Corte di Cassazione, sezione sesta penale, Sentenza 9 luglio 2019, n. 30164.
La massima estrapolata:
In tema di divieto di “reformatio in pejus” in appello, l’omessa specificazione dei singoli aumenti di pena disposti in primo grado in relazione a plurimi reati continuati, non consente di presumere che l’aumento sia stato operato in misura eguale per ciascuno di essi, sicchè ben può il giudice del gravame, dichiarato il proscioglimento per alcuni reati, rideterminare la pena applicando un aumento per la continuazione che non sia proporzionalmente ridotto, purchè la pena finale risulti inferiore rispetto a quella irrogata dal primo giudice.
Sentenza 9 luglio 2019, n. 30164
Data udienza 2 aprile 2019
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PETRUZZELLIS Anna – Presidente
Dott. TRONCI Andrea – Consigliere
Dott. CRISCUOLO Anna – Consigliere
Dott. ROSATI Martino – Consigliere
Dott. VIGNA Maria – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 31/10/2017 della CORTE APPELLO di NAPOLI;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. MARIA SABINA VIGNA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto procuratore generale Dr. LORI PERLA, che ha concluso chiedendo l’annullamento senza rinvio con riferimento alla quantificazione della pena.
dato atto dell’assenza del difensore.
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Napoli, in parziale riforma della sentenza emessa in data 8/11/2012 dal Tribunale di Torre Annunziata che condannava (OMISSIS) – in concorso con (OMISSIS), (OMISSIS), e (OMISSIS) – alla pena di anni due e mesi sei di reclusione per complessivi sei episodi di malversazione ai danni dello Stato, dichiarava non doversi procedere nei confronti di (OMISSIS) in ordine ai reati a lui ascritti commessi fino al (OMISSIS) perche’ estinti per intervenuta prescrizione; rideterminava la pena dell’imputato in ordine alle successive condotte in anni due e mesi due di reclusione.
La sentenza era confermata nel resto, in particolare in ordine alla corretta qualificazione della condotta come violazione dell’articolo 316 bis c.p., non accogliendosi sul punto l’appello della parte civile, Ministero delle Finanze, che chiedeva la riqualificazione del reato in peculato.
Si contesta a (OMISSIS), in qualita’ di Presidente dell’Associazione Pro loco di (OMISSIS) di non avere destinato agli scopi istituzionali dell’Ente le somme accreditate dall’Ente Provinciale del Turismo di Napoli – pari a 7.000 Euro – e dal Ministero dell’Economia e delle Finanze – pari a 70.000 Euro – ma di averle distratte per un ammontare complessivo di Euro 73.000.
Alla luce della dichiarata prescrizione in relazione a quattro episodi di distrazione, le condotte per cui e’ intervenuta condanna riguardano la malversazione di una somma pari a 12.000,00 Euro (di cui 5.000 prelevati in contanti da (OMISSIS) dal c/c della Pro Loco e 7.000 negoziati dalla (OMISSIS) mediante versamento di un assegno emesso da (OMISSIS) sul conto corrente della Associazione e girato alla (OMISSIS) che lo versava sul suo conto personale).
2. Avverso la sentenza ha presentato ricorso per cassazione (OMISSIS) deducendo i seguenti motivi:
2.1. Violazione di legge per erronea determinazione della pena in violazione del divieto di “reformatio in peius”.
La pena non e’ stata diminuita in maniera corrispondente alla dichiarazione di estinzione dei reati. L’imputato e’ stato condannato in primo grado alla pena di anni due e mesi sei di reclusione in relazione a sei episodi di malversazione. Il Tribunale non indicava fra queste l’ipotesi piu’ grave, fissava la pena base per il reato piu’ grave – non individuato quindi specificatamente – in anni due di reclusione ed aumentava la pena di mesi sei per la continuazione con le restanti cinque ipotesi senza specificare la pena per ogni singolo episodio.
La Corte distrettuale confermava la pena base in anni due di reclusione individuando l’episodio piu’ grave in quello del (OMISSIS) e determinava l’aumento di pena per il residuo episodio in mesi due di reclusione.
Avendo il giudice di primo grado operato un aumento unico per tutti i cinque episodi contestati, in applicazione del principio del favor rei deve ritenersi che per ciascun reato in continuazione sia stato irrogato il medesimo aumento di pena. All’aumento finale di mesi 6 di reclusione si e’ pervenuti aggiungendo alla pena base giorni 36 per ciascuno dei cinque reati satelliti. Quindi la Corte di appello avrebbe dovuto determinare la pena da infliggere in anni due, mesi uno e giorni sei di reclusione.
2.2.Violazione di legge in relazione alla omessa condanna della parte civile Ministero dell’Economia e Finanza alle spese del procedimento.
L’appello proposto dal Pubblico ministero era stato dichiarato inammissibile, quindi la Corte avrebbe dovuto condannare la parte civile al pagamento delle spese del procedimento in virtu’ del principio della soccombenza.
2.3. Vizio di motivazione in ordine alla sussistenza del reato in quanto non era stata fornita la prova che i fondi concessi all’associazione erano stati utilizzati per scopi diversi, avuto riguardo anche alla circostanza che le erogazioni pubbliche erano senza obbligo di rendiconto, concesse quale “contributo sede” e senza termine di scadenza. In realta’ le operazioni bancarie in contestazione erano state poste in essere al solo fine di sottrarre le somme alle azioni esecutive dei creditori. I soldi dovevano servire per l’acquisto di una nuova sede sociale e il teste escusso in dibattimento aveva dichiarato di avere concordato con il ricorrente la vendita di un immobile in costruzione da destinare a sede dell’Associazione.
3. Il 16/03/19 e’ stata depositata una memoria del Ministero delle Finanze che sottolinea che non ricorrevano in alcun modo i presupposti di cui all’articolo 541 c.p.p., comma 2, per condannare la parte civile alla rifusione delle spese processuali.
Nella memoria si insiste per la riqualificazione del reato da malversazione a corruzione (rectius peculato).
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso e’ inammissibile per le ragioni di seguito indicate.
2. Il primo motivo e’ manifestamente infondato.
2.1. Deve osservarsi che l’orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimita’ in tema di divieto di “reformatio in peius” e’ nel senso che tale divieto investa anche i singoli elementi che compongono la pena complessiva e riguardi non solo il risultato finale di essa, ma tutti gli elementi del calcolo relativo, posto che la disposizione contenuta nell’articolo 597 c.p.p., comma 4, individua come elementi autonomi, pur nell’ambito della pena complessiva, sia gli aumenti o le diminuzioni apportati alla pena base per le circostanze, sia l’aumento conseguente al riconoscimento del vincolo della continuazione, con conseguente obbligo di diminuzione della pena complessiva, in caso di accoglimento dell’appello in ordine alle circostanze o al concorso di reati, anche se unificati per la continuazione, come espressamente previsto dall’articolo 597 c.p.p., comma 4 (v. Sez. U, n. 40910 del 27/09/2005, William Morales, Rv. 232066).
Deve segnalarsi anche il minoritario e meno restrittivo orientamento di questa Corte secondo il quale il divieto della “reformatio in peius” riguarderebbe il dispositivo della sentenza d’appello e non si riferirebbe anche alla motivazione, per cui il giudice di secondo grado, pur avendo un potere cognitivo limitato ai punti della decisione sottoposti al suo esame, non subirebbe analoghe limitazioni nel suo potere decisionale, estrinsecabile in un’autonoma valutazione del fatto e della sanzione ritenuta per esso adeguata, a condizione che da cio’ non derivi un trattamento penale in definitiva piu’ grave per l’imputato (v. Sez. 6, n. 12936 del 25/06/1999, Castiglioni, Rv. 216028; Sez. 6, n. 1122 del 10/12/1996, Fusco, Rv. 207508).
2.2. Rileva il Collegio che, anche aderendo al piu’ condivisibile orientamento espresso dalle S.U. Morales, non sia ravvisabile nel caso di specie la violazione del divieto della “reformatio in peius”. La Corte di appello, infatti, non solo non e’ partita da una pena base piu’ alta rispetto a quella determinata dal giudice di primo grado, ma ha anche effettuato un aumento per la continuazione sensibilmente inferiore rispetto a quello del primo giudice.
Il fatto poi che il Tribunale avesse applicato ex articolo 81 c.p. un unico aumento di mesi sei di reclusione in relazione a 5 reati non poteva in alcun modo vincolare la Corte distrettuale a scindere tale aumento in parti uguali in relazione al numero dei reati, cosi’ effettuando l’aumento in continuazione in misura non superiore a mesi 1 e giorni sei, come prospettato dalla difesa.
A fronte di un aumento indistinto di pena applicato ex articolo 81 c.p., comma 2, in primo grado in relazione a un certo numero di reati satelliti, la Corte territoriale, nell’accogliere l’appello dell’imputato in ordine alla prescrizione di alcuni dei reati unificati da detto vincolo, non viola il divieto della “reformatio in peius” purche’ la pena base sia fissata in misura non superiore rispetto a quella di primo grado, e l’aumento applicato per la continuazione sia comunque inferiore a quello complessivamente calcolato dal primo giudice.
3. Il secondo motivo e’ manifestamente infondato.
Occorre sottolineare che la violazione del principio della soccombenza, in ordine al regolamento delle spese da parte del giudice di merito, deve ravvisarsi soltanto nell’ipotesi in cui l’imputato sia totalmente vittorioso, nel senso che egli sia assolto con formula preclusiva dell’azione civile, mentre e’ legittima la condanna dell’imputato al pagamento delle spese sostenute dalla parte civile quando la responsabilita’ sia stata confermata, pur in presenza di un accoglimento dell’impugnazione sotto altri profili (vedi Sez. 5, n. 6419 del 19/11/2014 -dep. 13/02/2015-, Rv. 262685).
Quanto all’omessa condanna della parte civile al pagamento delle spese processuali nel grado di appello, deve rimarcarsi che l’imputato non ha interesse a dolersi dell’eventuale errore perche’ le spese processuali sono dovute allo Stato secondo il principio di soccombenza in relazione alla domanda, tanto che l’eventuale condanna della parte civile al pagamento di esse, nell’ipotesi di rigetto dell’impugnazione, non influisce sul distinto capo di sentenza che condanni l’imputato al pagamento delle spese processuali per il rigetto dell’impugnazione dal medesimo proposta.
4. Anche il terzo motivo di impugnazione e’ inammissibile in quanto sostanzialmente orientato a riprodurre un quadro di argomentazioni gia’ ampiamente vagliate e correttamente disattese dai Giudici di merito, ovvero a sollecitare una rivisitazione meramente fattuale delle risultanze processuali, in tal guisa richiedendo, sul presupposto di una valutazione alternativa delle fonti di prova, l’esercizio di uno scrutinio improponibile in questa Sede, a fronte della linearita’ e della logica conseguenzialita’ che caratterizzano la scansione delle sequenze motivazionali dell’impugnata decisione.
La Corte distrettuale ha, infatti, puntualmente motivato sulle ragioni per cui il denaro di cui all’imputazione doveva ritenersi essere stato destinato ad altre finalita’ mettendo in evidenza che risultava acclarato che il denaro transitato sul conto corrente della sorella dell’imputato era stato utilizzato per coprire alcuni assegni e che l’intenzione di acquistare un nuovo immobile per cambiare sede sociale era gia’ naufragata prima ancora della commissione dei reati contestati.
Il ricorso, dunque, non e’ volto a rilevare mancanze argomentative ed illogicita’ ictu oculi percepibili, ne’ a sviluppare un adeguato confronto critico-argomentativo rispetto all’ordito motivazionale, bensi’ ad ottenere un non consentito sindacato su scelte valutative compiutamente giustificate dal Giudice di appello, che ha linearmente ricostruito il compendio storico-fattuale posto a fondamento del tema d’accusa e gli elementi costitutivi della correlativa affermazione di responsabilita’ per il reato di malversazione.
5. Alla inammissibilita’ del ricorso consegue la condanna al pagamento delle spese processuali.
In ragione delle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che si ravvisano ragioni di colpa nella determinazione della causa di inammissibilita’, deve, altresi’, disporsi che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Il ricorrente deve, infine, essere condannato alla rifusione delle spese di difesa e rappresentanza della parte civile Ministero dell’Economia e Finanza in questa fase, che si liquidano in Euro 1.000 complessive, oltre a spese generali nella misura del 15%, IVA e CPA.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende, nonche’ alla rifusione delle spese di difesa e rappresentanza della parte civile Ministero dell’Economia e Finanza in questa fase, che si liquidano in Euro 1.000 complessive, oltre a spese generali nella misura del 15%, IVA e CPA.
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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