Corte di Cassazione, sezione prima penale, Sentenza 30 aprile 2020, n. 13458.
Massima estrapolata:
In tema di procedimento a carico di minorenni, è affetto da nullità assoluta ed insanabile, ai sensi degli artt. 178, comma 1, lett. a) e 179, comma 1, cod. proc. pen., il provvedimento emesso quale giudice dell’esecuzione dal giudice per l’udienza preliminare in composizione monocratica, anziché collegiale, come previsto dall’art. 50-bis, R.D. 30 gennaio 1941, n. 12.
Sentenza 30 aprile 2020, n. 13458
Data udienza 3 marzo 2020
Tag – parola chiave: Traffico di stupefacenti – Dpr 309 del 1990 – Condanna – Sentenza della corte costituzionale 40 del 2019 – Determinazione della pena – Parametri – Articolo 133 cp – Tribunale per i minorenni – Articoli 43 bis e 50 bis ordinamento giudiziario – Udienza preliminare – Decreto legislativo 51 del 1998 – Criteri – Sentenza della corte di cassazione a sezioni unite 18292 del 2014 – Esecuzione del provvedimento giudiziale – Articoli 609 e 665 cpp – Competenza giurisdizionale – Nullità – Legge 49 del 2006 – Droghe pesanti e leggere – Differente trattamento sanzionatorio – Sentenza della corte di cassazione a sezioni unite 18821 del 2013 – Limiti edittali – Sentenza della corte costituzionale 32 del 2014 – Difetto di motivazione – Sentenza della corte di cassazione a sezioni unite 42858 del 2014
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SIANI Vincenzo – Presidente
Dott. SARACENO Rosa Anna – Consigliere
Dott. CASA Filipp – rel. Consigliere
Dott. CENTOFANTI Francesco – Consigliere
Dott. CAPPUCCIO Daniele – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato il (OMISSIS);
avverso l’ordinanza del 08/10/2019 del TRIB. MINORENNI di MILANO;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. FILIPPO CASA;
lette le conclusioni del PG Dott. Tocci Stefano, che ha chiesto l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata.
RITENUTO IN FATTO
1. Con l’ordinanza in epigrafe, il G.U.P. del Tribunale per i minorenni di Milano, in funzione di giudice dell’esecuzione, rigettava l’istanza proposta nell’interesse di (OMISSIS), volta ad ottenere, alla luce della decisione n. 40/2019 della Corte Costituzionale, la rideterminazione in termini piu’ favorevoli della pena di anni due, mesi otto di reclusione ed Euro 12.000,00 di multa, inflittagli con la sentenza emessa dal G.U.P. del Tribunale per i minorenni di Bologna in data 25 gennaio 2018, irrevocabile l’8 settembre 2018, in relazione al reato di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, comma 1.
1.1. Il giudice dell’esecuzione, a fondamento della decisione reiettiva, osservava che il giudice della cognizione aveva “operato un calcolo della pena senza indicare la necessita’ di attenersi alla soglia minima edittale” e che “rientrava, pertanto, nella discrezionalita’ del giudicante partire da una pena base superiore ad anni sei di reclusione, tenuto conto della oggettiva gravita’ del fatto quale emergente dalla pluralita’ delle cessioni” poste in essere dall’imputato.
Rilevava lo stesso giudice, concludendo, che la sentenza della Corte costituzionale n. 40/2019 non aveva inciso sul trattamento sanzionatorio inflitto nei confronti dell’ (OMISSIS) e “calcolato nel rispetto dei limiti edittali previsti dalla fattispecie incriminatrice, sulla scorta di una serie di valutazioni correttamente operate dall’organo giudicante ai sensi dell’articolo 133 c.p.”.
2. Ricorre per cassazione l’interessato col patrocinio del difensore, denunciando violazione di legge (articolo 673 c.p.p.) e manifesta illogicita’ della motivazione.
Nell’affermare la mancanza di volonta’, da parte del giudice della cognizione, di infliggere una pena calcolata partendo dal minimo edittale di otto anni di reclusione, il giudice dell’esecuzione aveva travisato il ragionamento e le valutazioni sviluppati dal G.U.P. del Tribunale per i minorenni di Bologna, posto che, a pag. 6 della sentenza n. 22/18, nella sequenza conducente alla determinazione della pena finale, risultava indicata come pena-base quella di otto anni di reclusione e di 27.000,00 Euro di multa, ridotta per l’attenuante della minore eta’ e per le attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante alla pena finale di due anni, otto mesi di reclusione e 12.000,00 Euro di multa.
Era, quindi, palese che il giudicante avesse considerato il fatto ascritto all’imputato di scarso allarme sociale, sicche’ non poteva ritenersi sussistente, ne’ traspariva dalla decisione, il riferimento alla oggettiva gravita’ del fatto evocato dal giudice dell’esecuzione.
3. Il Procuratore Generale presso questa Corte, nella sua requisitoria scritta, ha concluso per l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata, in sintonia con le ragioni esposte dal ricorrente.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Va rilevato, in primo luogo, che l’ordinanza sottoposta all’odierno vaglio, essendo stata emessa, quale giudice dell’esecuzione, dal G.U.P. del Tribunale per i minorenni di Milano in composizione monocratica anziche’ in composizione collegiale, deve ritenersi affetta da nullita’ assoluta, a norma del combinato disposto dell’articolo 33 c.p.p., comma 1, articolo 178 c.p.p., comma 1, lettera a) e articolo 179 c.p.p., comma 1, in relazione al Regio Decreto 30 gennaio 1941, n. 12, articolo 50-bis (“ordinamento giudiziario”), aggiunto dal Decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 449, articolo 14 (“Norme per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario al nuovo processo penale ed a quello a carico degli imputati minorenni”).
1.1. E’ opportuno riportare il testo integrale dell’articolo 50-bis ord. giud., che cosi’ dispone:
“1. In ogni tribunale per i minorenni uno o piu’ magistrati sono incaricati, come giudici
singoli, dei provvedimenti previsti dal codice di procedura penale per la fase delle indagini preliminari. L’organizzazione del lavoro dei predetti giudici e’ attribuita al piu’ anziano.
2. Nell’udienza preliminare, il tribunale per i minorenni giudica composto da un magistrato e da due giudici onorari, un uomo e una donna, dello stesso tribunale”.
Sebbene la rubrica dell’articolo si riferisca al “Giudice per le indagini preliminari”, nel corpo della norma si distinguono con precisione le funzioni del G.I.P. monocratico da quelle del G.U.P. collegiale (quest’ultimo, tra l’altro, fatto rientrare nella dizione “Tribunale per i minorenni”); e dette funzioni, in via generale, sono state nettamente separate a livello tabellare a partire quanto meno dal Decreto Legislativo 19 febbraio 1998, n. 51 (v. in particolare l’articolo 7-bis ord. giud., commi 2-bis e 2-ter). Dunque, non puo’ affermarsi che il giudice dell’udienza preliminare minorile si identifichi nel “Giudice per le indagini preliminari”, al pari di quanto e’ da dire per il Tribunale ordinario (v. articolo 43-bis ord. giud., comma 3, lettera b)), fermo restando che entrambi sono “organi” dello stesso Tribunale per i Minorenni (v. articolo 2 disp. proc. pen. min.).
Cio’ detto, occorre ricordare che la previsione della collegialita’ dell’organo preposto all’udienza preliminare minorile trova la sua ratio nella delicatezza dei provvedimenti che in quella sede possono essere assunti, quali la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, la sospensione del processo e messa alla prova, la dichiarazione di estinzione del reato per esito positivo della prova: e’ stata ritenuta, dunque, necessaria, dal legislatore, in una fase caratterizzata da tale rilevanza, l’integrazione dell’organo giudiziario con l’apporto specialistico della componente laica (Sez. 2, n. 6721 del 3/2/2006, Della Volpe, Rv. 233274 01; Sez. U, n. 18292 del 27/2/2014, P.G. in proc. B.H.A., in motivazione, anche con richiamo a quanto espresso sub articolo 2 disp. proc. pen. min. dalla Relazione al Testo Definitivo delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni).
1.2. Tale composizione collegiale del G.U.P. minorile va, naturalmente, mantenuta anche nella fase dell’esecuzione, dovendosi, a tal riguardo, far leva, in assenza di disposizioni speciali derogatorie, al generale rinvio operato dall’articolo 1, comma 1, disp. proc. pen. min. alle norme del codice di procedura penale, e quindi, per quel che qui rileva, all’articolo 665 c.p.p., che individua, al comma 1, quale giudice competente a conoscere dell’esecuzione di un provvedimento colui che lo ha deliberato e, al comma 4, il giudice che ha emesso il provvedimento divenuto irrevocabile per ultimo, nel caso in cui l’esecuzione concerna piu’ provvedimenti emessi da giudici diversi.
1.3. Nel caso di specie, come detto, l’ordinanza impugnata e’ stata emessa dal G.U.P. del Tribunale per i Minorenni di Milano, in funzione di giudice dell’esecuzione, ma in composizione monocratica e non nella composizione collegiale prevista dall’Ordinamento giudiziario (articolo 50-bis cit.).
1.4. Tale violazione di legge, non dedotta dal ricorrente, ma rilevabile d’ufficio da questa Corte ex articolo 609 c.p.p., comma 2, determina la nullita’ assoluta del provvedimento, insanabile e rilevabile di ufficio in ogni stato e grado del procedimento, a norma dell’articolo 33 c.p.p., comma 1, articolo 178 c.p.p., comma 1, lettera a) e articolo 179 c.p.p., comma 1.
Ed invero, la questione afferente al “numero dei giudici necessari per costituire i collegi (…) stabiliti dalle leggi di ordinamento giudiziario”, evocato dall’articolo 33 c.p.p., comma 1, si pone sia quando il numero o (deve intendersi) anche la qualita’ dei componenti del collegio non corrispondono a quelli previsti dalla legge, sia quando a emettere il provvedimento e’ un giudice singolo invece di un giudice collegiale (ccintra, in questa ipotesi, Sez. 3, n. 18779 del 15/3/2012, Martino, Rv. 252642-01, per un caso di sequestro preventivo emesso dal G.I.P. monocratico in luogo di quello collegiale previsto dalla legislazione emergenziale in materia di rifiuti della Regione Campania), sia, ancora, per l’evidente analoga ratio, quando si verifica il caso inverso (Sez. U, n. 18292 del 27/2/2014, P.G. in proc. B.H.A., in motivazione, cit.).
Si veda, per un’applicazione in tema di composizione del Tribunale di sorveglianza, Sez. 1, n. 1933 del 25/6/1990, Rossi, Rv. 184707-01, a proposito della disposizione dell’articolo 70 ord. pen., comma 5, in una fattispecie – ritenuta integrare una nullita’ assoluta proprio per la violazione delle regole concernenti il numero dei giudici necessari per costituire i collegi – in cui il Tribunale di sorveglianza era risultato composto da tre magistrati togati, oltre che dal presidente e da due esperti laici, e non, come previsto dalla riferita norma, dal presidente, da un magistrato di sorveglianza e da due esperti.
La previsione di nullita’ si riferisce, dunque, ai casi in cui, proprio per la composizione numerica (o qualitativa) alterata, non sia possibile la identificabilita’ dell’organo che esercita la giurisdizione alla stregua delle previsioni di ordinamento giudiziario, “non potendo la decisione di un organo di composizione numerica diversa da quella prescritta dalla legge costituire espressione di quella sovranita’ (…) impersonata da quel giudice nell’esercizio del magistero giurisdizionale” (cosi’, in un molto lontano precedente, relativo alla irregolare composizione dell’Adunanza del Consiglio di Stato, Sez. U civ., n. 3008 dell’11/10/1952, Tesauro c. Mortati, Rv. 880247 – 01, richiamato da Sez. U, n. 18292/2014, cit.).
2. Il vizio rilevato determinerebbe l’annullamento senza rinvio dell’ordinanza impugnata.
Tuttavia, avendo il Collegio riscontrato nel provvedimento vizi motivazionali, in parte dipendenti dalla inesatta interpretazione della sentenza n. 40/2019 della Corte costituzionale, ritiene opportuno, per ragioni di economia processuale, optare per la formula dell’annullamento con rinvio, in modo tale da consentire al giudice del rinvio, costituito in forma collegiale come richiesto dall’Ordinamento giudiziario, di conformarsi ai criteri che di qui a poco verranno enunciati, evitando, cosi’, di incorrere nei medesimi vizi di legittimita’ oggi rilevati.
3. Cio’ posto, e’ indubbio che la questione centrale da affrontare trae origine dalla declaratoria di illegittimita’ costituzionale del Decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, articolo 73, comma 1, di cui alla sentenza n. 40 del 23/1/2019 (in G.U. del 13/3/2019), in riferimento al minimo edittale di otto anni di reclusione, ripristinato per effetto della precedente decisione della Corte costituzionale n. 32 del 25/2/2014.
Con tale decisione (n. 32/2014) si era, infatti, determinata la reviviscenza del testo normativo in vigore antecedentemente alla modifica introdotta dal Decreto Legge n. 272 de 2005, articolo 4-bis, comma 1, lettera b, convertito con mod. nella L. n. 49 del 2006, con restaurazione, per le condotte relative a detenzione e cessione di droghe cd. pesanti, del trattamento minimo di otto anni di reclusione, soglia che la Corte costituzionale ha, oggi, dichiarato illegittima, facendo, cosi’, tornare in vigore il limite minimo di sei anni.
3.1. Pur consapevole del mutamento dei parametri normativi di riferimento, conseguenti all’ultima pronuncia del giudice costituzionale, il giudice dell’esecuzione ha ritenuto di dover in concreto confermare la legalita’ e la congruita’ della sanzione detentiva come stabilita nella sentenza di condanna passata in giudicato.
3.2. La soluzione cosi’ offerta si discosta dagli orientamenti espressi dalle Sezioni Unite di questa Corte, che, a partire dalla sentenza n. 42858 del 29/5/2014, P.M. in proc. Gatto, Rv. 260697, hanno tracciato le linee ermeneutiche fondamentali per la comprensione della tematica devoluta dal ricorso, enunciando, fra gli altri, il fondamentale principio in base al quale, quando, a seguito di una sentenza irrevocabile di condanna, interviene la dichiarazione d’illegittimita’ costituzionale di una norma penale diversa da quella incriminatrice, incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, e quest’ultimo non sia stato interamente eseguito, il giudice dell’esecuzione deve rideterminare la pena in favore del condannato.
3.2.1. Con la richiamata decisione, che si innesta su un percorso interpretativo gia’ segnato da precedenti pronunce (Sez. U., n. 18821 del 24/10/2013, Ercolano, Rv. 258650; Sez. U., n. 4687 del 20/12/2005, Catanzaro, Rv. 232610), il Supremo Consesso ha affermato che, in linea di principio, l’efficacia del giudicato penale nasce non solo dalla necessita’ di certezza e stabilita’ giuridica, propria della funzione tipica del giudizio, ma anche dall’esigenza di porre un limite all’intervento dello Stato nella sfera della liberta’ individuale del soggetto, sicche’ essa si esprime, essenzialmente, nel divieto di “bis in idem”; lo stesso Consesso ha, peraltro, precisato che detta efficacia non implica l’immodificabilita’ in assoluto del trattamento sanzionatorio stabilito con la sentenza irrevocabile di condanna nei casi in cui la pena debba subire modificazioni necessarie imposte dal sistema a tutela dei diritti primari della persona, a partire dal diritto di liberta’ di cui all’articolo 13 Cost. (Sez. U, n. 42858/2014 cit., Rv. 260696; v. anche Corte Cost. sentenze n. 115 del 1987, n. 267 del 1987, n. 282 del 1989).
Proprio in virtu’ del principio di (relativa) “flessibilita’” del giudicato, questo non esplica, quindi, efficacia assoluta e totalmente preclusiva, come dimostrato dalla previsione legislativa di plurimi strumenti che consentono al giudice dell’esecuzione di operare interventi integrativi o modificativi delle statuizioni gia’ divenute definitive, primo fra tutti la possibilita’ di revoca della sentenza di condanna di cui all’articolo 673 c.p.p..
3.2.2. Sempre con la sentenza in commento, le Sezioni Unite hanno, poi, affrontato il tema della distinzione ontologica tra declaratoria di incostituzionalita’ della norma penale ed ordinario intervento legislativo abrogativo, giustificato da mutata considerazione delle finalita’ da perseguire con le disposizioni penali, evidenziando che, nel primo caso, la pronuncia di illegittimita’ costituzionale travolge sin dall’origine la norma scrutinata secondo un fenomeno diverso da quello dell’abrogazione, che limita l’efficacia della sua applicazione a fatti verificatisi sino ad un certo limite temporale, potendo dar luogo a successione di leggi nel tempo in relazione alla diversa regolamentazione della stessa materia introdotta (Sez. U, n. 42858/2014 cit., Rv. 260695). Pertanto, nella prima situazione, poiche’ la norma incostituzionale viene “espunta dall’ordinamento proprio perche’ affetta da invalidita’ originaria”, sorge l’obbligo per i giudici avanti ai quali si invocano le norme dichiarate incostituzionali di non applicarle, obbligo vincolante anche quando il contrasto con i valori costituzionali sia riscontrato in disposizione di legge penale sostanziale incidente soltanto sulla pena, cosi’ divenuta illegale nella sua misura, sebbene irrogata a punizione di un fatto di immodificata illiceita’ penale.
Da tanto discende che “tutti gli effetti pregiudizievoli derivanti da una sentenza penale di condanna fondata, sia pure in parte, sulla norma dichiarata incostituzionale devono essere rimossi dall’universo giuridico, ovviamente nei limiti in cui cio’ sia possibile, non potendo essere eliminati gli effetti irreversibili perche’ gia’ compiuti e del tutto consumati”. In tal modo, in aderenza al disposto della L. n. 87 del 1953, articolo 30, comma 4, secondo il quale, quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale e’ stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali, si e’ precisato, da un lato, che l’omesso inserimento nel testo dell’articolo 673 c.p.p., del caso di declaratoria di incostituzionalita’ di norma penale relativa al solo trattamento sanzionatorio non impedisce un intervento di adeguamento da parte del giudice dell’esecuzione, dall’altro, che la rilevanza della pronunzia di incostituzionalita’ della disposizione sulla pena incontra il limite dell’esaurimento del rapporto esecutivo.
3.3. Tali principi hanno ricevuto ulteriore precisazione per effetto di un successivo intervento delle Sezioni Unite di questa Corte, indotto dalla citata sentenza di illegittimita’ costituzionale n. 32 del 2014 in tema di droghe cd. “leggere”.
Con la sentenza n. 33040 del 26/2/2015, Jazouli, Rv. 264205, nell’affrontare questione parzialmente sovrapponibile a quella che caratterizza la presente vicenda, si e’ stabilito che “E’ illegale la pena determinata dal giudice attraverso un procedimento di commisurazione che si sia basato, per le droghe cosiddette “leggere”, sui limiti edittali del Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, come modificato dalla L. n. 49 del 2006, in vigore al momento del fatto, ma dichiarato successivamente incostituzionale con sentenza n. 32 del 2014, anche nel caso in cui la pena concretamente inflitta sia compresa entro i limiti edittali previsti dall’originaria formulazione del medesimo articolo, prima della novella del 2006, rivissuto per effetto della stessa sentenza di incostituzionalita’” (in tal senso, in precedenza, anche Sez. 1, n. 52981 del 18/11/2014, De Simone, Rv. 261688; Sez. 1, n. 53019 del 4/12/2014, Schettino, Rv. 261581).
3.3.1. L’intervento nomofilattico della Suprema Corte nella sua composizione piu’ autorevole ha risolto anche il nodo problematico riguardante le modalita’ di realizzazione in fase esecutiva dell’adeguamento del trattamento al diverso parametro di commisurazione della sanzione.
3.3.1.1. A tal proposito, si e’ negata validita’ al criterio oggettivo di tipo matematico-proporzionale di trasposizione automatica della pena gia’ quantificata in sede di cognizione nell’ambito della diversa previsione edittale (Sez. 1, n. 51844 del 25/11/2014, Riva, Rv. 261331; Sez. 1, n. 52980 del 18/11/2014, Cassia, non massimata): si tratta in effetti di indirizzo del tutto minoritario e sconfessato sia dalle Sezioni Unite che dalle successive pronunce delle sezioni semplici, pronunce che, seppur riferite a fattispecie concrete attinenti a droghe leggere, mantengono inalterata validita’ anche per le situazioni come quella presente, in cui la sanzione e’ stata individuata confermando la pena base che era stata stabilita in forza di una soglia punitiva minima oggi non piu’ in vigore (Sez. 1, n. 49935 del 28/10/2015, P.M. in proc. Martoccia, Rv. 265697; Sez. 1, n. 5199 del 24/:11/2015, dep. 2016, P.M. in proc. Vitali, Rv. 266137 in motivazione; Sez. 2, n. 29431 dell’8/5/2018, Puglisi, Rv. 273809).
3.3.2. Con la sentenza n. 37107 del 26/2/2015, Marcon, Rv. 264858, le Sezioni Unite hanno ribadito l’inutilizzabilita’ del criterio proporzionale o aritmetico, confermando la possibilita’ per il giudice dell’esecuzione di apprezzare in via discrezionale la congruita’ della pena, alla stregua dei parametri di cui agli articoli 132 e 133 c.p., onde verificarne la funzionalita’ alla rieducazione del soggetto che vi debba essere sottoposto ai sensi dell’articolo 27 Cost..
In quella decisione si e’, testualmente, affermato: “deve escludersi che la rideterminazione della pena da parte del giudice dell’esecuzione possa avvenire in base al criterio matematico-proporzionale, realizzando una sorta di automatismo nell’individuazione della sanzione nel tentativo di replicare le medesime scelte operate nell’originario accordo intervenuto tra le parti. Il giudice dovra’ invece procedere alla rideterminazione della pena utilizzando i criteri di cui agli articoli 132 e 133 c.p., secondo i canoni dell’adeguatezza e della proporzionalita’ che tengano conto della nuova perimetrazione edittale…. se e’ vero che devono essere scartati criteri ispirati a irragionevoli automatismi, e che il giudice non e’ vincolato a rideterminare la pena partendo dal nuovo minimo edittale (due anni di reclusione ed Euro 5.164) nei casi in cui la pena patteggiata originariamente partiva dal minimo edittale previsto dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, come modificato dalla L. n. 49 del 2006 (sei anni ed Euro 26.000), allo stesso modo deve escludersi che per lo stesso fatto, inquadrato nei nuovi limiti edittali scaturiti dalla dichiarazione di incostituzionalita’, il giudice possa operare la rideterminazione partendo dalla stessa pena-base individuata in origine, troppo distanti essendo gli orizzonti delle comminatorie edittali previste dell’articolo 73 cit. prima e dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, non potendosi considerare di massima gravita’ lo stesso fatto, per il quale, in precedenza, era stata applicata la pena base minima, se non a costo di realizzare una vera e propria elusione della modifica della pena illegale, che verrebbe di fatto confermata. La sensibile differenza delle cornici edittali impone risposte sanzionatorie differenti ed individualizzate”.
3.4. Ebbene, ad avviso del Collegio, non si rinvengono argomenti per approdare ad esiti differenti quando l’operazione di “riqualificazione sanzionatoria” debba essere compiuta per fatti riguardanti sostanze stupefacenti di tipo “pesante” a seguito della declaratoria di illegittimita’ costituzionale del Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, comma 1, contenuta nella sentenza n. 40/2019, quanto al solo limite minimo previsto per la reclusione.
3.4.1. Invero, l’esclusione da parte delle Sezioni Unite del ricorso a criteri automatici di quantificazione del trattamento punitivo in fase esecutiva non e’ stata giustificata solo in dipendenza della riconosciuta illegittimita’ costituzionale dell’intero paradigma normativo (comprensivo sia del limite minimo, che di quello massimo), ma in ragione della necessita’ di raggiungere soluzioni differenziate ed aderenti al caso specifico e di evitare che permanga in esecuzione un trattamento illegale.
3.4.1.1. Tale esigenza non viene meno solo perche’ la declaratoria d’incostituzionalita’ ha colpito la soglia punitiva minima di otto anni di reclusione, sostituita con quella di sei anni.
Anche con riferimento a tale parametro, se, come affermato dalle richiamate pronunce, i limiti edittali previsti in via generale ed astratta esprimono la valutazione di disvalore del fatto incriminato compiuta dal legislatore nell’esercizio della sua discrezionalita’, la pena che sia stata stabilita dal giudice in concreto in riferimento a quegli estremi costituisce “misura” del giudizio di responsabilita’ per un determinato fatto illecito, sicche’, se la previsione che costituisce il termine di riferimento viene eliminata perche’ incostituzionale, anche la pena gia’ inflitta sulla scorta di tale elemento normativo deve essere riconsiderata per assicurare il rispetto del principio di proporzionalita’, ossia della necessaria correlazione tra risposta punitiva e condotta offensiva come delineata dall’ordinamento.
Il mantenimento della medesima sanzione finisce, al contrario, per rivelare una sproporzione per eccesso rispetto al giudizio di gravita’ espresso dal legislatore, compromettendo l’assolvimento della sua funzione rieducativa.
La conclusione raggiunta, secondo cui “deve escludersi che possa essere conservata, in quanto legittima, sotto il profilo del principio costituzionale di proporzione tra offesa e pena, la pena determinata in relazione ad una cornice edittale prevista da una norma dichiarata incostituzionale e, quindi, inesistente sin dalla sua origine” (Sez. U., Jazouli, citata), va, quindi, confermata e ribadita.
3.5. Da tanto discende che il giudice dell’esecuzione non puo’ esaurire il proprio compito delibativo mediante il giudizio confermativo della pena gia’ inflitta, perche’ rientrante nell’ambito sia della forbice punitiva della norma precedente, sia di quella attualmente vigente, ma deve rinnovare la valutazione sanzionatoria in concreto con una necessaria riduzione della pena stessa, anche se non in misura predeterminata o assoluta, ma stabilita in via discrezionale in base alle caratteristiche del caso, da giustificare con congrua motivazione.
4. Nel caso di specie, l’operazione delibativa compiuta dal giudice dell’esecuzione per negare la richiesta nuova quantificazione della pena e’, in primo luogo, viziata, come dedotto dal ricorrente, da un sostanziale travisamento della motivazione del giudice della cognizione.
Ed invero, quest’ultimo, nel calcolo della pena, era partito dal minimo edittale allora vigente (otto anni di reclusione), sicche’ appare del tutto incongruo affermare, come fa il G.U.P. ambrosiano, che il suddetto giudice aveva “operato un calcolo della pena senza indicare la necessita’ di attenersi alla soglia minima edittale” e che “rientrava, pertanto, nella discrezionalita’ del giudicante partire da una pena base superiore ad anni sei di reclusione”, per la semplice ragione che la pena base non era di sei anni, ma, per l’appunto, di otto, e da questa egli era partito.
In secondo luogo, inadeguato per genericita’ e’ il riferimento alla oggettiva gravita’ del fatto, che, fra l’altro, mal si concilia, sul piano della coerenza logica, con la intervenuta concessione – in sede di cognizione – delle circostanze attenuanti generiche con carattere di prevalenza sulla contestata aggravante.
In ogni caso, cio’ che rende in assoluto deficitaria la motivazione del provvedimento de quo, anche a prescindere dalle incongruenze rilevate” e’ l’omessa considerazione degli effetti scaturiti dalla sentenza n. 40/2019 della Corte costituzionale in termini di mutamento del parametro legale di valutazione, cio’ che avrebbe reso necessaria, secondo quanto gia’ esposto, la rinnovazione del giudizio di adeguatezza e proporzione tra il fatto in tutte le sue componenti e la punizione edittale in ossequio ai criteri dettati dagli articoli 132 e 133 c.p..
5. In continuita’ con l’orientamento gia’ espresso da questa Corte in numerose pronunce (fra molte: Sez. 1, n. 3281 del 12/11/2019, dep. 27/1/2020, El Khairat, Rv. 278173-01; Sez. 1, n. 3280 del 12/11/2019, dep. 27/1/2020, Porcellini, Rv. 277857-01; Sez. 1, n. 2036 dell’11/12/2019, dep. 21/1/2020, Selishta, Rv. 278198-01; Sez. 1, n. 51959 del 30/10/2019, Haziraj, Rv. 277735), deve, pertanto, ribadirsi, il principio secondo il quale, a fronte del mutato paradigma sanzionatorio nell’incriminazione (da otto anni a sei anni di reclusione) derivante dalla citata pronuncia di incostituzionalita’ parziale del Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, il giudice dell’esecuzione, nella ponderazione della lesivita’ della condotta, deve procedere a una riduzione “necessaria” della pena, tenendo presente che la modifica operata attraverso un intervento sul minimo edittale non permette di giudicare “congrua” una sanzione che era stata ritenuta tale quando la soglia della previsione punitiva per quel fatto era, nel minimo, decisamente piu’ alta (otto anni di reclusione).
6. Alla luce di quanto premesso, va disposto l’annullamento dell’ordinanza impugnata con rinvio al G.U.P. del Tribunale per i Minorenni di Milano, costituito in forma collegiale come previsto dall’ordinamento giudiziario e in funzione di giudice dell’esecuzione, per nuovo esame da condursi alla stregua dei principi enunciati.
In caso di diffusione del presente provvedimento, vanno omesse omettere le generalita’ e gli altri dati identificativi, a norma del Decreto Legislativo n. 196 del 2003, articolo 52, in quanto disposto d’ufficio e/o imposto dalla legge.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al giudice dell’esecuzione del Tribunale per i minorenni di Milano.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalita’ e gli altri dati identificativi, a norma del Decreto Legislativo n. 196 del 2003, articolo 52, in quanto imposto dalla legge.
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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