In tema di imposte sui redditi, ai fini del rimborso del relativo importo, il termine di decadenza previsto dall’art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973

Corte di Cassazione, sezione tributaria, Ordinanza 7 settembre 2018, n. 21788.

La massima estrapolata:

In tema di imposte sui redditi, qualora il contribuente abbia evidenziato nella dichiarazione un credito d’imposta, non trova applicazione, ai fini del rimborso del relativo importo, il termine di decadenza previsto dall’art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973, bensì l’ordinario termine di prescrizione decennale, non occorrendo la presentazione di un’apposita istanza, in quanto l’Amministrazione, resa edotta con la dichiarazione dei conteggi effettuati dal contribuente, è posta in condizione di conoscere la pretesa creditoria.

Ordinanza 7 settembre 2018, n. 21788

Data udienza 18 luglio 2017

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente

Dott. GRECO Antonio – rel. Consigliere

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere

Dott. CARBONE Enrico – Consigliere

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA
sul ricorso 22313-2010 proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS) SPA, elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS);
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 104/2009 della COMM.TRIB.REG.SEZ.DIST. di SASSARI, depositata il 02/10/2009;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/07/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIO GRECO;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE AUGUSTINIS UMBERTO, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.

FATTI DI CAUSA

L’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione, con tre motivi, nei confronti della sentenza della Commissione tributaria regionale della Sardegna che ne ha rigettato l’appello nel giudizio promosso dal (OMISSIS) spa con l’impugnazione del silenzio rifiuto serbato dall’ufficio sulle istanze di rimborso dei maggiori versamenti effettuati a titolo di ritenute su conti correnti e depositi intestati a soggetti non residenti.
Tali somme in eccesso erano state versate nel corso dei periodi d’imposta 1993, 1994 e 1995, ma in sede di dichiarazione Mod. 770/bis la societa’ contribuente aveva calcolato l’effettivo ammontare di quanto corrisposto erroneamente, e contestualmente aveva esposto l’effettivo ammontare delle ritenute operate e versate, ed in calce alla stessa dichiarazione aveva annotato la richiesta di rimborso delle somme indebitamente versate.
Il successivo 29 aprile 1999 aveva presentato formale istanza di rimborso, rimasta inevasa e ripetutamente sollecitata.
Il giudice d’appello ha rigettato l’impugnazione dell’ufficio, ritenendo di dover condividere la statuizione della Commissione provinciale, che aveva considerato inaccettabile l’assunto dell’ufficio che esclude dal rimborso Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, ex articolo 36 bis le dichiarazioni proposte dai sostituti d’imposta, letteralmente previsto dalla norma (“… sulla scorta dei dati e degli elementi desumibili dalle dichiarazioni stesse e dai relativi allegati”). “Il ricorso al Decreto del Presidente della Repubblica n. 602 del 1973, articolo 38, cioe’ la presentazione dell’istanza di rimborso, si ha quando il credito non emerge dalla dichiarazione. Ma nel caso di specie (in cui) risulta dalla dichiarazione ed in essa e’ stato chiesto il rimborso:
quando un contribuente evidenzia un credito (Cass. n. 11830/2002), egli ha fatto gia’ tutto quanto e’ necessario per ottenere il rimborso. Deve solo attendere che l’amministrazione eserciti il suo potere-dovere di controllo, al fine di confermare o meno l’esistenza del credito” (cosi’ la sentenza di primo grado).
La societa’ contribuente resiste con controricorso, il Procuratore generale ha depositato conclusioni scritte cui la contribuente ha replicato con memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Col primo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione del Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, articolo 36-bis, in combinato disposto con il Decreto del Presidente della Repubblica n. 602 del 1973, articoli 38 e 41, l’amministrazione ricorrente censura la sentenza per aver ritenuto “legittimo il rimborso richiesto dal sostituto d’imposta che operi un versamento diretto eccedente le ritenute dovute per erronea determinazione della base imponibile su cui doveva calcolarsi l’effettiva ritenuta alla fonte, mediante lo strumento della liquidazione Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, ex articolo 36 bis, laddove cio’ comporterebbe violazione delle norme in rubrica che, correttamente intese nel senso che il rimborso delle imposte versate in eccesso dal sostituto d’imposta rispetto alle ritenute dovute non puo’ operare d’ufficio mediante liquidazione della dichiarazione dei redditi, laddove l’errore materiale e di calcolo non sia evidente ed inequivocabile, derivando dalla mera lettura dei dati riportati in dichiarazione e non necessitanti ulteriore esame di documentazione, dovendosi, in tal caso, presentare idonea istanza di rimborso nei modi e termini di legge. (Cio’ nella specie) avrebbe dovuto indurre il giudice a ritenere tardiva la richiesta di rimborso della parte ricorrente presentata il 29 aprile 1999 su versamenti eseguiti durante gli anni 1993, 1994 e 1995 per erronea determinazione della base imponibile su cui poi calcolare la ritenuta effettivamente dovuta”.
Il primo motivo e’ in parte inammissibile ed in parte infondato.
E’ inammissibile – perche’ sembra non cogliere la ratio decidendi della pronuncia sul punto – nella parte in cui trascura di considerare che il legislatore ha costruito il giudizio tributario come giudizio impugnatorio, e nella specie la societa’ contribuente aveva impugnato il silenzio rifiuto formatosi sull’istanza di rimborso, presentata il 29 aprile 1999, dei tributi versati in eccedenza, in qualita’ di sostituto d’imposta, per gli anni 1993, 1994 e 1995. Il giudice d’appello, condividendo la pronuncia di primo grado, ha ritenuto tempestiva la domanda di rimborso, e l’ha accolta, sul rilievo che “nel caso di specie il credito emerge dalla dichiarazione e in essa e’ stato chiesto il rimborso”; ed ha in proposito osservato che “quando un contribuente evidenzia un credito (Cass. n. 11830 del 2002), egli ha fatto gia’ tutto quanto e’ necessario per ottenere il rimborso. Deve solo attendere che l’amministrazione eserciti il suo potere dovere di controllo, al fine di confermare o meno l’esistenza del credito”.
Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, “in tema di imposte sui redditi, qualora il contribuente abbia evidenziato nella dichiarazione un credito d’imposta, non trova applicazione, ai fini del rimborso del relativo importo, il termine di decadenza previsto dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 602 del 1973, articolo 38 ma l’ordinario termine di prescrizione decennale, non occorrendo la presentazione di un’apposita istanza, in quanto l’Amministrazione, resa edotta con la dichiarazione dei conteggi effettuati dal contribuente, e’ posta in condizione di conoscere la pretesa creditoria” (Cass. n. 6940 del 2006; sulla configurabilita’ della indicazione di un credito di imposta nella dichiarazione come istanza di rimborso, Cass. n. 21734 del 2014; Cass. n. 10690 del 2018).
E’ invece infondato, alla luce dei principi appena esposti, nella parte in cui si sofferma sulla asserita scarsa versatilita’ dello strumento per la liquidazione delle dichiarazioni costituito dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, articolo 36 bis, per affermare che il giudice avrebbe dovuto “ritenere tardiva la richiesta di rimborso della parte ricorrente presentata il 29 aprile 1999 su versamenti eseguiti durante gli anni 1993, 1994 e 1995 per erronea determinazione della base imponibile su cui poi calcolare la ritenuta effettivamente dovuta”.
Col secondo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione del Decreto Legislativo n. 546 del 1992, articolo 7 in combinato disposto con l’articolo 2697 c.c., assume che “ordinando al contribuente la produzione di documenti a sostegno della pretesa di rimborso per garantire l’esigenza dell’ufficio di disporre di documenti leggibili per le bisogne processuali ripetutamente richieste, la CTR avrebbe violato le norme in rubrica che, correttamente intese nel senso che in forza del principio dispositivo nel processo tributario e’ onere della parte che agisce provare i fatti posti a sostegno della pretesa giuridica, potendo l’autorita’ giudiziaria ordinare l’esibizione di documentazione, decisiva per la soluzione della controversia, altrimenti impossibilitata a produrre ovvero e nelle ipotesi in cui la produzione documentale sia particolarmente onerosa, avrebbe imposto al giudice di decidere la controversia sulla base dei documenti presentati dalla parte nel primo grado del giudizio, non potendo l’autorita’ giudiziaria integrare la prova documentale non assolta dalla parte mediante l’ordine di esibizione di documentazione, peraltro in suo possesso, gia’ prima dell’istaurarsi del giudizio”.
Il motivo e’ infondato, in quanto privo di specificita’, non individuando l’amministrazione i documenti la cui produzione e’ preclusa – dopo l’abrogazione del Decreto Legislativo n. 546 del 1992, articolo 7, comma 3 – alla luce del principio secondo cui il giudice non puo’ ordinare il deposito di documenti che sollevino la parte dall’onere della prova (cfr. Cass. n. 13152 del 2014, in motivazione).
Col terzo motivo, denunciando omessa motivazione su un punto decisivo della controversia l’amministrazione sostiene che “la CTR non avrebbe motivato la decisione impugnata con riferimento alla dedotta circostanza dell’ufficio nelle memorie illustrative della mancata prova del contribuente della sussistenza del diritto al rimborso, non avendo la parte depositato la documentazione contabile e fiscale attestante la determinazione dell’imponibile della relativa ritenuta, risultando invece dalle dichiarazioni dei redditi identita’ di versamenti e di ritenute operate. Dette circostanze se riscontrate, esaminate e valutate dal giudice di merito avrebbero indotto l’autorita’ giudiziaria ad accogliere il gravame dell’ufficio e ritenere non dovuto il rimborso per mancanza di prova”.
Il motivo e’ inammissibile.
Va ribadito infatti il consolidato principio secondo il quale “la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimita’ non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensi’ la sola facolta’ di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilita’ e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicita’ dei fatti ad esse sottesi, dando, cosi’, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge). Ne deriva, pertanto, che alla cassazione della sentenza, per vizi della motivazione, si puo’ giungere solo quando tale vizio emerga dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, che si rilevi incompleto, incoerente o illogico, e non gia’ quando il giudice del merito abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore ed un significato difformi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte” (Cass. n. 20322 del 2005).
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate in Euro 6.200 per compensi di avvocato oltre alle spese generali liquidate nella misura forfetaria del 15%.

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