Suprema Corte di Cassazione
sezione IV
sentenza 5 maggio 2016, n. 18780
Presidente D’Isa
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza in data 3 marzo 2015 la Corte d’Appello di Milano confermava la pronuncia di condanna resa dal locale Tribunale nei confronti di T.B. e V.M. per aver cagionato a S.N. al momento della nascita lesioni personali gravissime, con esiti permanenti.
1.1. Secondo i giudici di merito la T. , in qualità di medico ginecologo, ed il V. , quale infermiere ostetrico, in servizio presso l’Ospedale (omissis) , non avevano prestato adeguata assistenza al parto di R.A. , intervenendo in ritardo e con incongrua manovra di estrazione del feto. In particolare l’ostetrico non aveva interpretato correttamente le alterazioni del tracciato cardiotocografico (CTG), imputabile – come si seppe dopo il parto – ad un giro del cordone ombelicale a bandoliera, ed aveva avvertito il medico di guardia solo quando era ormai tardi per un intervento cesareo d’urgenza ed anche il parto naturale si presentava rischioso; entrambi gli imputati poi, con incongrue manovre mediche ed ostetriche, consistite nella applicazione intempestiva ed inopportuna della ventosa ostetrica al medio scavo pelvico, avevano cagionato al feto la distocia della spalla sinistra e lo strappamento del plesso brachiale, con avulsione delle radici dei nervi cervicali e del nervo toracico, da cui era derivata la perdita di funzionalità della mano sinistra.
1.2. La Corte territoriale evidenziava, a sostegno della pronuncia di condanna, che nella letteratura scientifica la causa predominante delle lesioni al plesso brachiale dei lattanti, complicanze della distocia di spalla, era da individuarsi nella eccessiva trazione della testa fetale operata durante il parto e nella flessione laterale del collo nel tentativo di liberare la spalla anteriore, principio del resto affermato esplicitamente nel protocollo per il trattamento della distocia di spalla in essere presso l’ospedale (…). Le lesioni riportate da N. – secondo i consulenti del P.M. e della parte civile, le cui conclusioni erano state condivise dalla Corte – erano dunque derivate con certezza da un’errata manovra compiuta dopo l’espulsione della testa quando, nel tentativo di disincagliare la spalla anteriore, era stata operata una eccessiva trazione sul collo verso il basso. L’incertezza su chi avesse in pratica effettuato tale errata manovra, se il medico o l’ostetrico, era irrilevante, secondo i giudici, perché l’intera gestione del parto era avvenuta in èquipe senza che i componenti o il capo èquipe si fossero premurati di adeguare la loro condotta alle indicazioni del protocollo sul punto ovvero di controllare che gli altri vi si fossero adeguati. I consulenti avevano poi concordato sul fatto che in quel momento N. era esposto a gravissimi rischi fino ad un possibile esito fatale nel caso in cui non si fosse riusciti, in tempi bravissimi, ad ottenere l’espulsione del corpo fetale. Le complicanze più gravi correlate all’allungamento dell’intervallo di tempo tra l’espulsione della testa e quella del corpo erano infatti il danno cerebrale e la morte che, molto spesso, costituivano l’esito di una prolungata ipossia fetale: ciò perché dopo il disimpegno della testa fetale l’apporto di ossigeno al feto si riduce drasticamente per effetto della compressione placentare dell’utero semi svuotato sul torace del feto, che rende vani gli sforzi respiratori, nonché per lo spostamento della massa sanguigna verso il polo cefalico. Secondo la letteratura scientifica un feto normo ossigenato ha 4/5 minuti di tempo a disposizione dopo l’espulsione della testa per evitare un danno ipossico-ischemico. Nel caso in esame la testa era stata estratta con la ventosa alle ore 1.43 mentre il corpo fetale era stato espulso alle ore 1.55, circostanza che rende evidente come in quel frattempo si fosse creata una particolare concitazione e come l’urgenza di intervenire fosse stata affrontata dagli imputati con imperizia e senza il rispetto delle regole dell’arte medica, che avrebbe di contro dovuto imporre la corretta esecuzione della manovra di estrazione del corpo fetale senza esercitare quella eccessiva ed erronea trazione che aveva cagionato l’avulsione delle radici nervose del plesso brachiale. Specifica imperizia nell’arte ostetrica era stata poi dimostrata dal V. nell’aver erroneamente valutato, fin dall’inizio, le risultanze degli accertamenti strumentali in atto e segnatamente le alterazioni del tracciato cardiocotografico, il cui risultato non era stato riportato nella cartella di travaglio, così da sollecitare in ritardo l’intervento della dott. T. . A quel punto, considerato anche il fattore di rischio legato all’uso di ossitocina, il segnale di allarme riscontrabile almeno alle ore 1.18 imponeva o di intervenire all’1.20 con taglio cesareo ovvero di applicare la ventosa, ma ancora una volta la scorretta tenuta della cartella clinica non aveva consentito di capire se tale seconda condotta fosse effettivamente praticabile perché non era dato sapere se in quel momento la testa del feto – che alle 1.10 era a meno tre/meno due – fosse arrivata a zero, condizione questa indefettibile per l’applicazione della ventosa, mentre era certo, in base a quanto dichiarato dalla dott. T. , che era concretamente praticabile un taglio cesareo, posto che la sala operatoria era stata già preparata nella eventualità di un intervento, che la stessa R. chiedeva le venisse praticato e su cui non aveva ricevuto alcuna informazione. Di fatto, si era deciso di attendere nel mentre la paziente continuava a spingere, per arrivare sino alle ore 1.40 quando la testa del feto era certamente a zero per applicare la ventosa, in presenza di una “importante tachicardia” che imponeva, a quel punto con assoluta urgenza, per evitare gravi danni fetali, di effettuare l’unica scelta ancora possibile per tentare di accelerare il parto.
1.3. A sostegno della pronuncia di condanna la Corte di Milano valorizzava ancora l’esito della consulenza espletata nel giudizio civile promosso per il risarcimento dei danni patiti dal minore, affidata ad uno specialista in ostetricia e ginecologia e ad un medico-legale, che aveva rilevato l’insorgenza della grave alterazione del tracciato cardiotocografico presente già alle ore 23.50 ed ancor di più alle ore 00.15 del giorno successivo, e l’impropria applicazione della ventosa ostetrica – effettuata per la presenza di un tracciato di allarme indicativo di sofferenza fetale, fortunatamente non esitata in esiti permanenti di cerebropatia tossica – con trazioni eccessive sulla testa-collo, da evitare in caso di distocia di spalla.
1.4. Aderendo quindi alle conclusioni dei detti consulenti i giudici di appello ritenevano: che la brachicardia fetale avrebbe dovuto essere prontamente riconosciuta nella sua gravità e avrebbe dovuto indurre il personale ostetrico ad allestire prontamente una sala operatoria per effettuare il parto cesareo; che l’applicazione della ventosa ostetrica aveva negativamente interferito nella insorgenza della distocia di spalla; che di fronte ad una distocia di spalla era da ritenere incongrua e criticabile l’applicazione di una trazione sul collo fetale, mentre, per favorire il disimpegno e portare celermente e in sicurezza a termine il parto, si sarebbe dovuto procedere piuttosto alla frattura iatrogena della clavicola. Non vi era quindi motivo di dubitare dell’eziologia delle conseguenze patite dal piccolo N. , riferibili, sul piano causale all’improprio apporto professionale degli imputati, inadeguato a trattare il caso alla luce dei parametri di riferimento, secondo le attribuzioni spettanti e le mansioni operative avute, comunque operando in èquipe e rispondendo ciascuno del risultato comune prodotto per effetto della condotta altrui.
1.5. La Corte disattendeva infine quanto argomentato dai consulenti della difesa, in maniera non coerente con gli elementi probatori acquisiti, circa la imprevedibilità della distocia della spalla, la corretta e tempestiva lettura del tracciato cardiotocografico, la ipotesi che la lesione del plesso brachiale si fosse verificata prima del parto per la presenza del cordone ombelicale a bandoliera, ed ancora che si fosse in presenza di una ipotesi di colpa lieve ai fini dell’applicazione della legge n.189 del 2012.
2. Gli imputati hanno proposto un primo ricorso congiunto a mezzo del comune difensore, con cui censurano la sentenza impugnata per tre distinti motivi: carenza di motivazione, per avere i giudici di appello recepito acriticamente le argomentazioni del tribunale senza esaminare gli specifici motivi di gravame ed in particolare quanto sostenuto dai consulenti della difesa; erronea applicazione della legge penale in tema di colpa, atteso che gli imputati si erano attenuti alle linee guida ed attuato proprio il comportamento esigibile; vizio di motivazione e violazione di legge in relazione alla qualificazione della condotta in termini di colpa non lieve, al solo fine di contrastare l’applicazione dell’art. 3 della Legge Balduzzi.
2.1. Con un secondo autonomo ricorso il solo V. , a mezzo di un nuovo difensore, nel ribadire la carenza di motivazione per l’omesso esame dei motivi di appello, ed ancora il vizio di motivazione e violazione di legge con riferimento al grado della colpa per escludere l’applicazione della legge Balduzzi, ha dedotto ad ulteriore motivo di doglianza il travisamento della prova con riferimento alla errata applicazione del principio dell’affidamento e della cooperazione nel delitto colposo: la Corte aveva ritenuto irrilevante chi avesse effettuato la manovra di estrazione del feto mentre era certo che era stata eseguita dal medico che, una volta giunto in sala parto, aveva eliminato la competenza professionale dell’ostetrico, che non aveva al momento alcuna possibilità di contrastare l’operato della ginecologa.
2.2. Le parti civili hanno depositato memorie a confutazione delle ragioni di ricorso.
Considerato in diritto
1. L’impugnata sentenza deve essere annullata.
2. Il primo rilievo che si impone è che le condotte degli imputati debbono essere vagliate separatamente, in base ai profili di colpa a ciascuno contestati e secondo l’apporto causale del comportamento del singolo rispetto all’evento lesivo, non essendo corretta in diritto la generica affermazione dei giudici di merito secondo la quale nel lavoro di èquipe ogni operatore risponde dell’operato comune dovuto alla condotta altrui.
2.1. Questa Corte si è più volte pronunciata sulla responsabilità penale dei singoli componenti di una èquipe medica, stabilendo i seguenti principi. La responsabilità penale di ciascun componente di una èquipe medica per un evento lesivo occorso al paziente sottoposto ad intervento chirurgico non può essere affermata sulla base dell’accertamento di un errore diagnostico genericamente attribuito alla èquipe nel suo complesso, ma va legata alla valutazione delle concrete mansioni di ciascun componente, nella prospettiva di verifica, in concreto, dei limiti oltre che del suo operato, anche di quello degli altri (Sez.4, 9.4.2009, n. 19755). Nell’ipotesi di cooperazione multidisciplinare, ancorché non svolta contestualmente, ogni sanitario è tenuto, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, all’osservanza degli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico. Ne consegue che ogni sanitario non può esimersi dal conoscere e valutare l’attività precedente o contestuale svolta da altro collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio. Né può invocare il principio di affidamento l’agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l’altrui condotta colposa, poiché allorquando il garante precedente abbia posto in essere una condotta colposa che abbia avuto efficacia causale nella determinazione dell’evento, unitamente alla condotta colposa del garante successivo, persiste la responsabilità anche del primo in base al principio di equivalenza delle cause, a meno che possa affermarsi l’efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che deve avere carattere di eccezionalità ed imprevedibilità, ciò che si verifica solo allorquando la condotta sopravvenuta abbia fatto venire meno la situazione di pericolo originariamente provocata o l’abbia in tal modo modificata da escludere la riconducibilità al precedente garante della scelta operata (Sez.4, 26.11.2011, n.46824). Dunque, nei casi in cui alla cura del paziente concorrono, con interventi non necessariamente omologabili, più sanitari, l’accertamento del nesso causale rispetto all’evento verificatosi deve essere compiuto con riguardo alla condotta e al ruolo di ciascuno, non potendosi configurare una responsabilità di gruppo in base ad un ragionamento aprioristico (Sez.4, 8.7.2014, n.7346). Ciò perché in tema di causalità della colpa, quando la ricostruzione del comportamento alternativo lecito idoneo ad impedire l’evento deve essere compiuta nella prospettiva della interazione tra più soggetti, sui quali incombe l’obbligo di adempiere allo stesso dovere o a doveri tra loro collegati, la valutazione della condotta di colui che è tenuto ad attivare altri va valutata assumendo che il soggetto che da esso sarebbe stato attivato avrebbe agito correttamente, in conformità al parametro dell’agente “modello” (Sez.4, 2.7.2015, n.31244).
2.2. Poiché nella specie si assume che l’evento lesivo sia conseguito ad attività poste in essere nel medesimo contesto temporale tra due soggetti, che operavano congiuntamente e ciascuno dei quali era titolare di un’autonoma posizione di garanzia, è necessario accertare se,e a quali condizionieciascun imputato, oltre ad essere tenuto per la propria parte al rispetto delle regole di cautela e delle leges artis previste con riferimento alle sue specifiche mansioni, debba essere tenuto anche a farsi carico delle manchevolezze dell’altro componente dell’èquipe o possa viceversa fare affidamento sulla corretta esecuzione dei compiti altrui. Vertendosi in tema di causalità commissiva, chi ha materialmente cagionato il danno ne risponderà in presenza di tutti gli elementi della fattispecie; il partecipe dell’èquipe, titolare di autonoma posizione di garanzia, e in posizione di subordinazione gerarchica rispetto al medico, potrà fare affidamento nell’operato di questi, sempre che non siano da lui riconoscibili le eventuali violazioni delle regole dell’arte medica.
3. Per affrontare questa problematica bisogna partire dalla oggettiva circostanza, accertata in sede di merito, che fu la ginecologa sia ad applicare la ventosa sia ad eseguire la manovra di disimpegno della spalla finalizzata alla estrazione del feto, in presenza dell’ostetrico, come risulta incontestatamente dalle dichiarazioni della partoriente e del di lei marito presente al parto. A nulla rileva che il V. (secondo quanto si legge a pag. 15 della impugnata sentenza) avrebbe dichiarato che il tentativo fisiologico di disimpegno della spalla del neonato rientrava nelle manovre di sua competenza, in quanto l’accertamento della responsabilità per i danni derivati a N. non può basarsi su una generica competenza dell’ostetrico e sui profili professionali attribuiti a tale ruolo dalle leggi sanitarie, ma esclusivamente sulle circostanze fattuali della condotta tenuta e sulla concreta possibilità di agire, in presenza del capo èquipe, con un comportamento salvifico.
4. Ed allora deve escludersi che il V. – solo con la sua presenza in sala parto – abbia dato un contributo causale alla verificazione dell’evento lesivo, poiché fu la dott. T. ad applicare dapprima la ventosa e quindi ad eseguire con eccessiva forza la manovra di Mac Roberts per disincagliare la spalla: nessun comportamento era in quel contesto esigibile dall’ostetrico, che non era certo in grado di valutare né l’intensità della trazione esercitata dal medico sulla testa fetale ei dunque/la correttezza della manovra, né, tanto meno, di intervenire per correggerne l’errore ed evitare il danno.
Con riferimento al profilo professionale dell’ostetrico – come delineati dal D.M. n.740/1999, modificato con la L. n. 42/1998 e più puntualmente disciplinato dalla L. n. 251/2000 – e per quanto concerne in particolare l’assistenza nel corso del parto, nei limiti di ciò che qui interessa, è di sua competenza la diagnosi delle anomalie del travaglio di parto con richiesta di intervento dello specialista; l’assistenza e cura alla partoriente affetta da patologia ostetrica, nelle distocie del parto; la pratica delle inderogabili misure di emergenza in assenza del medico.
Del tutto in linea con il suo profilo professionale, dunque, l’ostetrico era in sala parto ma non poteva compiere alcuna manovra, di spettanza del medico presente.
5. Un secondo aspetto da esaminare – pure contestato al V. come condotta colpevole – attiene al riscontro delle anomalie del travaglio di parto ed al ritardo nella richiesta di intervento della ginecologa: secondo i giudici di merito l’imputato non aveva correttamente interpretato le alterazioni del tracciato cardiotocografico, ossia i segnali di allarme, dipesi, come appurato durante il parto, da un giro di cordone ombelicale a bandoliera, e soltanto alle ore 1.10 aveva avvisato il medico di guardia. Questo in base alle annotazioni scarse riportate sul diario del travaglio attivo, compilato in maniera incompleta.
5.1. Ritiene questo Collegio che la condotta colposa attribuita al V. non sussista, come pure non si ravvisa la causalità della condotta rispetto alle lesioni procurate al feto al momento della nascita.
Risulta infatti che alle 22.20 era stato somministrato alla R. un primo bolo analgesico epidurale; alle ore 23.50 era stata effettuata una seconda visita ginecologica; alle 24.00 era stato somministrato il secondo bolo analgesico epidurale; alle ore 1.10 era stata chiamata la ginecologa; le alterazioni del tracciato cardiotocografico di cui si discute avevano avuto inizio alle ore 1.18, secondo quanto accertato in dibattimento (pag.11 della sentenza di appello).
Un’analisi attenta di questi dati orari consente allora di affermare con certezza non solo che la ginecologa aveva seguito il travaglio somministrando due dosi di analgesico ed effettuando una visita, e dunque aveva potuto visionare di persona l’andamento del tracciato, ma che era già da qualche minuto presente in sala parto rispetto al momento in cui era stato riscontrato “il segnale di allarme”, ovvero “il segnale di patologia” (come lo ha definito il consulente prof. A. ).
Una volta intervenuta in sala parto, la dott. T. aveva compiuto le scelte a praticato le manovre di sua spettanza, rivelatesi poi imperite.
Il V. non procedette in ritardo all’avviso e comunque le lesioni subite alla nascita da N. dipesero unicamente dalla errata manovra di estrazione del feto, manovra compiuta dal medico.
6. Per tali considerazioni la sentenza di condanna del V. va annullata senza rinvio per non aver commesso il fatto, con revoca delle statuizioni civili nei confronti del detto imputato.
7. A diverse conclusioni deve pervenirsi con riferimento alla condotta della T. , stante la infondatezza dei motivi di ricorso.
7.1. Con motivazione del tutto corretta e congrua la Corte di Milano ha fatto proprie le conclusioni cui erano pervenuti i consulenti del P.M., della parte civile ed i consulenti nominati nel giudizio per il risarcimento dei danni subiti dal minore, i quali tutti avevano concordemente individuato la causa delle lesioni dapprima nella applicazione intempestiva ed inopportuna della ventosa ostetrica al medio scavo pelvico, che aveva negativamente interferito nella insorgenza della distocia di spalla, e quindi nella incongrua ed eccessiva trazione sul collo da cui era esitata la lesione del plesso brachiale. I giudici di appello hanno quindi condiviso la valutazione del Tribunale secondo cui le manovre di cui si discute, secondo la letteratura scientifica e lo stesso protocollo adottato al (…), avrebbero dovuto essere eseguite con modalità del tutto diverse da quelle adottate e ciò indipendentemente dalla urgenza in cui ci si trovava ad operare, urgenza peraltro determinata dalla scelta errata di non praticare un parto cesareo.
Su quest’ultimo annotazione si osserva che la scelta del medico di non ricorrere ad una parto chirurgico non ha formato oggetto di specifica contestazione di addebito colposo, tuttavia è evidente che, una volta operata la scelta di procedere nel parto vaginale, doveva essere correttamente governata l’urgenza dovuta alla necessità, stante la sofferenza risultante dal tracciato, di accelerare l’estrazione del corpo fetale, di cui era stata già espulsa la testa. Ed è proprio nel governo della urgenza che la ginecologa ha dimostrato la sua imperizia.
7.2. La Corte, sempre riportandosi alle relazioni dei detti consulenti, ha poi escluso che il giro del cordone ombelicale a bandoliera avesse avuto influenza ai fini della causazione delle lesioni.
Anche sul punto la doglianza della ricorrente T. è del tutto infondata.
In tema di prova scientifica, non spetta alla Corte di legittimità stabilire la maggiore o minore attendibilità scientifica delle acquisizioni esaminate dal giudice di merito e, quindi, se la tesi accolta sia esatta, ma solo se la spiegazione fornita sia razionale e logica; essa, infatti, non è giudice del sapere scientifico ed è solo chiamata a valutare la correttezza metodologica dell’approccio del giudice di merito al sapere tecnico scientifico, che riguarda la preliminare, indispensabile verifica critica in ordine all’affidabilità delle informazioni utilizzate ai fini della spiegazione del fatto. Ne deriva che il giudice di legittimità non può operare una differente valutazione degli esiti di una consulenza, trattandosi di un accertamento in fatto, insindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivato (Sez.5, 16.2.2015, n. 6754).
Peraltro il giudice di merito, se ha indicato esaurientemente le ragioni del proprio convincimento, non è tenuto a rispondere in motivazione a tutti i rilievi del consulente tecnico della difesa, in quanto la consulenza tecnica costituisce solo un contributo tecnico a sostegno della parte e non un mezzo di prova che il giudice deve prendere necessariamente in esame in modo autonomo (Sez.5, 13.10.2014, n.42821): nella specie i giudici di Milano hanno invece valutato la possibile ipotesi alternativa proposta dalla difesa, di lesioni conseguite alla pressione esercitata dal cordone a bandoliera, ma l’hanno esclusa, non già sposando in maniera acritica le differenti conclusioni cui erano pervenuti i consulenti dell’accusa e della parte civile, come si sostiene nell’odierno ricorso, ma con adeguate argomentazioni scientifiche immuni da censure e con richiamo anche a quanto affermato proprio nel protocollo per il trattamento della distocia di spalla in essere presso l’Ospedale (…) laddove si dice espressamente che “la lesione del plesso brachiale è sempre conseguenza di una trazione sul collo”.
8. Con l’ultimo motivo di gravame la ricorrente lamenta vizio di motivazione ed erronea applicazione della legge penale in ordine alla qualificazione, in termini di colpa non lieve, della ritenuta condotta lesiva, al fine di contrastare l’applicazione dei dettami dell’art.3 della Legge Balduzzi.
Anche questa censura non ha fondamento.
In tema di responsabilità medica, la limitazione della responsabilità in caso di colpa lieve prevista dall’art.3 D.L. 13 settembre 2012, n. 158 convertito nella legge 8 novembre 2012, n. 189, sicuramente opera per le condotte professionali conformi alle linee guida contenenti regole di perizia (Sez. 4, 8.7.2014, n. 7346; 20.3.2015, n. 16944; 27.4.2015, n. 26996): la Corte territoriale ne ha escluso la possibilità di applicazione ritenendo però, con motivazione corretta ed immune da vizi, che nel caso che ci occupa si è in presenza di una colpa non configurabile in termini di lieve entità, essendosi manifestato una macroscopico scostamento del comportamento tenuto rispetto a quello doverosamente esigibile dal medico specialista. Non si trattava di una manovra che implicasse la soluzione di problemi di particolare difficoltà, era sicuramente delicata ma rientrava nelle normali competenze del medico ginecologo, e dunque non può dirsi lieve la colpa della imputata che non è stata in grado di compierla ed anzi l’ha attuata in maniera così macroscopicamente incongrua da provocare al minore le gravissime lesioni per cui è processo.
9. L’accertata infondatezza dei motivi di ricorso avanzati dall’imputata non esime peraltro il Collegio dal rilievo dell’intervenuta prescrizione del reato per il quale si procede, trattandosi di un’ipotesi di lesioni colpose consumato alla data dell’8.9.2007.
Invero, in conformità dell’insegnamento ripetutamente impartito da questa Corte, in presenza di una causa estintiva del reato, l’obbligo del giudice di pronunciare l’assoluzione dell’imputato per motivi attinenti al merito si riscontra solo nel caso in cui gli elementi rilevatori dell’insussistenza del fatto, ovvero della sua non attribuibilità penale all’imputato, emergano in modo incontrovertibile, tanto che la relativa valutazione, da parte del giudice, sia assimilabile più al compimento di una constatazione, che a un atto di apprezzamento e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (Sez. Un., n. 35490/2009, Tettamanti).
Ciò perché il concetto di evidenza, richiesto dal secondo comma dell’art. 129 c.p.p., presuppone la manifestazione di una verità processuale così chiara e obiettiva, da rendere superflua ogni dimostrazione, concretizzandosi così in qualcosa di più di quanto la legge richieda per l’assoluzione ampia, oltre la correlazione a un accertamento immediato (Sez. 4, 31.5.2013, n. 23680).
Da ciò discende che, una volta sopraggiunta la prescrizione del reato, al fine di pervenire al proscioglimento nel merito occorre applicare il principio di diritto secondo cui positivamente deve emergere dagli atti processuali, senza necessità di ulteriore accertamento, l’estraneità dell’imputato a quanto allo stesso contestato, e ciò nel senso che si evidenzi l’assoluta assenza della prova di colpevolezza di quello, ovvero la prova positiva della sua innocenza, non rilevando l’eventuale mera contraddittorietà o insufficienza della prova che richiede il compimento di un apprezzamento ponderato tra le opposte risultanze (Sez. 6, 4.3.2014, n. 10284).
Tanto deve ritenersi non riscontrabile nel caso di specie, avendo questa Corte positivamente accertato l’infondatezza di tutte le doglianze avanzate dalla odierna ricorrente avverso la sentenza di condanna pronunciata nei suoi confronti.
10. Ai sensi del richiamato art. 129 c.p.p., la sentenza impugnata va allora annullata senza rinvio in relazione agli effetti penali per essere il reato contestato alla T. estinto per prescrizione.
Il ricorso va invece rigettato ai fini civili.
L’imputata va infine condannata in solido con il responsabile civile alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili per questo giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Annulla l’impugnata sentenza senza rinvio nei confronti di V.M. per non aver commesso il fatto, e nei confronti di T.B. , ai soli fini penali, per essere il reato estinto per prescrizione.
Rigetta il ricorso di T.B. ai fini civili.
Revoca le statuizioni civili nei confronti di V.M. .
Condanna T.B. , in solido con il responsabile civile, alla rifusione delle spese processuali in favore delle costituite parti civili che liquida per ciascuna di esse in Euro 2.500,00 oltre accessori come per legge.
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