Consiglio di Stato, Sezione sesta, Sentenza 25 maggio 2020, n. 3304.
La massima estrapolata:
In materia di abusi edilizi e del relativo regime sanzionatorio, l’onere di fornire la prova dell’epoca di realizzazione di un abuso edilizio e della sua consistenza incombe sulla parte privata e non sull’amministrazione, la quale, in presenza di un’opera edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge.
Sentenza 25 maggio 2020, n. 3304
Data udienza 13 giugno 2019
Tag – parola chiave: Abusi edilizi – Regime sanzionatorio – Epoca di realizzazione – Onere della prova – Incombe sul privato
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 9715 del 2015, proposto dai signori -OMISSIS- e -OMISSIS-, rappresentati e difesi dall’avvocato Vi. Co., domiciliati presso la Segreteria della Sesta sezione del Consiglio di Stato in Roma, piazza (…);
contro
il Comune di -OMISSIS-, in persona del Sindaco pro tempore, non costituito nel presente grado di giudizio;
nei confronti
dell’Agenzia del territorio-entrate, Ufficio provinciale di Monza e Brianza, in persona del rappresentante legale pro tempore, non costituita nel presente grado di giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sede di Milano, Sez. II, 20 marzo 2015 n. -OMISSIS-, resa tra le parti.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del 13 giugno 2019 il Cons. Stefano Toschei e udito, per la parte appellante, l’avvocato Ga. Pa., per delega dell’avvocato Vi. Co.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. – Con ricorso in appello i signori -OMISSIS- e -OMISSIS- hanno chiesto a questo Consiglio la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sede di Milano, Sez. II, 20 marzo 2015 n. -OMISSIS-, con la quale è stato respinto il ricorso (R.g. n. 1552/2013) dagli stessi (insieme ad altra ricorrente) proposto ai fini dell’annullamento del provvedimento prot. 4039,10.12 del 21 marzo 2013 con il quale il Comune di -OMISSIS- (MB) avvisava i signori -OMISSIS-, -OMISSIS- e -OMISSIS- del rilascio del richiesto permesso di costruire in sanatoria ai sensi degli artt. 36 e 37 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e, nel contempo, provvedeva alla irrogazione nei loro confronti della sanzione di Euro 40.850,91 ai sensi dell’art. 34 d.P.R. 380/2001.
2. – Dalla documentazione depositata in atti, sia nel corso del primo che in occasione del secondo grado di giudizio, può ricostruirsi la vicenda contenziosa qui in esame, nei limiti di quanto è di interesse per la decisione dell’appello, come segue:
– gli odierni appellanti sono proprietari di un immobile plurifamiliare in via -OMISSIS- sito nel Comune di -OMISSIS-;
– intendendo realizzare opere edilizie nell’immobile, i predetti proprietari hanno presentato, in data 31 luglio 2012, al suddetto comune una domanda di sanatoria riferita alle modifiche edilizie effettuate nel corso degli anni;
– in particolare i proprietari sostengono che la presentazione della domanda di accertamento di conformità non è “(…) altro che la mera riproduzione della situazione di fatto in cui si trova l’immobile fin dagli anni ’50, portata a conoscenza della P.a. con la documentazione indicata dal precedente paragrafo, circostanza pacifica perché mai contestata dalla P.a.. Solo la buona fede dei ricorrenti ha spinto quest’ultimi a depositare una sanatoria onde ottenere il rilascio di un permesso di costruire previo pagamento di una sanzione, che sarebbe in realtà illegittima poiché fondata su un inesistente abuso edilizio” (così, testualmente, a pag. 9 dell’atto di appello);
– con nota prot. n. 12979,10.12 del 16 ottobre 2012 gli uffici comunali chiedevano ai proprietari di depositare documentazione integrativa (nello specifico, la verifica dello stato assentito rappresentato negli elaborati di progetto, la documentazione (relazione e tavola grafica) riferita alla l.r. 13/1989 e alla l.r. 6/1989, la verifica delle dichiarazioni cumulative presentate, la dichiarazione di cui all’art. 38.1 l.r. 12/2005, la verifica della sussistenza delle condizioni per l’applicazione dell’art. 34 d.P.R. 380/2001);
– ricevuta la documentazione e una ulteriore relazione del tecnico dei proprietari incentrata, prevalentemente, sull’ammontare della sanzione da irrogarsi, gli uffici comunali, istruendo il procedimento di accertamento di conformità, riscontravano le seguenti difformità edilizie realizzate nell’immobile rispetto al titolo edilizio a suo tempo rilasciato, tenendo conto dello stato di fatto testimoniato dalla documentazione prodotta dagli stessi richiedenti: a) la modifica della sagoma del fabbricato (maggiore lunghezza del fabbricato di 1,16 metri sul lato ovest) che ha determinato un aumento della SLP, in eccedenza rispetto gli indici di edificabilità previsti dal vigente strumento urbanistico nella zona; b) l’aumento della superficie a parcheggio al piano terra; c) la traslazione del vano scala e del locale deposito al piano rialzato, con conseguente mutamento della destinazione d’uso, non autorizzato, di una parte della superficie originariamente destinata a parcheggio alla nuova destinazione di deposito; d) l’allineamento alla parete perimetrale, al piano rialzato ed al piano primo, dei muri della zona giorno, con conseguente riduzione della superficie destinata a balcone e porticato; e) la diversa, rispetto al titolo edilizio, divisione interna degli appartamenti, con spostamento delle aperture in facciata;
– in ragione delle suelencate difformità, il Comune di -OMISSIS- rilasciava ai richiedenti il titolo in sanatoria, applicando: a) la sanzione di cui all’art. 34 d.P.R. 380/2001, per la realizzazione delle opere edilizie difformi dal titolo abilitativo originario e non sanabili in quanto eccedenti gli indici di zona, ma la cui demolizione avrebbe arrecato insanabile pregiudizio della parte conforme; b) la sanzione di cui all’art. 37 d.P.R. 380/2001, con riferimento alle opere edilizie realizzate con riferimento alla divisione interna degli appartamenti con spostamento delle aperture in facciata;
– nei confronti del provvedimento di sanatoria prot. 4039,10.12 del 21 marzo 2013 con il quale il Comune di -OMISSIS- applicava, a carico dei proprietari, la sanzione di Euro 40.850,91, era proposta opposizione al predetto comune che veniva respinta;
– a questo punto i proprietari proponevano ricorso al Tribunale amministrativo regionale;
– il Tribunale amministrativo regionale, con la sentenza 20 marzo 2015 n. -OMISSIS-, riteneva infondati i tre motivi di ricorso dedotti e quindi respingeva il gravame.
3. – Nei confronti della predetta sentenza hanno proposto appello i signori -OMISSIS- e -OMISSIS-, sostenendone la erroneità attesa la fondatezza dei motivi di censura dedotti in primo grado che venivano quindi riproposti in ragione della inadeguatezza del loro scrutinio effettuato dal giudice di prime cure.
A loro avviso, dunque, il provvedimento di rilascio del titolo in sanatoria con applicazione di sanzione pecuniaria sarebbe illegittimo, nella parte in cui il Comune di -OMISSIS- ha applicato una sanzione pecuniaria a loro carico sia perché le opere realizzate nell’edificio non sono considerabili “attualmente” abusive sia per l’ammontare della sanzione.
Gli appellanti sviluppano, quindi, tre profili contestativi nei confronti della sentenza qui oggetto di appello che sinteticamente possono essere riassunti come segue:
1) eccesso di potere e violazione di legge per insufficiente motivazione e per carenza nell’attività istruttoria, atteso che l’immobile in questione è stato realizzato negli anni cinquanta del secolo scorso e con riferimento ad esso non è stato compiuto alcun abuso edilizio sia perché all’epoca non era necessario un espresso titolo edilizio per realizzare interventi costruttivi negli immobili e, quindi, la normativa all’epoca vigente non pretendeva dai proprietari che volessero intervenire su costruzioni realizzate di presentare progetti di variante al comune onde ottenerne l’assentimento sia perché il Comune di -OMISSIS- era in possesso sin dal 1956 di tutta la documentazione relativa allo stato di fatto dell’immobile e fino al momento dell’adozione del provvedimento di sanatoria impugnato in primo grado non ha mai contestato alcuna realizzazione abusiva ai proprietari. Il giudice di prime cure ha errato nel non valorizzare la documentazione presentata in quel grado di giudizio dai ricorrenti, dalla quale emerge con evidenza come il titolo edilizio (vistato dall’allora Sindaco) sia stato rilasciato nel 1952 e le successive piccole modifiche sono state tutte riportate a mano in detto titolo. D’altronde la situazione catastale del fabbricato è rimasta inalterata sin dal 1956, come dimostra l’intera documentazione relativa allo stato di fatto dell’immobile depositata sin dal giudizio di primo grado;
2) illegittimità del provvedimento per inerzia della pubblica amministrazione, violazione del principio del legittimo affidamento e prescrizione del potere sanzionatorio, dal momento che il Comune di -OMISSIS- ha lasciato trascorrere ben 61 anni senza mai contestare la realizzazione di opere abusive sull’immobile di proprietà degli odierni appellanti e quando questi ultimi hanno lealmente indirizzato al comune una istanza di accertamento di conformità, per poter poi realizzare interventi edilizi sull’immobile, l’amministrazione non ha ritenuto di dover verificare come la realizzazione delle modifiche edilizie, contestate come asseritamente abusive, rimontassero ad epoca ampiamente antecedente rispetto al 1967 e, dunque, non necessitassero di appositi titoli abilitativi. Il comportamento appena descritto ha inevitabilmente ingenerato un affidamento legittimo in capo ai proprietari circa la conformità edilizia delle opere a suo tempo realizzate, situazione rispetto alla quale il giudice di primo grado si è espresso sfavorevolmente senza chiarirne adeguatamente le ragioni. Peraltro il giudice di prime cure non ha esplicitato nella maniera dovuta le ragioni per le quali non fosse accoglibile il motivo con il quale i ricorrenti in primo grado sostenevano l’ormai intervenuta prescrizione della sanzione ai sensi dell’art. 28 l. 24 novembre 1981, n. 689, limitandosi ad escluderne la fondatezza sul presupposto che gli abusi edilizi costituiscono illeciti a carattere permanente;
3) illegittimità del provvedimento di accertamento di conformità con riguardo alla individuazione del quantum sanzionatorio. Il Comune di -OMISSIS-, nell’individuare l’ammontare della sanzione, poi irrogata con il provvedimento impugnato in primo grado: a) con riferimento alla sanzione ex art. 34 d.P.R. 380/2001, ha errato nel considerare la situazione esistente al momento della domanda di sanatoria e non a quella di realizzazione dell’abuso; b) con riferimento alla sanzione ex art. 37 d.P.R. 380/2001, che comunque non deve essere applicata al caso di specie vista l’assenza di abusi edilizi, ha errato nell’applicare il principio secondo il quale in caso di mancanza di incremento del valore venale il legislatore ha fissato la sanzione in misura pari a Euro.516,00 o a un multiplo di tale somma, attesa l’assenza di riferimento normativo che conforti tale assunto. Peraltro, nel caso di specie, non vi è stato aumento del valore venale dell’immobile e ad essere contestate sono esclusivamente difformità edilizie e non anche realizzazioni ex novo rispetto al titolo edilizio a suo tempo rilasciato; c) con riferimento alla sanzione ex art. 36 d.P.R. 380/2001, ha errato ad applicarla stante l’assenza di abusi edilizi, per quanto detto prima.
In ragione di quanto sopra i signori Regondi chiedono la riforma della decisione assunta dal giudice di prime cure e l’accoglimento del ricorso in quella sede proposto.
4. – Non si è costituito nel grado di appello del presente giudizio, seppure costituito in primo grado, il Comune di -OMISSIS-. Neppure si è costituita l’Agenzia del territorio-entrate.
5. – L’appello non può trovare accoglimento per le ragioni che seguono.
6. – Con riferimento al primo complesso di contestazioni mosse alla legittimità del provvedimento impugnato e all’esame del corrispondente motivo operato dal Tribunale amministrativo regionale va riferito quanto segue.
In via di fatto gli odierni appellanti nel presentare la domanda di accertamento di conformità effettivamente, anche in ragione dell’esame letterale del testo e del significato comune attribuibile alle espressioni dagli stessi utilizzate, hanno espresso la consapevolezza che vi fossero difformità edilizie per opere realizzate in epoca successiva rispetto alla data di emanazione del titolo a costruire (1952).
Nello stesso tempo essi sostengono che le opere difformi rispetto alla costruzione dell’immobile, per come prevista nel progetto iniziale assentito con visto dell’allora Sindaco, sono state realizzate negli anni cinquanta del secolo scorso e quindi non era necessario acquisire preventivamente alcun espresso titolo in variante per consentire l’effettuazione di tali interventi e di ciò si ha conferma dalla documentazione catastale relativa a quegli anni, mai successivamente modificata.
In argomento va rammentato che, per la costante giurisprudenza in materia di abusi edilizi e del relativo regime sanzionatorio, l’onere di fornire la prova dell’epoca di realizzazione di un abuso edilizio e della sua consistenza incombe sulla parte privata e non sull’amministrazione, la quale, in presenza di un’opera edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 10 gennaio 2014 n. 46, Sez. VI, 20 dicembre 2013 n. 6159, Sez. III, 13 settembre 2013 n. 4546 e Sez. V, 20 agosto 2013 n. 4182). Infatti, la prova circa l’epoca di realizzazione delle opere edilizie e la relativa consistenza è nella disponibilità dell’interessato, dato che solo quest’ultimo può fornire gli inconfutabili atti, documenti o gli elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’addotta sanabilità del manufatto e/o del suo carattere non abusivo in ragione dell’eventuale preesistenza rispetto all’epoca dell’introduzione di un determinato regime autorizzatorio dello ius aedificandi, dovendosi in ogni caso fare applicazione del generale principio processuale per cui la ripartizione dell’onere della prova va effettuata secondo il principio della vicinanza della prova (cfr., da ultimo, Cons. Stato, Sez. VI, 19 ottobre 2018 n. 5984).
7. – Spetta, dunque, all’interessato (nel caso in esame, agli appellanti) di provare l’ultimazione delle opere edili da sanare entro il termine di legge o di quelle realizzabili legittimamente senza titolo, atteso che incombe sul privato e non sull’amministrazione detto onere, perché soltanto questi ha a disposizione i documenti e gli altri elementi di prova da cui evincere, con ragionevole certezza, l’epoca in cui fu realizzato il manufatto o furono effettuate le variazioni edilizie (cfr., per tutti, Cons. Stato, Sez. VI, 4 marzo 2019 n. 1498).
Va precisato inoltre che, come è noto, in mancanza anche un principio di prova in ordine alla risalenza dei manufatti ad epoca anteriore al 1967, non può darsi ingresso alla dimostrazione presuntiva che, ad esempio, potrebbe indurre il giudice amministrativo ad approfondire la questione attraverso ulteriori strumenti tipici dell’istruttoria processuale (quali verificazioni, acquisizioni di ulteriori documenti ovvero consulenze tecniche d’ufficio), in quanto nel processo amministrativo il regime probatorio è fondamentalmente retto dal principio dispositivo con metodo acquisitivo degli elementi di prova da parte del giudice, comportante l’onere della parte interessata di fornire quantomeno degli indizi affinché il giudice possa esercitare i propri poteri istruttori; il tutto, a prescindere dai rilievi sopra svolti circa il raggiungimento della prova positiva circa la verosimile datazione delle opere in questione ad epoca successiva a quella genericamente assunta dagli odierni appellanti.
Nondimeno la giurisprudenza della Sezione (cfr., ad esempio, Cons. Stato, Sez. VI, 13 novembre 2018 n. 6360, 19 ottobre 2018 n. 5988 e 18 luglio 2016 n. 3177) ammette un temperamento secondo ragionevolezza nel caso in cui il privato, da un lato, porti a sostegno della propria tesi sulla realizzazione dell’intervento prima di una certa data elementi rilevanti (ad esempio, aerofotogrammetrie, dichiarazioni sostitutive di edificazione o altre certificazioni attestanti fatti o circostanze rilevanti) e, dall’altro, o la pubblica amministrazione, non analizzi debitamente tali elementi o vi siano elementi incerti in ordine alla presumibile data della realizzazione del manufatto privo di titolo edilizio. In tal caso, non è escluso il ricorso alla prova per presunzioni, sulla scorta di valutazioni prognostiche basate su fatti notori o massime di comune esperienza, inferendo, così e secondo criteri di normalità, la probabile data di tale ultimazione da un complesso di dati, documentali, fotografici e certificativi, necessari in contesti o troppo complessi o laddove i rilievi cartografici e fotografici erano scarsi o tali da aver bisogno dell’ausilio della verificazione.
Nel caso di specie gli appellanti lamentano che gli uffici comunali prima e il giudice di prime cure poi non hanno adeguatamente tenuto in considerazione la documentazione catastale depositata già nel corso dell’istruttoria che ha dato luogo al provvedimento di sanatoria impugnato in primo grado ed allegata alle relazioni del tecnico di fiducia dei proprietari, anch’esse allegate, dalla quale non emergono variazioni rispetto alle piccole modifiche registrate sul titolo edilizio che rimonta agli anni cinquanta del secolo scorso. Tuttavia, osserva il Collegio, la documentazione catastale costituisce, da sola e se non accompagnata da altri elementi di prova idonei a comprovare, in un quadro di rappresentazione storica, la trasformazione dell’immobile negli anni (aereofotogrammetrie, documentazione fotografica, ricevute per l’acquisto dei materiali, progetti di trasformazione edilizia, ecc.), una traccia troppo generica e labile per poter desumere in maniera attendibile l’avvenuta realizzazione di opere edilizie modificative in epoca anteriore al 1967.
Detta certificazione, infatti, consente di potersi ritenere raggiunta la prova della realizzazione dell’immobile nel periodo suindicato e comunque antecedente al 1967, ma nel contempo non permette di fotografare l’epoca della realizzazione degli ulteriori interventi sull’immobile, rispetto ai quali sono stati gli stessi proprietari ad avanzare richiesta di “sanatoria”, con la domanda di accertamento di conformità .
Peraltro le difformità riscontrate e delle quali si è sopra analiticamente detto si compendiano in interventi edilizi rilevanti che coinvolgono addirittura la trasformazione della sagoma dell’edificio e che, senza dubbio, avrebbero necessitato di apposito titolo, di talché la documentazione catastale non può sopperire, di per se sola, alla prova più approfondita dell’epoca in cui gli interventi sono stati effettuati, prova che spettava agli odierni appellanti (cfr., in argomento e soprattutto con riferimento alla circostanza, segnalata nel presente contenzioso dal giudice di primo grado, per cui l’atto di accatastamento non può costituire prova edilizio-urbanistica essendo rilevante solo ai fini fiscali, Cons. Stato, Sez. VI, 7 maggio 2018 n. 2693).
Può ritenersi, dunque, non accoglibile il primo motivo di appello.
8. – Anche il secondo e complesso motivo di appello, suddiviso in più profili e che qui possono esaminarsi congiuntamente, per la intima connessione che corre tra di loro, non può essere accolto.
In linea generale, si osserva come la repressione degli illeciti urbanistico-edilizi costituisca attività strettamente vincolata e non soggetta a termini di decadenza o di prescrizione, potendo la misura demolitoria intervenire in ogni tempo, anche a notevole distanza dall’epoca della commissione dell’abuso, in ragione del carattere permanente rinvenibile nell’illecito edilizio e dell’accessiva immanenza dell’interesse pubblico al ripristino dell’ordine violato, il quale è sempre prevalente sull’aspirazione del privato al mantenimento dell’opera.
I provvedimenti con i quali l’ente locale attesta e sanziona, in via demolitoria o pecuniaria (o, nel caso di specie, in occasione della valutazione sulla sanabilità ex post di opere edilizie), gli abusi realizzati si dimostrano, in via generale, sufficientemente motivati con riferimento all’oggettivo riscontro dell’abusività dell’intervento ed alla sicura assoggettabilità di esso al regime dei titoli abilitativi; circostanze tutte, pervero, soddisfatte nel caso di specie.
In siffatto contesto non può, peraltro, omettersi di dare conto del noto arresto giurisprudenziale di cui alla pronunzia dell’Adunanza plenaria di questo Consiglio, 17 ottobre 2017 n. 9.
Con essa, in particolare, viene ribadito che “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino”.
La stessa Adunanza plenaria ha, peraltro distinto:
– l’ipotesi in cui l’amministrazione abbia, a distanza di tempo dal rilascio, disposto l’annullamento del titolo edilizio illegittimamente adottato, ovvero del provvedimento di sanatoria rilasciato in assenza dei necessari presupposti legittimanti;
– dalla (diversa) fattispecie, in cui l’edificazione sia avvenuta nella totale assenza di un titolo legittimante: laddove, tuttavia, l’amministrazione abbia provveduto solo a distanza di un considerevole lasso di tempo all’adozione dell’ingiunzione di demolizione.
A tale proposito, il supremo Consesso della Giustizia amministrativa ha precisato che:
– se “nel caso di ritiro tardivo in autotutela di un atto amministrativo illegittimo ma favorevole al proprietario, si radica comunque un affidamento in capo al privato beneficiato dall’atto in questione e ciò giustifica una scelta normativa (quale quella trasfusa nell’articolo 21-nonies della l. 241 del 1990) volta a rafforzare l’onere motivazionale gravante in capo all’amministrazione. Si tratta di stabilire sino a che punto e in che termini l’ordinamento si debba far carico di tutelare un siffatto stato di legittimo affidamento”;
– “al contrario, nel caso di tardiva adozione del provvedimento di demolizione, la mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo. Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere “legittimo” in capo al proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata”;
– diversamente opinando, si verrebbe a “connettere al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare il grave fenomeno dell’abusivismo edilizio, ovvero [a] legittimare in qualche misura l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta – e inammissibile – forma di sanatoria automatica o praeter legem”.
9. – Ciò osservato, la fattispecie all’esame del Collegio è caratterizzata solo apparentemente da una (asserita) abnorme espansione dell’arco temporale intercorso fra la realizzazione delle opere abusive e il momento del loro accertamento, atteso che, in assenza di prova circa l’epoca di realizzazione delle modifiche abusive rispetto al progetto assentito negli anni cinquanta del secolo scorso, soltanto al momento della presentazione della domanda di accertamento di conformità, da parte dei proprietari in data 31 luglio 2012 e della relativa allegazione documentale con apposita relazione tecnica, gli uffici comunali sono stati in grado di venire a conoscenza delle – peraltro dagli stessi proprietari – denunciate difformità edilizie non accompagnate dal necessario e preventivo rilascio del corrispondente titolo edilizio. Ne deriva che il lasso di tempo intercorrente da quella data alla data di adozione del provvedimento di accoglimento dell’istanza ex art. 36 d.P.R. 380/2001, intervenuta nel marzo dell’anno successivo, non ha caratteristiche di abnormità tali da potersi sostenere la sussistenza di un affidamento incolpevole nell’inerzia dell’amministrazione in capo ai proprietari, essendo stati questi ultimi, d’altronde, a compulsare gli uffici comunali attivando un istituto che presuppone la realizzazione di opere senza titolo, finendo con il dichiarare esplicitamente tali le variazioni intervenute rispetto all’originario progetto assentito.
Va a ciò aggiunto, con ciò rispondendo (già, in parte,) al terzo motivo di censura della sentenza qui oggetto di appello, come in giurisprudenza si è reiteratamente affermato (cfr., da ultimo, Cons. Stato, Sez. VI, 21 marzo 2019 n. 1892), allorquando il comune eserciti il potere repressivo a distanza di tempo dalla commissione dell’abuso, la disciplina sanzionatoria applicabile è quella vigente al momento dell’esercizio del potere sanzionatorio.
Ciò in quanto l’abuso edilizio, rivestendo i caratteri dell’illecito permanente, si pone in perdurante contrasto con le norme tese al governo del territorio sino al momento in cui non venga ripristinata la situazione preesistente; l’illecito, peraltro, sussiste anche quando il potere repressivo si fondi su di una legge entrata in vigore successivamente al momento in cui l’abuso è stato compiuto.
Da ciò discende che, ai fini della repressione dell’illecito edilizio, è comunque applicabile il regime sanzionatorio vigente al momento in cui l’amministrazione dispone la sanzione, in quanto, attesa la natura permanente dell’illecito edilizio, colui che ha realizzato l’abuso mantiene inalterato nel tempo l’obbligo di eliminare l’opera illecita, onde il potere di repressione può essere esercitato retroattivamente e, addirittura, anche per fatti verificatisi prima dell’entrata in vigore della norma che disciplina tale potere.
Alla natura di illecito permanente dell’abuso edilizio, consegue l’applicazione del regime sanzionatorio vigente al momento in cui l’amministrazione provvede ad irrogare la sanzione stessa, senza che sia ravvisabile la violazione del principio di irretroattività .
Questo stesso Consiglio (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 24 novembre 2016 n. 4943) ha avuto modo di affermare che il regime sanzionatorio applicabile agli abusi edilizi è, in conformità al principio del tempus regit actum, quello vigente al momento della sanzione e non già quello in vigore all’epoca di consumazione dell’abuso; e la natura della sanzione demolitoria, finalizzata a riportare in pristino la situazione esistente e ad eliminare opere abusive in contrasto con l’ordinato assetto del territorio, impedisce di ascrivere la stessa al genus delle pene afflittive, cui propriamente si attaglia il divieto di retroattività .
10. – Le su illustrate osservazioni permettono al Collegio di affermare come i profili di contestazione inerenti alla prescrizione dell’esercizio del potere impositivo di tipo sanzionatorio, ai sensi dell’art. 28 l. 689/1981, non si attagliano all’ipotesi delle sanzioni pecuniarie inflitte in caso di realizzazione di opere abusive, sia perché il potere repressivo sanzionatorio non si prescrive mai sia perché l’illecito edilizio ha una caratteristica di permanenza che impedisce che decorra il termine quinquennale di cui al citato art. 28 l. 689/1981.
In ragione delle suesposte coordinate anche le censure in merito alla prospettata illegittimità del quantum della sanzione non sono condivisibili.
Con riferimento all’applicazione delle disposizioni contenute nell’art. 34 d.P.R. 380/2001, il testo della norma, per quanto è qui di interesse, così recita: “Gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o demoliti a cura e spese dei responsabili dell’abuso entro il termine congruo fissato dalla relativa ordinanza del dirigente o del responsabile dell’ufficio. Decorso tale termine sono rimossi o demoliti a cura del comune e a spese dei medesimi responsabili dell’abuso. 2. Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell’ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27 luglio 1978, n. 392, della parte dell’opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale (…)”
Il citato art. 34, dunque, nel disciplinare gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire, prevede, al secondo comma, che “quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell’ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione”. Per la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio, la possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria, disciplinata dalla disposizione citata, deve essere valutata dall’amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto al provvedimento da adottarsi, sia esso un ordine di demolizione ovvero un accertamento di conformità (cfr., in argomento e di recente, Cons. Stato, Sez. VI, 21 maggio 2019 n. 3280).
Il d.P.R. 380/2001 distingue, infatti, ai fini sanzionatori, gli interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali, dagli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, la cui disciplina sanzionatoria è recata dall’art. 34. Per i primi, è senz’altro prevista la demolizione delle opere abusive; mentre solo per i secondi la legge prevede la demolizione, a meno che, non potendo avvenire la demolizione senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, debba essere applicata una sanzione pecuniaria (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 8 maggio 2018 n. 2739). Ed è ciò che è avvenuto nel caso in esame, quando all’esito dell’istruttoria gli uffici comunali hanno valutato che l’eventuale demolizione delle opere difformi avrebbe arrecato pregiudizio alla statica delle opere conformi.
Sotto tale profilo pertanto nessuna contestazione può essere mossa al calcolo operato dall’amministrazione, tenuto conto, anche per quanto si è sopra detto, che il momento di realizzazione delle opere, in difetto di prova “utile” a dimostrare una diversa epoca di costruzione (non essendo sufficiente, per come si è sopra rappresentato la produzione della documentazione catastale per come presentata dagli odierni appellanti) contraria rispetto alla data di presentazione della domanda di sanatoria.
11. – Con riferimento alla sanzione di cui all’art. 37 d.P.R. 380/2001, il comma 4 (in particolare) della predetta norma, in ordine agli interventi eseguiti in assenza o in difformità dalla segnalazione certificata di inizio attività e accertamento in conformità, stabilisce che, ove l’intervento realizzato risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell’intervento sia al momento della presentazione della domanda, il responsabile dell’abuso o il proprietario dell’immobile possono ottenere la sanatoria dell’intervento versando la somma, non superiore a 5.164 euro e non inferiore a 516 euro, stabilita dal responsabile del procedimento in relazione all’aumento di valore dell’immobile valutato dall’Agenzia del territorio. Fermo quanto sopra e nello stesso tempo, il comma 1 del citato art. 37 dispone che la realizzazione di interventi edilizi di cui all’art. 22, commi 1 e 2, d.P.R. 380/2001, in assenza o in difformità dalla denuncia di inizio attività, comporta la sanzione pecuniaria pari al doppio dell’aumento del valore venale dell’immobile conseguente alla realizzazione degli interventi stessi.
Da quanto sopra discende, dunque, che in caso di mancanza di incremento del valore venale, come è accaduto nel caso di specie, il comune può stabilire la sanzione nella misura minima pari a euro 516,00 o a un multiplo di tale somma, per come ha chiarito anche il giudice di primo grado.
Il Comune di -OMISSIS-, verificata l’assenza di aumento di valore dell’immobile a seguito degli interventi abusivi, nell’ambito della procedura di sanatoria ha ritenuto, per l’entità significativa delle opere realizzate e motivando espressamente sul punto, di avvalersi della suindicata facoltà, di talché ha riconosciuto congrua la irrogazione di una somma multipla di quella minima di 516,00 euro (516,00 x 4 = 2.064,00 euro).
L’entità della misura, peraltro, trova il proprio presupposto nella relazione allegata dai proprietari (relazione tecnica del 25 luglio 2012) nella quale essi propongono il pagamento di “(…) 516 euro per ciascuna unità immobiliare più 516 euro per le modifiche di facciata ed enti comuni” (così, testualmente, nella citata relazione).
Nulla vi è poi da aggiungere, oltre a quanto si è già detto, in merito alla sanzione pecuniaria ex art. 36 d.P.R. 380/2001, stante la conclamata abusività delle opere difformi realizzate.
12. – Le questioni sopra vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante, ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cass. civ., Sez. II, 22 marzo 1995 n. 3260 e, per quelle più recenti, Cass. civ., Sez. V, 16 maggio 2012 n. 7663 e per il Consiglio di Stato, Sez. VI, 18 luglio 2016 n. 3176).
Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
13. – Deriva, pertanto, da quanto sopra, la infondatezza dei motivi di appello e la reiezione del gravame proposto, con conferma della sentenza di primo grado.
In ragione del principio della mancata costituzione nel presente grado di giudizio sia del Comune di -OMISSIS- che dell’Agenzia delle entrate, le spese del grado di appello restano non riferibili.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull’appello n. R.g. 9715/2015, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sede di Milano, Sez. II, 20 marzo 2015 n. -OMISSIS-, con la quale è stato respinto il ricorso (R.g. n. 1552/2013) proposto in primo grado.
Nulla per le spese del grado di appello.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistono i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità degli appellanti, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle relative generalità .
Così deciso in Roma nelle Camere di consiglio del 13 giugno 2019 e del 19 settembre 2019 con l’intervento dei magistrati:
Sergio Santoro – Presidente
Bernhard Lageder – Consigliere
Vincenzo Lopilato – Consigliere
Alessandro Maggio – Consigliere
Stefano Toschei – Consigliere, Estensore
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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