Corte di Cassazione, sezione terza civile, Ordinanza 20 ottobre 2020, n. 22860.
La massima estrapolata:
In tema di locazione, tra le obbligazioni del conduttore, ai sensi dell’articolo 1587 del codice civile, vi è anche quella di servirsi dell’immobile con la «diligenza del buon padre di famiglia». La violazione di tale obbligazione, richiamata altresì nel contratto, espressa in continui rumori molesti ai danni del vicinato e del condominio, può provocare la risoluzione del contratto d’affitto e lo sfratto dell’inquilino molesto.
Ordinanza 20 ottobre 2020, n. 22860
Data udienza 30 giugno 2020
Tag/parola chiave: Locazioni – Proprietario dell’immobile – Affittuario che molesta i vicini – Esclusione dall’immobile – Dovere di gestire la cosa come un buon padre di famiglia – Contratto – Previsione
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ARMANO Uliana – Presidente
Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere
Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere
Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere
Dott. PORRECA Paolo – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 23717-2017 proposto da:
(OMISSIS), (OMISSIS);
– ricorrenti –
contro
ARTE DI GENOVA, elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta difende;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 899/2017 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 12/07/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 30/06/2020 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI.
RILEVATO
che:
Il Tribunale di Genova, con sentenza n. 3456/2015, dichiarava risolto un contratto di locazione abitativa sussistente tra (OMISSIS) e A.R.T.E. (gia’ I.A.c.p.) di Genova per inadempimento della conduttrice (OMISSIS), condannando quest’ultima a rilasciare l’alloggio: riteneva invalida la clausola risolutiva espressa di cui all’articolo 22 del contratto – perche’ prevedente in modo generico la risoluzione di diritto per ogni violazione contrattuale – ma comunque sussistente l’inadempimento, rilevante ai fini della risoluzione, per violazione dell’articolo 2 del contratto, vietante al conduttore di “compiere atti e tenere comportamenti che possano recare molestia agli altri abitanti dello stabile”, nonche’ dell’articolo 1587 c.c., per cui il conduttore deve osservare la diligenza del buon padre di famiglia nel servirsi della cosa. L’inadempimento sarebbe stato consistente nell’avere la conduttrice molestato i vicini di casa, come risultante da dichiarazioni della vicina (OMISSIS), del di lei marito (OMISSIS), della vicina (OMISSIS) e del vicino (OMISSIS), che avrebbero riferito di insulti della conduttrice alla (OMISSIS) e di inbrattamenti con vernice bianca della porta di quest’ultima, nonche’ dell’affissione alla porta della (OMISSIS) di cartelli con ingiurie ai vicini.
La (OMISSIS) proponeva appello, negando i presupposti della risoluzione, non essendo attendibili le dichiarazioni dei testi, che sarebbero stati animati da rancore nei suoi confronti, e comunque le loro dichiarazioni riguardando un unico episodio, non essendo avvenuti altri episodi di molestie. Controparte resisteva.
La Corte d’appello di Genova, con sentenza del 12 luglio 2017, rigettava il gravame.
La (OMISSIS) ha proposto ricorso, articolato in sei motivi, da cui A.R.T.E. si e’ difesa con controricorso, illustrato anche con memoria.
CONSIDERATO
che:
1. Il primo motivo denuncia, ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione ed errata applicazione dell’articolo 1587 c.c.
Riguardo tale norma la giurisprudenza dapprima avrebbe individuato l’abuso del godimento del bene locato solo qualora si fossero modificati lo stato di fatto e la destinazione d’uso dell’immobile e nella misura in cui dette modifiche comportassero un danno economico al locatore, ovvero qualora si metteva in dubbio la conservazione del bene locato, da restituire nelle identiche condizioni in cui era stato ricevuto. Successivamente avrebbe esteso l’articolo 1587 c.c. ai casi in cui, anche in assenza di modificazione di fatto dell’immobile o cambio della destinazione d’uso, l’uso possa comunque pregiudicare il valore dell’immobile stesso.
Il giudice d’appello invoca Cass. 6751/1987, citata anche dal primo giudice, sui casi eccedenti la normale tollerabilita’, sentenza che “nulla dice a proposito della dimostrazione dell’incidenza negativa di tali fatti sul valore locativo della cosa”, introducendo invece un altro criterio: il comportamento del conduttore che molesta i vicini sarebbe inadempimento contrattuale, per abuso della cosa locata (articolo 1587 c.c.) nei confronti del locatore, “il quale dovrebbe rispondere verso gli altri inquilini come di fatto proprio, se tollerasse tali molestie”. Quindi secondo la giurisprudenza di legittimita’ il contratto puo’ essere risolto non solo se vi e’ diminuzione del valore del bene locato, ma anche quando ipoteticamente il locatore potrebbe diventare responsabile nei confronti dei vicini per le molestie del conduttore. Tale giurisprudenza “dovrebbe condurre a ritenere che non e’ necessaria la prova del danno ma e’ sufficiente che si possa ipotizzare che il locatore sia chiamato a risponderne” se non si attiva a chiedere la risoluzione del contratto e a far cessare le molestie.
Questa tesi sarebbe contraddittoria rispetto a quella, “gia’ estensivamente interpretativa”, dell’ulteriore giurisprudenza per cui il danno deve essere accertato e non potenziale, e deve investire il bene locato, non il locatore. Quindi la sentenza d’appello si fonderebbe su una sentenza di legittimita’ “di cui si contesta l’applicabilita’ in quanto interpretativa della norma in misura tale da comportare una riformulazione non ammessa”.
Si osserva inoltre che A.R.T.E. aveva chiesto al Tribunale di provare dodici circostanze, e si trascrive quindi il capitolato e quel che ne valuto’ il giudice istruttore con ordinanza del 6 giugno 2014, per giungere a osservare che fu ammesso soltanto un capitolo per un solo fatto avvenuto nell'(OMISSIS), gli altri capitoli essendo ritenuti inammissibili perche’ relativi a circostanze irrilevanti o gia’ documentalmente provate o perche’ genericamente formulati.
Il capitolo ammesso riguarda l’offesa che sarebbe stata rivolta alla (OMISSIS), l’imbrattamento della porta di quest’ultima e l’affisso di scritte ingiuriose non si sa verso chi sulla porta della (OMISSIS). Non vi sarebbe quindi violazione dell’articolo 1587 c.c., non sussistendo un fatto che realizza un uso diverso del bene immobile o che pregiudica il valore locativo, questioni che nessuno dei giudici di merito si sarebbe comunque poste. Nei precedenti di legittimita’, si trattava di molestia a tutti i condomini; nel caso in esame invece si tratterebbe di una “vicenda privata” con una sola vicina, per cui non sarebbe configurabile l’abuso della cosa locata.
Si richiama altresi’ la condanna penale subita dalla (OMISSIS) per affermare che il locatore mai sarebbe stato responsabile degli atti addebitati alla condannata, essendo stata questa condannata dal giudice penale anche a risarcire i danni ai vicini (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), con liquidazione in sede civile. E della valutazione di tale profilo “non c’e’ traccia” nelle sentenze di merito.
2. Il secondo motivo denuncia, ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione a proposito dell’applicazione degli articoli 1453 e 1455 c.c.
I giudici di merito avrebbero disatteso le argomentazioni del locatore a favore della risoluzione del contratto ex articolo 1456 c.c.: il Tribunale aveva ritenuto l’articolo 22 del contratto una clausola generica, e il contratto risolto ai sensi dell’articolo 1587 c.c. Il Tribunale, e con esso il giudice d’appello, avrebbero dovuto tenere conto del principio di cui all’articolo 1455 c.c.: non vi e’ risoluzione se l’inadempimento e’ di scarsa importanza. A.R.T.E. non si sarebbe posto il problema della prova dell’importanza dell’inadempimento, perche’ avrebbe ritenuto risolvibile il contratto ipso jure ex articolo 1456 c.c.
La Corte d’appello osserva che il giudice di prime cure ha ritenuto l’inadempimento “rilevante per la risoluzione”; invece la sentenza di primo grado nulla avrebbe detto in ordine alla rilevanza dell’inadempimento, pur dovendo valutare cio’ anche d’ufficio. E se giudice avesse valutato, “non avrebbe non potuto rilevare l’enorme sproporzione tra le conseguenze dannose che la risoluzione comporta per la (OMISSIS) ed il rischio solo teorico, in capo al locatore, di rispondere “come per fatto proprio”, di danni nei confronti di un singolo o di piu’ condomini”.
3. Il terzo motivo denuncia, ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’articolo 345 c.p.c., comma 3.
La Corte d’appello ha affermato che “non vi e’ ragione di disattendere le dichiarazioni rese dai testi” nel giudizio di primo grado; al contempo pero’ “si traggono elementi di prova da cio’ che emerge dalla sentenza penale di condanna” (qui la censura riporta i passi motivazionali dedicati dal giudice d’appello alla sentenza di condanna penale). Alla sentenza penale, osserva ancora la ricorrente, aveva fatto riferimento controparte nella comparsa di costituzione d’appello (qui pure viene trascritto il relativo passo della suddetta comparsa).
Si obietta che la sentenza penale non sarebbe mai stata richiamata nella sentenza di primo grado, e “mai introdotta nel giudizio civile”. Si riconosce che la sentenza penale fu prodotta all’udienza del 26 novembre 2015, udienza “che il giudice di primo grado, dopo aver concluso l’istruttoria, aveva fissato per la discussione orale ex articolo 281 sexies c.p.c.”; il difensore della attuale ricorrente si era opposto alla produzione in quanto trattavasi di sentenza appellata. Il Tribunale comunque avrebbe deciso senza nulla dire sull’ammissibilita’ della sentenza prodotta e neppure sulla sentenza stessa; pertanto “il documento prodotto da Arte non e’ entrato nel processo di primo grado”, onde l’appellata avrebbe dovuto incidentalmente impugnare la sentenza del Tribunale per omessa pronuncia sull’ammissibilita’ della prova, e la sentenza d’appello avrebbe dovuto fondarsi soltanto sulla istruttoria svolta nel primo grado.
4. Il quarto motivo denuncia, ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione ed errata interpretazione dell’articolo 654 c.p.p.
Richiamando il contenuto della sentenza penale, che non sarebbe mai stata introdotta nel processo come prova, la corte territoriale “ha riconosciuto efficacia di giudicato in sede civile ad una sentenza penale non irrevocabile” perche’ appellata, come avrebbe dichiarato il difensore dell’attuale ricorrente all’udienza di primo grado del 26 novembre 2015. Pertanto “cio’ che nella sentenza penale viene dato per provato non puo’ essere tout court trasposto nel giudizio civile tanto da farne parte fondante della motivazione”.
5. Il quinto motivo denuncia, ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata.
Secondo il giudice d’appello non vi sarebbe ragione per disattendere le testimonianze raccolte in primo grado. Tali testimonianze effettivamente confermano un episodio di insulti rivolti dall’attuale ricorrente alla vicina (OMISSIS); sarebbe pero’ falso che le dichiarazioni dei testimoni abbiano provato l’imbrattamento della porta della (OMISSIS) e l’affisso da parte della (OMISSIS) di cartelli ingiuriosi sulla propria porta. Si riportano passi delle testimonianze (testi (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS); si cita poi il teste (OMISSIS)) per negare che siano interpretabili come li ha intesi la corte territoriale: si sarebbe dovuto quindi ritenere provato soltanto un episodio di insulti verso la (OMISSIS), onde non si sarebbero stati i presupposti per la risoluzione ai sensi dell’articolo 1587 c.c. o per violazione dell’articolo 2 del contratto.
Si argomenta inoltre nel senso che le prove potrebbero sussistere soltanto se si fosse potuto attingere all’esito penale: “Solo qualificandoli come provato in sede penale, il giudice di appello poteva scrivere che “i fatti come sopra provati sono sufficienti per far ritenere accertate le molestie della (OMISSIS) agli altri abitanti dello stabile, e la loro permanenza nel tempo, tale da creare la difficile situazione di convivenza condominiale lamentata da parte ricorrente””.
La corte territoriale verrebbe a sostenere l’esistenza di fatti “permanenti nel tempo” solo attraverso “fatti nuovi e diversi” da quelli proposti nel giudizio civile: dall’istruttoria invece – si ribadisce ancora – sarebbe emerso soltanto un unico episodio, quello nei confronti della (OMISSIS).
Il giudice d’appello invoca anche le testimonianze di (OMISSIS) e (OMISSIS), parti civili in sede penale, che avrebbero riferito un unico episodio, avvenuto il (OMISSIS): “utilizzando” le sentenze penali il giudice d’appello introdurrebbe fatti che nel giudizio civile di primo grado non sarebbero stati addotti e su cui quindi non si sarebbe svolta istruttoria.
6. Il sesto motivo denuncia, ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata.
Questo motivo si articola in tre censure, illustrate rispettivamente sub A), B) e C).
La censura sub A) adduce che il giudice di prime cure, cui il giudice di secondo grado avrebbe aderito, avrebbe ritenuto che i testi avessero “univocamente riferito le molestie” dell’attuale ricorrente ai vicini abitanti nello stesso stabile. Si cita la testimonianza di (OMISSIS), che il Tribunale avrebbe ritenuto insufficiente “a confermare la tesi delle provocazioni che avrebbero spinto la (OMISSIS) a commettere i fatti contestatile”. Si sostiene che, in realta’, questa testimonianza “supporta non la tesi della provocazione ma la tesi dell’innocenza della (OMISSIS)”, onde la motivazione sarebbe omessa, insufficiente o contraddittoria.
La censura sub B) adduce che in primo grado la controparte avrebbe chiesto di provare che la (OMISSIS) avrebbe subito in tre occasioni un trattamento sanitario obbligatorio, e il Tribunale avrebbe ritenuto i tre relativi capitoli inammissibili perche’ vertenti su circostanze irrilevanti. Pero’ tali circostanze sarebbero tornate utili nella sentenza di primo grado per affermare che “la stessa (OMISSIS) riconosce, sia in comparsa di risposta, sia in una nota inviata all’ufficio legale di A.R.T.E. (doc. 12), di aver avuto nei loro confronti “reazioni, seppure talvolta incongrue ed inconsulte” e di essersi comportata con “aggressivita’” tanto da essere sottoposta, come e’ pacifico, nel corso del (OMISSIS), a tre trattamenti sanitari obbligatori”. Quindi cio’ che sarebbe stato irrilevante sarebbe divenuto fatto pacificamente accertato e supporto probatorio di una “mai dimostrata relazione (causa/effetto) tra episodi di aggressivita’ e TSO”. Si confermerebbe cosi’ la tesi del locatore “secondo il quale e’ la presunta malattia mentale il vero motivo” dell’espulsione della attuale ricorrente, che la renderebbe urgente (qui si richiama il ricorso ex articolo 447 bis c.p.c. laddove manifesta di temere “che la situazione possa degenerare”). Pertanto “la presunta malattia mentale” della (OMISSIS) – “che dovrebbe essere ragione di tutela, aggiungendosi alla grave invalidita’ da ipovedente” – sarebbe divenuta motivo di discriminazione, e l’articolo 1587 c.c. sarebbe stato utilizzato come strumento per preventiva tutela di un condominio che controparte avrebbe ritenuto in evidente pericolo.
La censura sub C), infine, rileva che nella comparsa di costituzione di primo grado, l’attuale ricorrente “aveva sollecitato l’acquisizione o l’ispezione degli audiovisivi” da lei allegati a una denuncia sporta ai carabinieri l’8 novembre 2013, richiesta ripetuta in appello e in ordine alla quale la corte territoriale sarebbe incorsa in omessa pronuncia.
7. Il primo motivo presenta una sostanza fattuale in ordine alla valutazione della sussistenza della violazione dell’articolo 1587 c.c. nella condotta della (OMISSIS), e argomenta artificiosamente su una frase tratta da Cass. 6751/1997 (quella relativa alla responsabilita’ del locatore nei confronti dei terzi danneggiati dal conduttore): il giudice d’appello ha citato tale pronuncia e altri arresti soltanto per affermare che, secondo la giurisprudenza di legittimita’, le molestie ai vicini costituiscono abuso di bene locato in violazione quindi dell’articolo 1587 c.c., e cio’ e’ indiscutibile. Per di piu’ il giudice d’appello ha anche confermato l’inadempimento (gia’ proclamato dal Tribunale) del contratto in rapporto al suo articolo 2, prevedente divieto di molestie agli altri abitanti dello stabile. Il rilievo della condotta della (OMISSIS) ai fini dell’inadempimento dell’obbligo di cui all’articolo 1587 c.c., n. 1 e’ oggetto di valutazione di merito; e ad abundantiam ben si puo’ riconoscere che la condotta inadempiente ai fini della risoluzione puo’ essere integrata anche da un solo episodio, per la gravita’ dello stesso, che, si ripete, deve essere valutata dal giudice di merito.
Il motivo quindi risulta inammissibile, perche’ in realta’, pur tentando di schermarsi con peraltro infondati – rilievi di diritto, attua una revisione del compendio probatorio partendo dalla ordinanza istruttoria di primo grado.
8. Il secondo motivo, ictu oculi, costituisce un tentativo di replica, da un apparentemente diverso punto di vista, del precedente motivo. Dalla motivazione della sentenza d’appello emerge che la corte territoriale ha valutato la rilevanza della condotta della (OMISSIS); anche questa censura e’ in realta’ fattuale, in quanto nega la sussistenza di tale prova.
9. Nel terzo motivo si lamenta una omessa pronuncia del primo giudice sull’acquisizione della sentenza penale – la sentenza era stata pronunciata dal Tribunale penale di Genova il 10 giugno 2015 e prodotta dall’attuale controricorrente all’udienza del 26 novembre 2015 nel giudizio civile, come emerge nel passo trascritto dalla ricorrente della comparsa di costituzione d’appello di A.R.T.E. -. Secondo la ricorrente, per denunciare tale omessa pronuncia avrebbe dovuto proporre appello incidentale controparte.
In effetti, avrebbe dovuto essere la (OMISSIS) a sollevare, se sussisteva, la questione della omissione della pronuncia, in quanto avente per oggetto la sua eccezione di inammissibilita’ della produzione della sentenza penale nel giudizio civile, ed avendo soltanto la (OMISSIS) interesse come conseguenza dell’asserito vizio di rito, ovvero interesse a che la sentenza penale che l’aveva condannata fosse introdotta, e tenuta in conto quindi, nel giudizio civile.
Comunque a tale sentenza penale non e’ da attribuirsi un effettivo rilievo, perche’ l’accertamento del giudice civile si fonda, ictu oculi in misura sufficiente, anche sulle testimonianze raccolte appunto in sede civile.
Il motivo pertanto merita rigetto.
10. Per quanto appena rilevato per il terzo, non vi e’ interesse al quarto motivo; d’altronde, il giudice d’appello non ha attribuito alcun valore di giudicato alla sentenza penale, ma soltanto se ne e’ avvalsa alla luce del principio del libero convincimento, e comunque per strutturare un argomento ad abundantiam, visto il contenuto delle testimonianze rese nel giudizio civile.
11. Il quinto motivo costituisce evidentemente una inammissibile valutazione alternativa delle prove ivi citate. Viene qui ripreso anche l’argomento, gia’ confutato a proposito dei due precedenti motivi, del richiamo da parte del giudice d’appello alla sentenza penale.
12. Nel sesto motivo, le prime due censure – A e B – costituiscono inammissibili valutazioni alternative del merito; la censura sub C riguarda invece una pretesa omessa pronuncia, ma sine dubio si comprende logicamente dal complesso motivazionale della sentenza impugnata che il giudice d’appello ha ritenuto irrilevante tale acquisizione, per cui la censura e’ infondata.
13. In conclusione il ricorso va rigettato, con conseguente condanna della ricorrente alla rifusione delle spese del grado – liquidate come da dispositivo – alla controricorrente.
Seguendo l’insegnamento di S.U. 20 febbraio 2020 n. 4315 si da’ atto, ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso, condannando la ricorrente a rifondere alla controricorrente le spese processuali, liquidate in complessivi Euro 2400, oltre a Euro 200 per gli esborsi e al 15 % per spese generali, nonche’ agli accessori di legge.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis se dovuto.
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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