Consiglio di Stato, sezione sesta, Sentenza 2 luglio 2019, n. 4523.
La massima estrapolata:
Il provvedimento con il quale si ingiunge la rimessione in pristino rispetto ad un abuso edilizio è doveroso e vincolato, purché ne sussistano i presupposti di fatto e di diritto, ovvero l’esistenza delle opere e il loro carattere di abuso passibile di demolizione.
Sentenza 2 luglio 2019, n. 4523
Data udienza 20 giugno 2019
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4414 del 2018, proposto dalla società :
Ip. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Ro. Ma. e An. Do., con domicilio digitale come da PEC da Registri di giustizia;
contro
Roma Capitale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Se. Si., con domicilio digitale come da PEC da Registri di giustizia e domicilio eletto presso la sede dell’Avvocatura capitolina, in Roma, via (…);
nei confronti
signor Gi. Mo., non costituito in giudizio;
per la riforma ovvero l’annullamento,
previa sospensione
della sentenza del T.A.R. Lazio, sede di Roma, sez. II bis, 24 novembre 2017 n. 11681, che ha respinto il ricorso n. 5133/2017 R.G. proposto per l’annullamento della determinazione 1 marzo 2017 n. 249, conosciuta in data imprecisata, con la quale il Dirigente tecnico del Municipio XV di Roma Capitale ha ingiunto alla ricorrente quale locataria titolare dell’azienda di ristorazione ivi gestita la demolizione in quanto abusive di opere realizzate in Roma, via Quarto Peperino n. 9, e consistenti nella tamponatura di tre tettoie con infissi di legno e vetro, per una superficie di circa 105 mq, con realizzazione all’interno di un bar con bancone, tavoli, sedie e impianto di condizionamento;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Roma Capitale;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 20 giugno 2019 il Cons. Francesco Gambato Spisani e uditi per le parti gli avvocati An. Do. e An. Ca., questi in dichiarata sostituzione dell’avvocato Se. Si.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
La società ricorrente appellante gestisce a Roma, nei locali di via (omissis), dei quali è locataria, un bar ristorante denominato “Ri. Sa. ” (fatto da ritenere localmente notorio).
Con il provvedimento meglio indicato in epigrafe, l’amministrazione di Roma Capitale le ha ingiunto, quale locataria responsabile, la demolizione in quanto abusive di una serie di opere, descritte sempre in epigrafe, le quali, in buona sostanza, vanno a formare una sala esterna del locale destinata al servizio dei clienti (v. copia del provvedimento nel fascicolo documenti di I grado dell’amministrazione).
Con la sentenza a sua volta meglio indicata in epigrafe, il TAR ha respinto il ricorso proposto dall’interessata contro tale provvedimento. In motivazione, ha in sintesi ritenuto, sulla base di una relazione informativa 31 ottobre 2017 fatta pervenire dall’amministrazione (v. copia di essa prodotta nel presente grado) a seguito di un’ordinanza istruttoria, che le opere per cui la demolizione è stata ingiunta non coincidano con quelle per le quali la società aveva a suo tempo chiesto il rilascio di titolo edilizio in sanatoria, che quindi l’ordinanza fosse sufficientemente motivata con la descrizione dell’abuso e che l’avviso di inizio del procedimento fosse stato già dato con una precedente ordinanza di sospensione lavori.
Contro tale sentenza, la ricorrente ha proposto impugnazione, con appello che contiene tre motivi, di riproposizione di quelli respinti in primo grado:
– con il primo di essi, deduce travisamento del fatto, nel senso che la sentenza di I grado avrebbe recepito un errato risultato contenuto nella relazione istruttoria dell’amministrazione. La ricorrente appellante sostiene infatti che le opere abusive contestatele sarebbero proprio quelle per cui ha chiesto il condono, e che la relazione per errore non lo avrebbe riconosciuto;
– con il secondo motivo, deduce violazione dell’art. 3 della l. 7 agosto 1990 n. 241, nel senso che l’ordinanza comunque non sarebbe motivata;
– con il terzo motivo, deduce infine violazione dell’art. 7 della l. 241/1990, sostenendo che l’ordinanza di sospensione lavori precedentemente ricevuta, e fra l’altro rimasta inefficace, stante la mancanza di lavori in corso, non potrebbe valere a tal fine.
Roma Capitale ha resistito con atto 12 giugno 2018 ed ha chiesto che l’appello sia respinto.
Con ordinanza 6 luglio 2018 n. 3092, la Sezione ha accolto la domanda cautelare sotto il profilo del periculum, e contestualmente, per chiarire i fatti, ha disposto verificazione, affidata al Dirigente del Provveditorato interregionale per le opere pubbliche per il Lazio, l’Abruzzo e la Sardegna, o suo delegato, per appurare se le opere per le quali è causa siano o no le medesime per le quali la stessa ricorrente appellante aveva presentato la domanda di concessione in sanatoria 28 luglio 1986 prot. n. 161839, ottenuto la concessione in sanatoria 7 agosto 2001 n. 244887 e presentato la domanda di rettifica 4 aprile 2018 prot. n. 58259.
Il giorno 6 settembre 2019, il delegato del Dirigente, ing. Gi. Fr. De Lu., ha depositato la relazione richiestagli.
Con memorie 1 ottobre 2018 e 16 maggio 2019, Roma Capitale ha evidenziato che dalla relazione emerge la non conformità delle opere abusive contestate con quelle condonate, ed ha insistito per il rigetto dell’appello.
Con successiva “nota di deposito” del giorno 29 maggio 2019, la ricorrente ha poi rappresentato che i proprietari dell’immobile, nel corso di questo giudizio e parallelamente ad esso, avrebbero chiesto a Roma Capitale la “rettifica” di una concessione edilizia in sanatoria rilasciata per l’immobile stesso, all’evidente scopo di farvi rientrare le opere per le quali è causa, e, ottenuto un provvedimento negativo, lo avrebbero impugnato al TAR competente, con ricorso attualmente pendente, n. 4002/2019 R.G. TAR Lazio Roma (v. doc. ti allegati alla nota predetta, provvedimento negativo e attestazione di aver presentato il ricorso)
All’udienza del 20 giugno 2019, fissata con l’ordinanza di cui sopra, il difensore della ricorrente appellante si è richiamato ai documenti di cui sopra, prodotti il giorno 29 maggio 2019, ed ha chiesto che questo giudizio sia sospeso fino all’esito del ricorso n. 4002/2019 R.G. TAR Lazio Roma di cui si è detto; la Sezione ha trattenuto il ricorso in decisione.
DIRITTO
1. L’appello è infondato e va respinto, per le ragioni di seguito precisate.
2. In via preliminare, va respinta la richiesta avanzata in udienza di discussione nel senso che questo procedimento debba essere sospeso fino alla definizione del procedimento n. 4002/2019 R.G. TAR Lazio Roma di cui si è detto, per una presunta pregiudizialità di quest’ultimo. In linea di fatto, come si precisa per migliore comprensione, il procedimento n. 4002/2019 ha per oggetto il diniego espresso da Roma Capitale su una domanda di rettifica della concessione edilizia in sanatoria 7 agosto 2001 n. 244887 di cui si vedrà, rettifica che, ove concessa, avrebbe portato la concessione a legittimare le opere così come oggi esistenti (sul punto specifico, v. la relazione De Lu., p. 19). Ciò posto, la richiesta di sospensione non va accolta. Il presente giudizio, come è pacifico, rientra nell’ambito della giurisdizione amministrativa generale di legittimità, ed è di carattere impugnatorio. Ciò significa, come ritenuto da pacifica e costante giurisprudenza, che come tale non richiede puntuali citazioni, che esso è governato dalla regola tempus regit actum, ovvero è volto a verificare la conformità dell’atto così come esso è stato emesso rispetto alla situazione di fatto e di diritto esistente al momento in cui esso lo è stato. In tal senso, allora, l’esito del ricorso n. 4002/2019 più volte citato – sul quale ovviamente non è qui dato di fare ipotesi- costituirà se mai una sopravvenienza, che l’amministrazione dovrà valutare al pari di ogni altra nel prosieguo della propria attività .
3. Tanto premesso, il primo motivo di appello, per cui l’amministrazione avrebbe travisato il fatto, ritenendo abusivo un manufatto invece regolarmente condonato, è infondato e va respinto. In proposito, si fa rifermento alla relazione del verificatore ing. De Lu. citata in premesse, dai cui esiti il Collegio non ritiene di doversi discostare, dato che essi sono ricavati secondo corretto e coerente processo logico a partire da premesse di fatto non controverse.
3.1 Per tutto il compendio immobiliare per il quale è causa, esiste un’unica pratica di sanatoria, che ha dato luogo, come si vedrà, al rilascio di tre distinte concessioni. Secondo logica, quindi la prospettazione della ricorrente appellante si dovrebbe accogliere, e l’opera per cui è causa ritenere legittima, se si potesse dimostrare che l’opera stessa corrisponde a quella assentita con i predetti titoli in sanatoria. In base ai risultati della verificazione, però, non è così .
3.2 Come risulta alle pp. 6 e 10 della relazione, per l’immobile in questione venne presentata una sola domanda di sanatoria, 28 luglio 1986 prot. n. 1618, la quale si riferiva a un vecchio casale, in origine agricolo, costruito negli anni Venti del secolo scorso come edificio a due piani e poi ampliato. In particolare, questa domanda si proponeva di regolarizzare una superficie di 106,30 mq da destinare a residenza e una superficie di 470,80 mq da destinare ad attività commerciale, ma prima che l’amministrazione provvedesse su di essa, il relativo oggetto è stato modificato con una “denuncia di variazione per ampliamento di corte” 26 gennaio 1991 prot. n. 19672. In base infatti a questa denuncia, la superficie commerciale è stata distinta in superficie coperta utile, per circa 240 mq, e in una tettoia di circa 260 mq, che secondo ogni logica è l’immobile per il quale è causa.
3.3 A fronte della domanda così come modificata, l’amministrazione ha rilasciato tre concessioni, tutte datate 7 agosto 2001 e recanti tre distinti numeri di protocollo, ovvero il n. 264882 per la superficie residenziale, il n. 264884 per la superficie commerciale e il n. 264887 per la tettoia. Ciò posto, l’organo di ausilio tecnico è stato richiesto da questo organo giudicante di rispondere alla domanda rilevante ai fini della decisione -ovvero accertare se le opere oggetto della concessione in sanatoria 264887 corrispondano o no alla tettoia così come essa si presenta oggi, cioè in sostanza ad una struttura chiusa e agibile come sala bar- e ha dato, in base agli elementi acquisiti una risposta negativa.
3.4 Dagli atti di causa, risulta infatti che l’originaria concessione 264887 riguardava una struttura diversa, cioè una tettoia vera e propria, un manufatto aperto che come tale non comportava aumento di superficie e di volume, diversamente, come è ovvio, da quanto deve dirsi per le opere oggi esistenti. In tal senso, riassumendo i contenuti della relazione, depongono tre elementi. In primo luogo, esiste una planimetria catastale che risale all’epoca della domanda di sanatoria originaria (figura 3 a p. 11 della relazione), in cui l’area classificata “tettoia” presenta un piano di calpestio che si trova a livello inferiore rispetto al resto dell’immobile, e ciò avvalora l’ipotesi di un suo aspetto differente; nella stessa planimetria poi, la tettoia è rappresentata, nel lato che guarda il piazzale, con un tratto grafico che corrisponde ad una continuità con il piazzale stesso, e ciò secondo logica rimanda ad una struttura aperta, priva di pareti. In secondo luogo, analoga distinzione grafica, a suggerire due strutture di tipo diverso, si ritrova anche in un elaborato tecnico successivo, ovvero nella perizia giurata redatta il 18 aprile 1995 da un tecnico di parte, certo Belocchi, a supporto della domanda, perizia poi utilizzata per rilasciare le tre concessioni (pp. 13 e ss. relazione). Infine, come elemento più importante, per la superficie commerciale certamente tale, oggetto della concessione.264882, e per la tettoia, oggetto come si ripete della concessione.264887, sono state pagate oblazioni di importo molto diverso, pari a 1.118.000 vecchie lire e 54.000 vecchie lire rispettivamente: ciò rimanda in modo univoco a una diversa natura delle due superfici, nel senso che la seconda, che fu condonata al minor prezzo, fosse effettivamente una tettoia aperta di pertinenza della prima (relazione, pp. 10-11).
4. Il secondo motivo di appello, centrato su un presunto difetto di motivazione dell’atto impugnato, è a sua volta infondato. In proposito, vale quanto affermato dall’Adunanza Plenaria di questo Consiglio nella sentenza 17 ottobre 2017 n. 9: il provvedimento con il quale si ingiunge la rimessione in pristino rispetto ad un abuso edilizio è doveroso e vincolato, purché ne sussistano i presupposti di fatto e di diritto, ovvero l’esistenza delle opere e il loro carattere di abuso passibile di demolizione. Ciò sicuramente avviene nel caso di specie, perché, come si precisa per chiarezza, anche se il punto non è stato a rigore contestato, la struttura esistente si qualifica all’evidenza come una nuova costruzione, che come tale avrebbe richiesto il permesso di costruire e in sua mancanza va demolita. In presenza di tali presupposti, sempre secondo la sentenza 9/2017, non è richiesta allora alcuna particolare motivazione sulle “ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso”.
5. Quanto affermato dalla sentenza 9/2017 conduce infine a respingere anche il terzo motivo di appello, centrato sulla asserita mancanza dell’avviso di inizio del procedimento: il provvedimento impugnato è come si è detto un provvedimento dovuto, che non avrebbe potuto avere un diverso contenuto, e quindi non è per questa ragione annullabile, così come previsto dall’art. 21 octies comma 2 della l. 7 agosto 1990 n. 241.
6. Le spese seguono la soccombenza, anche per quanto riguarda la verificazione disposta, e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull’appello come in epigrafe proposto (ricorso n. 4414/2018), lo respinge.
Condanna la ricorrente appellante Ip. S.r.l. a rifondere all’amministrazione di Roma Capitale intimata appellata le spese del presente giudizio, spese che liquida in Euro 5.000 (cinquemila/00) oltre accessori di legge, se dovuti, nonché a pagare le spese di verificazione, come da relativo provvedimento che le liquida (non possono essere liquidate spese verificazione anche qui?).
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 20 giugno 2019 con l’intervento dei magistrati:
Sergio De Felice – Presidente
Francesco Mele – Consigliere
Oreste Mario Caputo – Consigliere
Francesco Gambato Spisani – Consigliere, Estensore
Giordano Lamberti – Consigliere
Leave a Reply