Corte di Cassazione, sezione seconda civile, Sentenza 15 ottobre 2018, n.25668.
La massima estrapolata:
In tema di contratto di opera professionale, la previsione di un termine di durata del rapporto non esclude di per sé la facoltà di recesso “ad nutum” previsto, a favore del cliente, dal primo comma dell’art. 2237 c.c.. Solo l’esistenza di un concreto contenuto del regolamento negoziale, che dimostri che le parti abbiano inteso, attraverso la previsione del termine, escludere la possibilità di scioglimento del contratto prima della scadenza pattuita potrebbe giustificare un diverso esito.
SENTENZA 15 ottobre 2018, n.25668
Presidente Petitti
Relatore D’Ascola
Ragioni della decisione
Il primo motivo di ricorso, rubricato come ‘mandato all’Avvocato della Regione’ si duole del fatto che la Corte di appello abbia ritenuto che l’ente era legittimato a valersi dell’avvocatura regionale, sebbene fosse stata varata un’apposita legge regionale. Parte ricorrente nega che l’ente sia dipendente della regione e espone che gli avvocati pubblici dipendenti non possono occuparsi degli affari di altro ente e che la ‘leggina’ regionale 1/2004 avrebbe derogato a tale principio, che deriverebbe dalla normativa nazionale sull’esercizio della professione forense.
Il secondo motivo, intitolato ‘eccezione di incostituzionalità’ espone che nelle conclusioni (da intendere la precisazione delle conclusioni in appello) il ricorrente aveva eccepito l’incostituzionalità della legge regionale 1/2004 sotto i profili della riserva della materia alla legislazione statale e ai principi in materia di professione e di tutela della concorrenza, i quali porrebbero il ‘chiaro principio di ‘esclusività’ della competenza dell’avvocato pubblico dipendente’.
Le censure non possono essere accolte.
La sentenza impugnata ha rilevato che in ordine al mandato alle liti il ricorrente non aveva sollevato eccezione alcuna sul punto in prime cure, non essendovene traccia né in sentenza di primo grado, ‘né nei verbali, né è formulato specifico gravame in appello’.
Questo rilievo non solo non è stato contraddetto, ma risulta confermato in ricorso dalla narrativa di pag. 2 e 3, ove si legge che in appello solo ‘nelle memorie successive’ era stata ‘sollevata un’eccezione di nullità assoluta della difesa esercitata dall’Avvocato della regione’.
Né è stata confutata la rilevanza giuridica di cui il rilievo era portatore.
Ed invero, con riguardo al vizio processuale costituito dall’asserito difetto di procura in primo grado, il rilievo di tardività, ancorché la Corte di appello abbia comunque esaminato nel merito la questione della legittimità dell’opera difensiva svolta in base a legge regionale vigente, rende inammissibile la doglianza in sede di legittimità.
Il vizio attinente alla costituzione di parte convenuta in primo grado doveva essere fatto valere con tempestivo appello, poiché ai sensi dell’art. 161 c.p.c. i motivi di nullità delle sentenze soggette ad appello possono essere fatti valere soltanto con i mezzi di impugnazione. Tuttavia l’impugnazione sul punto non è stata proposta, come imponeva a pena di inammissibilità l’art. 345 c.p.c., con l’atto di appello, ma solo esposta in memorie successive e in conclusioni di appello.
La validità della costituzione della convenuta, questione cui il primo motivo di ricorso sembra riferirsi – ed infatti la conclusione del motivo ad inizio pag. 8 del ricorso parla proprio di ‘convenuta’ e non anche di ‘appellata’ – è rimasta quindi consolidata dalla mancata tempestiva impugnazione in appello; non può essere perciò ridiscussa in sede di legittimità.
Né, si badi, il ricorso ha distinto dal precedente un profilo autonomo, relativo alla costituzione in appello della difesa dell’ente con avvocati regionali, non enucleato specificamente nei presupposti di fatto, né articolato in relazione ai profili più strettamente processuali della questione o al rilievo in rito formulato dalla Corte di appello. La censura si è soffermata solo sulla legittimità della leggina regionale e sulla sua incostituzionalità, ma in termini tali da indurre il procuratore generale a concludere per la inammissibilità del motivo perché non espresso con ‘ordinata formulazione giuridica’, come, in diversi termini, eccepito anche dal controricorso.
Restano conseguentemente ininfluenti i riferimenti delle memorie al fatto che sulla base della legge regionale l’ARPA sarebbe stata ‘rappresentata illegittimamente in ben due gradi di giudizio’, riferimenti che non arrecano specificità alla censura iniziale, mirata sull’ormai non contestabile costituzione della convenuta.
3) Da questi rilievi discende la irrilevanza, ai fini della decisione della doglianza sul mandato, della questione di costituzionalità della legge regionale 1/2004. Parte ricorrente nella memoria aggiuntiva ha dato atto del sopravvenire della sentenza n.91 del 22 maggio 2013 della Corte costituzionale che ha dichiarato l’incostituzionalità di analoga normativa regionale campana per ragioni simili a quelle svolte in ricorso: la circostanza non rileva, poiché la normativa suddetta è indifferente ai fini del rigetto del primo motivo, definito sulla scorta di argomentazioni che prescindono da essa.
4) Con il terzo motivo parte ricorrente affronta la questione della legittimità del recesso di ARPA dal rapporto professionale stipulato nel 2004; denuncia violazione degli artt. 2237-1725 e 1256 c.c.
Il ricorrente contesta l’interpretazione della Corte di appello, secondo cui ARPA avrebbe potuto recedere liberamente dal contratto; invoca Cass. 21521/11 nella parte in cui ha affermato che l’apposizione di un termine finale al contratto determinava in modo vincolante la durata del rapporto; espone che non avrebbe mai accettato un contratto con facoltà di recesso libera per il cliente, in considerazione della tariffa minima praticata e dei costi sostenuti.
Critica poi le affermazioni della Corte di appello secondo cui ad indurre il legittimo recesso, oltre al già sufficiente ‘venir meno dell’intuitus personae’, sussisteva ‘anche la ‘causa sopravvenuta’ la L.R. 1/2004′, (cioè la legge che aveva stabilito la facoltà di ARPA di avvalersi dell’avvocatura regionale), nonché altra causa sopravvenuta costituita da sentenza della Corte dei Conti che ha ritenuto la colpa grave dei due amministratori ARPA, con danno erariale, proprio in relazione al precedente contratto stipulato con il P. , rinnovato nel 2004.
In proposito il ricorrente sostiene che la legge regionale non imponeva all’ente l’obbligo giuridico di avvalersi dell’Avvocato della Regione, ma solo la facoltà e nega quindi che vi fosse impossibilità sopravvenuta.
Quanto alla sentenza della Corte dei Conti osserva che essa si riferiva solo alle consulenze e non alle difese nei contenziosi; aggiunge che non faceva venir meno l’interesse delle parti alla prosecuzione del contratto, posto che l’Agenzia al momento del rinnovo doveva sapere che di lì a pochi giorni sarebbe entrata in vigore la normativa regionale. Il ricorrente afferma poi che l’impossibilità sopravvenuta di prosecuzione nel contratto non era minimamente configurabile.
4.1) Il quarto motivo affronta la ipotesi dell’inquadramento del contratto quale mandato oneroso, rispetto al quale la sentenza d’appello, pur dissentendo da tale qualificazione, ha affermato la sussistenza di giusta causa. Il ricorrente deduce di aver contestato che la legge regionale 1/2004 costituisse giusta causa, la cui configurabilità nega, sia perché scelta legata a mera convenienza economica, sia perché la approvazione della legge era nota. Ricorda poi che se il rapporto era da qualificare come contratto d’opera professionale, era applicabile il recesso, ove non rinunciato. Enuncia quindi che il recesso non è ammesso nei contratti d’opera ‘blindati da precisi termini di durata’.
4.2) Il quinto motivo denuncia ‘omessa insufficiente motivazione circa fatti decisivi per il giudizio’.
Il ricorrente si duole che non siano stati ‘sufficientemente analizzati e motivati dalla Corte’ i fatti essenziali per il giudizio, quali il contratto sottoscritto nell’imminenza dell’entrata in vigore della legge regionale n. 1, l’assenza di un divieto di essa di proseguire ‘nella già affidata tutela giurisdizionale’, una corretta valutazione dell’interesse pubblico.
5) Le tre censure non possono essere accolte.
Quanto ai vizi motivazionali di cui al quinto motivo, va subito rilevato che, in ragione della applicabilità della novella di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c. (la sentenza impugnata è infatti successiva all’11 settembre 2012, data da cui ha effetto ex art. 54 c. 3 la modifica apportata dalla legge 134/2012), la censura poteva essere rivolta solo contro l’omesso esame di un fatto decisivo e non poteva limitarsi a lamentare l’insufficienza motivazionale, non più rilevante in sede di legittimità (Cfr SU 8053/14).
In ogni caso una doglianza relativa alla motivazione non può limitarsi a elencare i fatti malvalutati, ma deve illustrane la decisività in relazione a singoli profili giuridici, restando altrimenti, come nella specie, inammissibile anche per questa seconda ragione.
5.1) Quanto alle questioni, affrontate nel quarto motivo, relative alla ‘motivazione alternativa: revoca del mandato oneroso ex art. 1725 c.c. per giusta causa’ (così la rubrica), è lo stesso ricorso a dar conto della superfluità della doglianza e a far comprendere di essersene fatto carico solo per seguire l’andamento della sentenza di appello che a suo dire (pag. 13) ‘appare solo nascondere incertezza e perplessità’. Osserva infatti correttamente – lo si è riferito poc’anzi – che una volta qualificato il rapporto come contratto d’opera non risulta più applicabile l’art. 1725, ma l’art. 2237 c.c., che consente la recedibilità ad nutum se non derogata contrattualmente. È questo il nodo essenziale della controversia, poiché sul recesso ad nutum poggia una delle autonome rationes sufficienti a reggere la decisione (cfr. pagg. 16 e 17 sentenza impugnata).
Essa è stata contestata, si è visto, nel terzo e quarto motivo, solo con riferimento alla pretesa rinuncia al diritto di recesso, costituita dall’apposizione di un termine di durata del contratto.
Non è stato infatti sviluppato un autonomo motivo di ricorso ai sensi dell’art. 1362 e segg. c.c. circa l’interpretazione del contenuto del contratto, ma si è fatto leva sulla portata derogatoria della clausola di durata esistente, delimitando congruamente la questione giuridica principale.
Il Collegio reputa infondato il ricorso.
Si insegna in dottrina, che ha di recente dato sistemazione alla materia, che il recesso ad nutum di cui all’art. 2237, che prevede comunque il dovere del cliente di corrispondere al prestatore d’opera intellettuale spese e compensi per l’attività svolta, si fonda sui connotati spiccatamente fiduciari di questo tipo di rapporto. Il recesso è funzionale al fondamento fiduciario di esso e giustifica una tutela meno intensa del prestatore, sotto il profilo della continuità del rapporto. È da qui che discende, si è osservato, la esclusione del diritto al mancato guadagno.
Sulla base di queste riflessioni è da risolvere la tematica della derogabilità della facoltà di recesso.
Su questo tema la dottrina ha sempre mostrato cautela, richiedendo che la rinuncia risulti espressamente o sia stata oggetto di specifica trattativa tra le parti, con l’avvertenza che in ogni caso la previsione del patto di rinuncia al recesso comporta soltanto un aggravamento delle conseguenze del recesso.
In questo quadro la tesi di parte ricorrente, secondo cui l’inserimento in contratto di un termine di durata comporterebbe automaticamente la rinuncia alla facoltà di recesso non è condivisibile.
La tesi ha trovato eco giurisprudenziale (Cass. 22786/13), ma si scontra con il più pensoso orientamento, che è in linea con gli interessi di fondo che stanno alla base del contratto e che sono stati prima rapidamente enunciati, secondo cui il termine normalmente vale ad assicurare al cliente che il prestatore d’opera sia vincolato per un certo tempo nei suoi confronti; si riferisce cioè all’andamento ordinario del rapporto, non alla sua fase di risoluzione. Si è inoltre evidenziata la diversità strutturale e funzionale tra termine finale di efficacia del contratto e recesso fondato sulla fiduciarietà del contratto.
Né appare fondato addurre a favore della tesi di cui al ricorso l’applicazione analogica della disposizione di cui all’art. 1569 c.c. in tema di somministrazione, giacché non si è in presenza di una lacuna normativa, ma di una diversa regolamentazione codicistica del recesso a fronte di due contratti con connotati peculiari, assetto che non consente un’operazione ortopedico-integrativa del dettato normativo.
Tutto ciò induce a credere che soprattutto in relazione a rapporti professionali di rilievo, redatti da soggetti molto qualificati con contratti sottoposti a trattativa, la rinuncia al recesso debba esprimersi contrattualmente e non sia consentita un’espansione per implicito della clausola di durata, così penalizzante per il cliente.
È pertanto da confermare l’orientamento di questa Sezione (Cass. 469/16) secondo cui in tema di contratto di opera professionale, la previsione di un termine di durata del rapporto non esclude di per sé la facoltà di recesso ‘ad nutum’ previsto, a favore del cliente, dal primo comma dell’art. 2237 c.c..
Solo l’esistenza di un concreto contenuto del regolamento negoziale, che dimostri che le parti abbiano inteso, attraverso la previsione del termine, escludere la possibilità di scioglimento del contratto prima della scadenza pattuita potrebbe giustificare un diverso esito.
Il ricorso tuttavia non interpella la Corte con apposita adeguata censura in ordine all’ermeneutica delle clausole del contratto di cui si tratta. Discende da quanto esposto il rigetto anche del terzo motivo di ricorso e di ogni profilo connesso.
6) Resta assorbito il sesto motivo, concernente i ‘Danni’, poiché il rigetto delle deduzioni relative alla illegittimità del recesso esclude ogni diritto al risarcimento, come affermato dalla Corte di appello. Su questo aspetto, relativo all’esistenza del diritto, la censura nulla adduce, poiché si sofferma solo sulla produzione di fatture e sulla possibilità di ‘perizia contabile’, e dunque solo sul quantum.
Inconferenti e finalizzate non a un motivo di ricorso, del quale mancano i caratteri di specificità e organicità, ma solo a criticare ‘la superficialità della sentenza’, sono poi le deduzioni relative all’avvenuto pagamento delle prestazioni, poste a esordio del motivo sui danni.
7) La compensazione delle spese di questo grado di giudizio è giustificata dalla esistenza di aspetti di incertezza e parziale contrasto dottrinale e giurisprudenziale, ancora in evoluzione, in ordine alla questione da ultimo esaminata.
Va dato atto della sussistenza delle condizioni per il raddoppio del contributo unificato, trattandosi di ricorso successivo al 34 gennaio 2013.
P.Q.M.
La Corte rigetta i primi cinque motivi di ricorso. Dichiara assorbito il sesto. Compensa le spese del giudizio di legittimità.
Dà atto della sussistenza delle condizioni di cui all’art.13 comma 1 quater del d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, introdotto dal comma 17 dell’art. 1 della legge n. 228/12, per il versamento di ulteriore importo a titolo di contributo unificato
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