SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III
SENTENZA 5 maggio 2016, n.18680
RITENUTO IN FATTO
Il sig. S.M. ricorre per l’annullamento della sentenza del 16/09/2014 della Corte di appello di Brescia che ha confermato la condanna alla pena (principale) di quattro mesi di reclusione (oltre pene accessorie) inflittagli dal Tribunale di Bergamo che, con sentenza del 27/02/2014, l’aveva dichiarato colpevole del reato di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10-bis, per aver omesso di versare, entro il 31/07/2009, le ritenute operate, a fini fiscali, sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti risultanti dalle certificazioni rilasciate ai sostituti per l’ammontare complessivo di Euro 159.301,00.
1.1. Con unico motivo eccepisce, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), l’errata interpretazione della norma incriminatrice (sotto il profilo dell’elemento soggettivo necessario ad integrarla che -afferma – consiste nel dolo specifico di evasione e non nel dolo generico) e conseguente vizio di motivazione sul punto relativo alla crisi di liquidità dell’impresa quale fattore idoneo a escludere la volontà di evadere il fisco.
1.2. Temi ripresi ed ulteriormente illustrati con il primo motivo aggiunto di ricorso con cui lamenta ulteriormente la svalutazione dei comportamenti tenuti a margine della dedotta crisi di liquidità, finalizzati a ricercare sul mercato (ancorchè inutilmente) la liquidità necessaria a far fronte al debito e comunque a ottenerne (questa positivamente) una rateizzazione.
1.3. Con il secondo motivo aggiunto di ricorso eccepisce la non punibilità della condotta ai sensi del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 13, come modificato dal D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158, art. 11.
1.4. Con il terzo motivo aggiunto invoca la applicazione dell’istituto della particolare tenuità del fatto.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito illustrate.
Il primo (ed unico) motivo del ricorso originario è inammissibile perchè, oltre a fondarsi sul non consentito richiamo al contenuto delle prove assunte nel corso del giudizio di primo grado, utilizzate a supporto degli argomenti di diritto proposti, è in ogni caso generico e manifestamente infondato.
L’imputato sostiene, infatti, che il reato di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10-bis, è caratterizzato dal dolo specifico, più in particolare dalla specifica intenzione di non voler versare le somme trattenute, intenzione che deve essere esclusa dalla crisi di liquidità dell’impresa derivante, nel caso di specie, dalla stretta del settore creditizio e da mancati incassi da parte di clienti, crisi cui aveva fatto fronte (anche) mediante il mancato accantonamento delle somme trattenute sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti che gli aveva consentito di salvare i posti di lavoro e di non fallire.
3.1. L’interpretazione proposta dal ricorrente non trova riscontro alcuno nel testo della norma incriminatrice.
3.2. Al riguardo occorre ribadire l’insegnamento di Sez. U., n. 37425 del 28/03/2103, Favellato, secondo cui: a) il reato di omesso versamento delle ritenute certificate (D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-
bis) si consuma con il mancato versamento per un ammontare superiore ad Euro cinquantamila (oggi 150.000,00, in conseguenza delle modifiche introdotte dal D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158, art. 7,) delle ritenute complessivamente risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti entro la scadenza del termine finale per la presentazione della dichiarazione annuale; b) si tratta di reato punibile a titolo di dolo generico che consiste nella coscienza e volontà di non versare all’Erario le ritenute effettuate nel periodo considerato, non essendo richiesto che il comportamento illecito sia dettato dallo scopo specifico di evadere le imposte; c) la prova del dolo è insita in genere nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo di imposta, e che deve, quindi, essere saldato o almeno contenuto non oltre la soglia, entro il termine lungo previsto; d) il debito verso il fisco è collegato al pagamento delle retribuzioni. Ogni qualvolta il sostituto d’imposta effettua tali pagamenti insorge a suo carico l’obbligo di accantonare le somme dovute all’Erario, organizzando le risorse disponibili in modo da poter adempiere all’obbligazione tributaria. L’introduzione della norma penale, stabilendo nuove condizioni e un nuovo termine per la propria applicazione, estende evidentemente la detta esigenza di organizzazione su scala annuale.
Non può, quindi, essere invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine lungo, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta (protrattasi, in sede di prima applicazione della norma, nel 2005) di non far debitamente fronte alla esigenza predetta.
3.3. Sviluppando e riprendendo il tema della ‘crisi di liquidità’ d’impresa quale fattore in grado di escludere la colpevolezza, tema solo accennato nella citata sentenza delle Sezioni Unite, questa Corte ha ulteriormente precisato che è necessario che siano assolti, sul punto, precisi oneri di allegazione che devono investire non solo l’aspetto della non imputabilità al contribuente della crisi economica che improvvisamente avrebbe investito l’azienda, ma anche la circostanza che detta crisi non potesse essere adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso ad idonee misure da valutarsi in concreto.
3.4. Occorre cioè la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse economiche e finanziarie necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di un’improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili (Sez. 3, 9 ottobre 2013, n. 5905/2014; Sez. 3, n. 15416 del 08/01/2014, Tonti Sauro; Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013, Mercutello, Rv. 258055).
3.5. Tanto premesso, si osserva che nel caso di specie le allegazioni difensive sono del tutto generiche (si fa riferimento, come detto, a non meglio precisati inadempimenti dei clienti e a strette creditizie), attengono a momenti antecedenti alla scadenza del termine previsto per il versamento e non riescono a supportare le eccezioni di inesigibilità della condotta o comunque di sussistenza della forza maggiore derivante dalla crisi di liquidità che lo aveva costretto, a suo dire, a non versare all’Erario le ritenute operate sulle retribuzioni corrisposte ai lavoratori dipendenti. Tra l’altro, come già ricordato da questa Corte, l’inadempimento dei clienti rientra nel normale rischio di impresa e non può giustificare l’omesso versamento delle somme effettivamente trattenute a fini fiscali (Sez. 3, n. 20266 del 08/04/2014, Zanchi, Rv. 259190).
3.6. Occorre però sgombrare il campo da un equivoco di fondo che rischia di alterare la corretta impostazione dogmatica del problema:
per la sussistenza del reato in questione non è richiesto il fine di evasione, tantomeno l’intima adesione del soggetto alla volontà di violare il precetto.
3.7. Quando il legislatore ha voluto attribuire all’elemento soggettivo del reato il compito di concorrere a tipizzare la condotta e/o quello di individuare il bene/valore/interesse con essa leso o messo in pericolo, lo ha fatto in modo espresso, escludendo, per esempio, dall’area della penale rilevanza le condotte solo eventualmente (e dunque non intenzionalmente) volte a cagionare l’evento (art. 323 c.p., artt. 2621, 2622, 2634 c.c., D.Lgs. 27 gennaio 2010, n. 39, art. 27, comma 1), incriminando, invece, quelle ispirate da un’intenzione che va oltre la condotta tipizzata (i reati a dolo specifico), attribuendo rilevanza allo scopo immediatamente soddisfatto con la condotta incriminata (per es., art. 424 c.p.), assegnando al momento finalistico della condotta stessa il compito di individuare il bene offeso (artt. 393 e 629 c.p., artt. 416, 270, 270-bis e 305 c.p., art. 289-bis, 630, 605 c.p.).
3.8. Il dolo del reato in questione è integrato (lo hanno ricordato le Sezioni Unite Penali con la citata sentenza n. 37425 del 28/03/2103) dalla condotta omissiva posta in essere nella consapevolezza della sua illiceità, non richiedendo la norma, quale ulteriore requisito, un atteggiamento antidoveroso di volontario contrasto con il precetto violato.
3.9. Gli argomenti utilizzati dal ricorrente a sostegno della fondatezza della oggettiva impossibilità di adempiere appaiono, perciò, frutto di un’operazione dogmaticamente errata che tende ad attrarre nell’orbita del dolo generico requisiti che, per definizione, non gli appartengono e che si collocano piuttosto nell’ambito dei motivi a delinquere o che ne misurano l’intensità (art. 133 c.p.).
3.10. La scelta di non pagare prova il dolo; i motivi della scelta non lo escludono.
3.11. L’oggettiva impossibilità di adempiere può avere rilevanza solo se integra causa di forza maggiore, la cui applicabilità al caso di specie è sostanzialmente rivendicata dal ricorrente.
3.12. La forza maggiore, come noto, esclude la ‘suitas’ della condotta. Secondo l’impostazione tradizionale, è la ‘vis cui resisti non potest’, a causa della quale l’uomo ‘non agit sed agitur’ (Sez. 1, n. 900 del 26/10/1965, Sacca, Rv. 100042; Sez. 2, n. 3205 del 20/1271972, Pilla, Rv. 123904; Sez. 4, n. 8826 del 21/0471980, Ruggieri, Rv. 145855).
3.13. Per questa ragione, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la forza maggiore rileva come causa esclusiva dell’evento, mai quale causa concorrente di esso (Sez. 4, n. 1492 del 23/11/1982, Chessa, Rv. 157495; Sez. 4, n. 1966 del 06/12/1966, Incerti, Rv. 104018; Sez. 4 n. 2138 del 05/12/1980, Biagini, Rv.148018); essa sussiste solo e in tutti quei casi in cui la realizzazione dell’evento stesso o la consumazione della condotta antigiuridica è dovuta all’assoluta ed incolpevole impossibilità dell’agente di uniformarsi al comando, mai quando egli si trovi già in condizioni di illegittimità (Sez 4, n. 8089 del 13/0571982, Galasso, Rv. 155131; Sez. 5, n. 5313 del 26/03/1979, Geiser, Rv.142213; Sez. 4, n. 1621 del 19/01/1981, Sodano, Rv. 147858; Sez. 4 n. 284 del 18/02/1964, Acchiardi, Rv. 099191).
3.14. Poichè la forza maggiore postula la individuazione di un fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile, che esula del tutto dalla condotta dell’agente, sì da rendere ineluttabile il verificarsi dell’evento, non potendo ricollegarsi in alcun modo ad un’azione od omissione cosciente e volontaria dell’agente, questa Suprema Corte ha sempre escluso, quando la specifica questione è stata posta, che le difficoltà economiche in cui versa il soggetto agente possano integrare la forza maggiore penalmente rilevante. (Sez. 3, n. 4529 del 04/12/2007, Cairone, Rv. 238986; Sez. 1, n. 18402 del 05/04/2013, Giro, Rv. 255880; Sez 3, n. 24410 del 05/04/2011, Bolognini, Rv.250805; Sez. 3, n. 9041 del 18/09/1997, Chiappa, Rv. 209232; Sez. 3, n. 643 del 22/10/1984, Bottura, Rv. 167495; Sez. 3, n. 7779 del 07/05/1984, Anderi, Rv. 165822), così come deve essere esclusa in caso di generico inadempimento dei clienti, trattandosi di evenienza che, nei termini in cui è stata dedotta, non è imprevedibile, appartiene al rischio di impresa e rende, come visto, irrilevante la relativa giustificazione (Sez. 3, n. 20266 del 08/04/2014, Zanchi, Rv. 259190, cit.).
3.15. Costituisce corollario di queste affermazioni il fatto che nei reati omissivi integra la causa di forza maggiore l’assoluta impossibilità, non la semplice difficoltà di porre in essere il comportamento omesso (Sez. 6, n. 10116 del 23/03/1990, Iannone, Rv.184856).
3.16. Ne consegue che: a) il margine di scelta esclude sempre la forza maggiore perchè non esclude la ‘suitas’ della condotta; b) la mancanza di provvista necessaria all’adempimento dell’obbligazione tributaria penalmente rilevante non può pertanto essere addotta a sostegno della forza maggiore quando sia comunque il frutto di una scelta/politica imprenditoriale volta a fronteggiare una crisi di liquidità; c) non si può invocare la forza maggiore quando l’inadempimento penalmente sanzionato sia stato con-causato dal mancato pagamento alla singole scadenze mensili e dunque da una situazione di illegittimità; d) l’inadempimento tributario penalmente rilevante può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che non ha potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico (Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014, Schirosi, Rv. 263128).
3.17. Alla luce delle considerazioni che precedono, appare in tutta la sua fragilità e genericità la tesi difensiva.
3.18. Il ricorrente afferma con chiarezza di aver optato per il mancato versamento mensile delle ritenute effettivamente operate sulle retribuzioni dei dipendenti in base ad una scelta imprenditoriale che gli appartiene, ammettendo, così, la suitas della condotta e di versare in una delle condizioni che la giurisprudenza di questa Corte ha sempre ritenuto inidonea a integrare la causa di forza maggiore. La politica della sistematica perpetrazione dell’illecito amministrativo-tributario, quale strumento di gestione della crisi di liquidità, non può giustificare la forza maggiore che s’invoca al momento della scadenza del termine cd. lungo, come se essa vivesse di vita propria e non affondasse le sue radici in una situazione di persistente illegittimità, derivante dalla scelta di distrarre la parte di retribuzione dei lavoratori destinata all’Erario ad altri scopi.
L’inammissibilità del ricorso originario impedisce l’esame dell’omologo primo motivo aggiunto di ricorso (art. 585 c.p.p., comma 4) ma non la astratta applicabilità delle norme sostanziali penali più favorevoli nel frattempo sopravvenute (D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 13, come modificato dal cit. D.Lgs. n. 158 del 2015, art. 11, comma 1; art. 131-bis c.p., introdotto dal D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28, art. 1).
A norma del ‘nuovo’ D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 13, commi 1 e 3, ‘1. I reati di cui agli artt. 10-bis, 10-ter e art. 10-quater, comma 1, non sono punibili se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie, nonchè del ravvedimento operoso (…) 3. Qualora, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, il debito tributario sia in fase di estinzione mediante rateizzazione, anche ai fini dell’applicabilità dell’art. 13-bis, è dato un termine di tre mesi per il pagamento del debito residuo. In tal caso la prescrizione è sospesa. Il Giudice ha facoltà di prorogare tale termine una sola volta per non oltre tre mesi, qualora lo ritenga necessario, ferma restando la sospensione della prescrizione’.
5.1. Il legislatore ha così introdotto una causa di non punibilità non prevista in precedenza il cui avverarsi è subordinato alla seguenti condizioni, tra loro alternative: a) l’integrale pagamento dell’importo dovuto prima della dichiarazione di apertura del dibattimento; oppure b) il pagamento rateale del debito in corso al momento dell’apertura del dibattimento (in tal caso, il Giudice può concedere il termine di tre mesi, prorogabile di altri tre, per consentire l’integrale pagamento).
5.2. E’ agevole osservare che, nel caso di specie, il ricorrente -per sua stessa ammissione – non solo non ha mai pagato l’intero importo dovuto, nè prima, nè dopo l’apertura del dibattimento, ma non ha mai nemmeno iniziato a farlo. Egli infatti afferma chiaramente, ancor oggi, che aveva ‘avviato una trattativa volta alla definizione del debito erariale’. Il che costituisce argomento di per sè sufficiente a escludere in radice che si possa invocare, in sede di legittimità, l’applicabilità di una causa sopravvenuta di non punibilità della quale non sussiste, nè mai è esistito il presupposto di fatto.
Quanto alla non punibilità del fatto di particolare tenuità (art. 131-bis c.p.), istituto di diritto penale sostanziale applicabile, ai sensi dell’art. 2 c.p., anche in sede di legittimità ove dalle risultanze processuali e dalla motivazione della decisione impugnata ne ricorrano i presupposti (Sez. 3, n. 15449 del 08/04/2015, Mazzarotto, Rv. 263308; Sez. 4, n. 22381 del 17/04/2015, Mauri, Rv. 263496; Sez. 3, n. 31932 del 02/07/2015, Terrezza, Rv.264449; Sez. 3, n. 21474 del 22/04/2015, Fantoni, Rv. 263693), occorre preliminarmente chiedersi se sia applicabile anche ai reati che, come nel caso di specie, prevedono specifiche soglie di punibilità, principio implicitamente affermato (perchè dato per presupposto) dalle già citate sentenze n. 15449 del 2015 e n. 21474 del 2015.
6.1. In materia di reati tributari il valore soglia costituisce elemento che integra il reato, concorrendone a definirne il disvalore, al di sotto del quale la condotta è ritenuta, secondo una valutazione tipica del legislatore, non offensiva dell’interesse tutelato (Sez. U, n. 37425 del 28/03/2013, Favellato, Rv. 255759, cit.).
6.2. La non punibilità del fatto ai sensi dell’art. 131-bis c.p., presuppone l’esistenza di un reato perfetto in ogni suo aspetto (oggettivo e soggettivo), sicchè il superamento anche solo di un centesimo del valore soglia costituisce ‘conditio sine qua non’ dell’applicabilità dell’istituto, non ragione della sua esclusione.
Non hanno pregio le obiezioni che valorizzano l’argomento secondo il quale il superamento della soglia di punibilità segna il momento di non ritorno della non tollerabilità dell’offesa erariale e della giustificazione della reazione penale, sia perchè, in realtà, qualsiasi reato è necessariamente offensivo e la sua punizione esprime il giudizio di intollerabilità della relativa condotta, sia perchè al di sotto della soglia di punibilità il fatto è penalmente irrilevante, come può esserlo una qualsiasi condotta estranea al paradigma di una qualunque fattispecie incriminatrice.
6.3. Va piuttosto evidenziato che per i reati di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 10-bis, 10-ter, 10-quater, l’art. 13 (come modificato dal D.Lgs. n. 158 del 2015) contempla una specifica causa di non punibilità legata, come visto, all’integrale pagamento ‘degli importi dovuti’. Il diritto dell’imputato a ottenere, prima dell’apertura del dibattimento, un termine per il saldo del pagamento già in corso, a prescindere dall’entità dello scostamento della somma non versata dal valore soglia e con riferimento all’intera somma dovuta, comprensiva delle sanzioni e degli interessi, contraddice (ed anzi esclude) l’applicabilità del meccanismo processuale previsto dall’art. 469 c.p.p., comma 1-bis, per poterlo prosciogliere dal medesimo reato per la particolare tenuità del fatto con sentenza pre-dibattimentale, meccanismo processuale non richiamato, nè fatto salvo dalla norma in questione.
6.4. Si tratta però di preclusione che riguarda coloro che possono beneficiare della causa di non punibilità in questione (reati consumati dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 158 del 2015 o per i quali il dibattimento non è stato ancora aperto). Nel caso di specie, come visto, l’imputato non può beneficiarne. Occorre dunque verificare se, in base alle risultanze processuali o alla motivazione della sentenza il fatto possa essere ritenuto di particolare tenuità.
6.5. Occorre, a tal fine, che il danno sia ‘esiguo’. L’esiguità che delimita su un piano obiettivo, insieme con il concorso degli altri elementi, la non punibilità del fatto va valutata considerando che l’ordinamento penale conosce fatti di particolare (o speciale) tenuità o di lieve entità che attenuano la pena, senza escluderla.
E’ evidente, dunque, che l’esiguità richiesta dall’art. 131-bis c.p., si colloca ad un livello ancora inferiore.
6.6. Orbene, nel caso in esame il danno non può essere ritenuto esiguo, nemmeno alla luce della nuova soglia di punibilità prevista dal modificato D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-bis, superata, nel caso in esame, di quasi 10.000,00 Euro.
6.7. Ne consegue che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
6.8. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 c.p.p., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (C. Cost. sent. 7-13 giugno 2000, n. 186), l’onere delle spese del procedimento nonchè del versamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende, che si fissa equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di Euro 1000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
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