – Rapporti fra procedimento disciplinare e procedimento penale – Autonomia – Eccezioni
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Quarta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 6649 del 2020, proposto dal signor -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall’avvocato Pa. Le., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
il Ministero della Difesa, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (…);
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, Sede di Napoli Sezione Sesta, n. -OMISSIS-, resa tra le parti;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero della Difesa;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 4 febbraio 2021 il Cons. Oberdan Forlenza;
nessuno presente per le parti;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con l’appello in esame, il sig. -OMISSIS- impugna la sentenza -OMISSIS-, con la quale il Tar per la Campania, Sede di Napoli, Sez. VI, ha respinto il suo ricorso proposto avverso il decreto del Ministero della Difesa 8 aprile 2019, di perdita del grado per rimozione.
Il provvedimento disciplinare era causato dall’avvio di un procedimento penale nei suoi confronti per omissione di atti di ufficio e rivelazione e utilizzazione di segreti di ufficio, aggravati dall’aver agevolato un’associazione di tipo mafioso.
Nella sostanza, all’attuale appellante e ad altri due militari di pari grado veniva contestato di aver rivelato ad un sottufficiale del reparto di appartenenza l’esistenza di indagini a suo carico; inoltre, l’appellante, in una circostanza, non avrebbe redatto un’annotazione di servizio relativa a un’azione delittuosa commessa dal capo di un clan camorristico, con il quale aveva intrattenuto rapporti.
La sentenza impugnata afferma, in particolare, che:
– il terzo periodo dell’art. 1393, comma 1, d.lgs. n. 66/2010 “deve essere interpretato nel senso che il procedimento disciplinare non può essere iniziato o proseguito quando l’addebito riguardi atti del servizio posti in essere in diretta esecuzione degli obblighi di ufficio mentre restano fuori dall’ambito applicativo di tale norma i casi di condotte poste in essere in occasione dello svolgimento del servizio ma non concretanti diretta esecuzione dei compiti del militare”;
– nel caso di specie “l’addebito è solo occasionalmente collegato al suo (dell’appellante, n. d.r.) servizio come carabiniere, dato che è probabilmente in tale sua qualità che egli è venuto a conoscenza delle indagini a carico del suo superiore”;
– quanto alla contestata mancata annotazione, occorre rilevare che “il presupposto della sospensione del procedimento disciplinare è la coincidenza tra fatto per il quale si procede in sede penale e fatto addebitato in sede disciplinare e… nella fattispecie questa esatta coincidenza difetta”; ciò in quanto in sede penale è contestato il reato di cui all’art. 328, primo comma, c.p., cioè il rifiuto di atti di ufficio, mentre “l’addebito disciplinare rivolto al ricorrente è invece diverso dato che esso ha ad oggetto un minus, cioè la mancata redazione di una informativa avente ad oggetto l’episodio, data la sua indiscutibile rilevanza e per la gravità oggettiva del fatto e per lo spessore criminale del suo protagonista”;
– infine, nel caso di specie “la valutazione in ordine alla responsabilità del ricorrente per i fatti che gli sono stati addebitati appare tutt’altro che irragionevole e comunque è basata su un solido quadro circostanziale, la cui valutazione… appare immune da vizi logici”; ciò ricordando che nel procedimento disciplinare l’apprezzamento dei fatti, delle prove e della punibilità del comportamento dell’incolpato rientrano nella sfera discrezionale dell’amministrazione, insindacabile in sede di legittimità solo nel caso di manifesta irragionevolezza o di evidente travisamento dei fatti”.
Avverso tale decisione vengono proposti i seguenti motivi di appello:
a) error in iudicando; violazione e falsa applicazione art. 1393 d.lgs. n. 66/2010; eccesso di potere; manifesta irragionevolezza; violazione art. 27 Cost.; ciò in quanto nei fatti contestati all’appellante ricorrono ambedue le eccezioni, previste dal citato art. 1393 per disporre la sospensione del procedimento disciplinare in pendenza del procedimento penale, e precisamente: a1) i fatti contestati (in particolare, l’omessa annotazione) sono di complesso accertamento “e non possa ricavarsi dai soli atti di indagine”; a2) “i reati ipotizzati a carico del ricorrente (hanno) ad oggetto comportamenti che sarebbero stati posti in essere proprio in ragione del ruolo rivestito e nello svolgimento delle proprie funzioni”;
b) error in iudicando; violazione art. 3 l. n. 241/1990; eccesso di potere; manifesta irragionevolezza; abnormità del provvedimento sanzionatorio; difetto assoluto di istruttoria; violazione e falsa applicazione art. 1357 d.lgs. n. 66/2010; violazione del principio di proporzionalità ; ciò in quanto non sono stati considerati né il comportamento tenuto dall’amministrazione nei confronti del militare successivamente alla commissione dell’illecito (comportamento che non è stato lineare, avendo la stessa dapprima disposto il trasferimento per incompatibilità ambientale e poi la sospensione), né l’inesistente clamore pubblico derivato dalla condotta illecita; né i precedenti di servizio del militare, valutati come “eccellenti”.
Si è costituito in giudizio il Ministero della Difesa, che ha concluso per il rigetto dell’appello stante la sua infondatezza.
Con ordinanza-OMISSIS-, questa Sezione ha respinto la domanda di sospensione dell’esecutività della sentenza di primo grado.
All’udienza pubblica di trattazione, la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
2. L’appello è infondato e deve essere, pertanto, respinto, con conseguente conferma della sentenza impugnata, con le precisazioni di motivazione di seguito esposte.
3. L’art. 1393, comma 1, d.lgs. n. 66/2010, disciplinante i “rapporti fra il procedimento disciplinare e il procedimento penale”, nel testo vigente ed applicabile ratione temporis al caso in esame, prevede:
“Il procedimento disciplinare, che abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti in relazione ai quali procede l’autorità giudiziaria, è avviato, proseguito e concluso anche in pendenza del procedimento penale. Per le infrazioni disciplinari di maggiore gravità, punibili con la consegna di rigore di cui all’articolo 1362 o con le sanzioni disciplinari di stato di cui all’articolo 1357, l’autorità competente, solo nei casi di particolare complessità dell’accertamento del fatto addebitato al militare ovvero qualora, all’esito di accertamenti preliminari, non disponga di elementi conoscitivi sufficienti ai fini della valutazione disciplinare, promuove il procedimento disciplinare al termine di quello penale. Il procedimento disciplinare non è comunque promosso e se già iniziato è sospeso fino alla data in cui l’Amministrazione ha avuto conoscenza integrale della sentenza o del decreto penale irrevocabili, che concludono il procedimento penale, ovvero del provvedimento di archiviazione, nel caso in cui riguardi atti e comportamenti del militare nello svolgimento delle proprie funzioni, in adempimento di obblighi e doveri di servizio. Rimane salva la possibilità di adottare la sospensione precauzionale dall’impiego di cui all’articolo 916, in caso di sospensione o mancato avvio del procedimento disciplinare”.
3.1. La disposizione in esame prevede, quindi:
– una norma di carattere generale (primo periodo), che sancisce l’autonomia del procedimento disciplinare rispetto al processo penale: il primo, difatti, “è avviato, proseguito e concluso anche in pendenza del procedimento penale”;
– due norme di eccezione rispetto alla norma generale, le quali, dunque, comportano la sospensione (o il non avvio) del procedimento disciplinare.
Ciò accade, in particolare:
– nei casi di infrazioni disciplinari di maggiore gravità, punibili con la consegna di rigore ex art. 1362, ovvero per le sanzioni disciplinari di stato ex art. 1357, allorquando si riscontri o una “particolare complessità dell’accertamento del fatto addebitato al militare” o quando l’amministrazione “all’esito di accertamenti preliminari, non disponga di elementi conoscitivi sufficienti ai fini della valutazione disciplinare” (secondo periodo art. 1393, comma 1);
– nel caso in cui il procedimento riguardi “atti e comportamenti del militare nello svolgimento delle proprie funzioni, in adempimento di obblighi e doveri di servizio” (terzo periodo).
Nella prima ipotesi di eccezione, ciò che rileva – e che rende doveroso per l’amministrazione di non procedere disciplinarmente – è l’impossibilità o l’estrema difficoltà di raccogliere tutti gli elementi idonei a sostenere una contestazione disciplinare (Cons. Stato, sez. IV, 18 settembre 2018 n. 5451).
In questa ipotesi (e nei due sottocasi che la caratterizzano), ciò che il legislatore intende evitare è un procedimento disciplinare o non destinato a concludersi per difetto di elementi suffraganti la responsabilità, ovvero concluso con un provvedimento viziato per difetto di istruttoria o di motivazione.
Nella seconda ipotesi di eccezione, invece, ciò che rileva non è una “difficoltà istruttoria” (che ben può non esservi), quanto la circostanza particolare che le condotte astrattamente costitutivi di illecito disciplinare sono commesse “nello svolgimento delle proprie funzioni, in adempimento di obblighi e doveri di servizio”.
In questa ipotesi, il legislatore intende evitare che la “sovrapposizione” di diverse qualificazioni giuridiche del medesimo fatto (il quale può, sotto diversi parametri, contemporaneamente costituire – in via potenziale – sia illecito penale sia illecito disciplinare) porti l’amministrazione ad una valutazione “viziata” del fatto medesimo, potendo essa ritenerlo un profilo, per così dire, connesso e dunque giustificato dal dovere d’ufficio, laddove invece l’accertamento in sede penale e la riconosciuta penale responsabilità del militare recidono il “legame” ipotizzabile tra svolgimento della funzione e atti o comportamenti che – così diversamente contestualizzati – ben possono configurare illecito disciplinare.
Anche in questa ipotesi, dunque, il legislatore intende evitare l’instaurazione di procedimenti disciplinari il cui esito provvedimentale potrebbe essere viziato per difetto di motivazione, ovvero essere basato (nel caso di esito disciplinare assolutorio) su una ritenuta attinenza dell’atto o della condotta ad un dovere di servizio, che, invece, potrebbe essere escluso in sede penale.
In questo senso, deve, dunque, essere precisato quanto considerato dalla sentenza impugnata, laddove essa afferma che “il presupposto della sospensione del procedimento disciplinare è la coincidenza tra fatto per il quale si procede in sede penale e fatto addebitato in sede disciplinare”, con la conseguenza che – laddove tale coincidenza vi sia – il procedimento disciplinare andrebbe sempre sospeso.
In realtà, occorre precisare:
– in primo luogo, che il problema dei rapporti tra i due procedimenti intanto si pone proprio in quanto vi sia “coincidenza” del fatto, posto che, in presenza di fatti diversi, non vi sarebbero nemmeno “interferenze” o “sovrapposizioni” tra i due procedimenti;
– in secondo luogo, che, nelle ipotesi considerate dall’art. 1393 il fatto è sempre lo stesso, ma esso è astrattamente idoneo ad integrare – riguardato sotto diverse angolazioni – sia un illecito penale che un illecito disciplinare.
Non è la “coincidenza” del fatto, dunque, che giustifica l’applicazione della sospensione (essendo tale coincidenza, come si è detto, il presupposto stesso dell’intervento normativo), ma le ipotesi – che presuppongono l’unicità del fatto – indicate dall’art. 1393 e per le ragioni emergenti da una interpretazione (sia letterale che logico-giuridica) delle norme in esame.
Ciò che occorre, invece, ulteriormente precisare è che questa “sovrapposizione” di qualificazioni giuridiche del medesimo fatto (in sede penale e in sede disciplinare), che si ha nella seconda delle ipotesi sopra rappresentate, è configurabile, per espressa previsione di legge, solo nei casi in cui atti o comportamenti del militare siano commessi non solo “nello svolgimento delle funzioni”, ma siano altresì caratterizzati dall'”adempimento di obblighi e doveri di servizio”.
Non è, dunque, sufficiente che l’atto o il comportamento tenuto dal militare sia stato commesso “nello svolgimento delle funzioni” (il che renderebbe paradossalmente ex se necessaria la sospensione del procedimento disciplinare in tutti i casi in cui il fatto integri un reato cd. “proprio”), ma che tale atto o comportamento sia stato commesso, nell’ambito non solo nello svolgimento delle funzioni, ma anche in adempimento di obblighi e doveri di servizio.
Il che porta quasi automaticamente ad escludere dalle ipotesi in cui l’art. 1393 indica la necessità della sospensione del procedimento penale tutti quei fatti che – integrando in sede penale reati la commissione dei quali implica una cesura del rapporto di immedesimazione organica o comunque la riferibilità dei medesimi allo svolgimento della funzione o del servizio pubblico (ad esempio, concussione, peculato, etc.) – non possono pertanto riferirsi ad un “adempimento di obblighi e doveri di servizio”.
3.2. Come è ovvio, la valutazione della sussistenza di una delle due ipotesi indicate dall’art. 1393 spetta all’amministrazione, la quale deve procedere tenendo altresì conto di un evidente favor del legislatore per l’instaurazione e la conclusione del procedimento disciplinare, cioè senza attendere la conclusione del procedimento penale.
Ciò si evince sia dalla previsione della autonomia del procedimento disciplinare quale ipotesi generale (essendo le ipotesi di sospensione mere eccezioni), sia dal fatto che – proprio perché considera l’instaurazione e conclusione del procedimento disciplinare l’ipotesi generale e dunque “ordinaria” – il medesimo art. 1393 regola i casi in cui la mancata sospensione del procedimento disciplinare abbia portato ad esiti contrastanti (e dunque non tollerabili) con l’esito del procedimento penale:
– nel caso in cui vi sia stata irrogazione di sanzione disciplinare e poi assoluzione perché il fatto non sussiste o il militare non lo ha commesso o esso “non costituisce illecito penale” (comma 2);
– nel caso (speculare al precedente) in cui il procedimento disciplinare si sia concluso senza l’irrogazione di sanzioni ed invece in sede penale vi sia stata “una sentenza irrevocabile di condanna”.
4. Nel caso di specie, i fatti per i quali si è proceduto in sede disciplinare non rientrano in alcuna delle due ipotesi contemplate dall’art. 1393, non sussistendo né un caso di particolare complessità o difficoltà istruttoria (e la valutazione di procedere operata dall’amministrazione non appare né irragionevole né immotivata), né, tantomeno, un caso di riferibilità dei fatti stessi allo svolgimento della funzione, nei sensi innanzi rappresentati. E ciò alla luce della natura stessa dei fatti contestati che, non a caso, in sede penale hanno dato luogo a contestazione di reati incompatibili con lo svolgimento di “obblighi e doveri del servizio”.
Per le ragioni esposte, il primo motivo di appello (sub lett. a) dell’esposizione in fatto) deve essere respinto.
5. Altrettanto infondato è il secondo motivo di appello (sub lett. b), con il quale si lamenta, in sostanza, un difetto di motivazione della sanzione irrogata e una violazione del principio di proporzionalità tra la stessa e fatto disciplinarmente contestato.
Giova ricordare che, come la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha costantemente affermato, la valutazione in ordine alla gravità dei fatti addebitati in relazione all’applicazione di una sanzione disciplinare, costituisce espressione di discrezionalità amministrativa che non è sindacabile in via generale dal giudice della legittimità, salvo che in ipotesi di eccesso di potere, nelle sue varie forme sintomatiche, quali l’illogicità ed il travisamento dei fatti; spetta pertanto all’amministrazione, in sede di formazione del provvedimento sanzionatorio, stabilire il rapporto tra l’infrazione e il fatto di rilevanza disciplinare in base ad un apprezzamento di larga discrezionalità (Cons. Stato, sez. IV, 27 luglio 2020 n. 4761; sez. IV, 18 settembre 2018 n. 5451; sez. VI, 20 aprile 2017, n. 1858; sez. III, 5 giugno 2015, n. 2791; sez. VI 16 aprile 2015 n. 1968; sez. III 20 marzo 2015 n. 1537).
Nel caso di specie, ed in ciò concordando con quanto già rappresentato dalla sentenza impugnata, non sussistono, in considerazione della oggettiva gravità dei fatti contestati, quei profili di illegittimità che possono condurre all’esercizio del sindacato del giudice amministrativo in sede di legittimità .
5. Per tutte le ragioni esposte, l’appello deve essere respinto e, di conseguenza, deve essere confermata la sentenza impugnata.
Stante la particolare natura delle questioni trattate, sussistono giusti motivi per compensare tra le parti spese ed onorari del grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull’appello proposto dal signor -OMISSIS-(n. 6649/2020 r.g.), lo rigetta e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata.
Compensa tra le parti spese ed onorari del presente grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità dell’appellante.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 4 febbraio 2021 con l’intervento dei magistrati:
Luigi Maruotti – Presidente
Oberdan Forlenza – Consigliere, Estensore
Daniela Di Carlo – Consigliere
Francesco Gambato Spisani – Consigliere
Nicola D’Angelo – Consigliere
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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