Consiglio di Stato, Sezione sesta, Sentenza 10 febbraio 2020, n. 1023.
La massima estrapolata:
Il vincolo archeologico c.d. diretto viene imposto su beni o aree nei quali sono stati ritrovati reperti archeologici, o in relazione ai quali vi è certezza dell’esistenza, della localizzazione e dell’importanza del bene archeologico, mentre il vincolo archeologico c.d. indiretto viene imposto su beni e aree circostanti a quelli sottoposti a vincolo diretto, per garantirne una migliore visibilità e fruizione collettiva, o migliori condizioni ambientali e di decoro.
Sentenza 10 febbraio 2020, n. 1023
Data udienza 11 luglio 2019
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 5606 del 2018, proposto dai signori An. Am. ed altri, rappresentati e difesi dall’avvocato An. Ab., presso il cui studio sono elettivamente domiciliati in Roma, via (…);
contro
il Ministero dei beni e delle attività culturali, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato presso la cui sede domicilia per legge in Roma, via (…);
nei confronti
il Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, non costituito in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sede di Napoli, Sez. VIII, 3 maggio 2018 n. 2960, resa tra le parti.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Vista la costituzione in giudizio del Ministero appellato ed i documenti prodotti;
Vista l’ordinanza della Sezione 20 dicembre 2018 n. 6213;
Esaminate le ulteriori memorie depositate dalle parti;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio dell’11 luglio 2019 il Cons. Stefano Toschei e uditi l’avvocato An. Ab. e l’avvocato dello Stato Ro. Ri.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. – Con ricorso in appello i signori An. Am. ed altri, hanno chiesto a questo Consiglio la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sede di Napoli, Sez. VIII, 3 maggio 2018 n. 2960, con la quale è stato respinto sia il ricorso introduttivo (R.G. n. 5103/2011) che quello recante motivi aggiunti (dai suindicati odierni appellanti) proposti ai fini dell’annullamento:
– (il ricorso introduttivo) della nota della Soprintendenza per i beni e le attività culturali di Napoli e (omissis) del 15 aprile 2011 con la quale è stato espresso parere negativo in ordine alle pratiche di condono nn. 244 – 1513 nella parte in cui attesta che “l’area risulta interessata dai resti di un complesso archeologico risalente agli inizi del I sec. d.c., facente parte dell’abitato dell’antica (omissis)” e che “la particella (omissis) ex (omissis) del foglio (omissis)/e del Comune di (omissis) risulta vincolata ai sensi della legge 364/1909 con notifica a Mo. Ma. e rivincolata ai sensi della legge 1089/39 giusto D.M. 21.12.1962”;
– del decreto del Ministero della pubblica istruzione 21 dicembre 1962 richiamato nel predetto provvedimento della Soprintendenza, nella parte in cui dichiara di particolare interesse la p.(omissis) di proprietà dei richiedenti il condono, unitamente alla nota di trascrizione del decreto suddetto alla Conservatoria dei Registri immobiliari di Napoli, se esistente;
– del decreto di demolizione e restituzione in pristino da parte del Ministero per i beni culturali ed ambientali con D.M. 16 settembre 1986, richiamato sempre nel provvedimento impugnato, per difetto di legittimazione passiva del signor Re. St. cui lo stesso è stato notificato;
– del silenzio serbato dalla Soprintendenza archeologica di (omissis) in ordine alle istanze presentate dalla signora An. Am. e dal signor An. St. in data 26 luglio2011;
– (il ricorso recante motivi aggiunti) del documento n. 2 versato in atti dalla Soprintendenza dei beni archeologici di Napoli e (omissis) in data 28 novembre 2011, da cui risulterebbe una notifica effettuata in data 20 febbraio 1928 a tale Mo. Ma. sulla circostanza che il terreno di sua proprietà, accatastato al foglio (omissis), particelle nn. (omissis), sarebbe di importante interesse archeologico;
– del decreto del Ministero della pubblica istruzione 21 dicembre 1962, nella parte in cui dichiara di particolare interesse la p.lla (omissis) del foglio (omissis) del Comune di (omissis), unitamente alla nota di trascrizione datata 15 febbraio 1983 del decreto suddetto alla Conservatoria dei Registri immobiliari di Napoli;
– della relazione del 9 novembre 2011 a firma dell’archeologa dottoressa G. Bo..
2. – La complessa vicenda che fa da sfondo al presente contenzioso in grado di appello può essere sinteticamente ricostruita sulla scorta dei documenti e degli atti prodotti dalle parti nei due gradi di giudizio nonché dalla parte in fatto della sentenza qui oggetto di appello, come segue:
– in data 10 luglio 1978, la signora An. Am. acquistava la proprietà di un appezzamento di terreno di circa 5.500,00 mq, sito in (omissis), via (omissis), in Catasto terreni al Foglio (omissis), part. (omissis) (ex part. (omissis), e prima ancora particella n. (omissis) ed in origine n. (omissis)), che risulta essere vincolato ai sensi della legge 1084/1939 per effetto dell’emanazione del D.M. 21 dicembre 1962;
– la signora Am. realizzava su tale fondo, tra la fine del 1978 ed il 1980, in assenza di concessione edilizia, due corpi di fabbrica di cui uno ad uso “misto” su due livelli (piano terra-seminterrato destinato a scuola materna e primo piano destinato a residenza della proprietaria) nonché un secondo corpo di fabbrica, su un solo livello, di due vani più accessori, pertinenziale al primo, destinato a deposito;
– in ragione di quanto sopra la signora Am. presentava al Comune di (omissis), in data 24 aprile 1986, domanda di sanatoria (prot. n. 4994) ai sensi della l. 28 febbraio 1985, n. 47, integrata da successiva domanda di sanatoria nel 1992 protocollata al n. 265/A;
– nel corso del 1992, sul medesimo fondo, la signora Am. realizzava, sine titulo, un terzo corpo di fabbrica destinato ad abitazione ed in relazione al quale veniva formulata in data 23 febbraio 1995, dal figlio della proprietaria signor An. St., richiesta di condono ai sensi della l. 23 dicembre 1994, n. 724;
– in data 24 aprile 1995 la signora Am. donava ai figli Im., An. e Ra. St., in comune ed indiviso fra loro, la nuda proprietà di tutte le consistenze immobiliari di cui al presente contenzioso, riservando a sé l’usufrutto vitalizio;
– con nota prot. 72995 del 14 novembre 2006 il Comune di (omissis) richiedeva alla Soprintendenza di esprimere il parere di competenza ex art. 32 l. 47/1985 in ordine alle pratiche di condono nn. 244 e 1513, allegando a tal fine grafici, relazioni tecniche, foto, cartografie, titoli di proprietà e nelle more della risposta il predetto comune invitava il signor An. St. ad integrare entrambe le pratiche di condono, specificando che ai fini del rilascio del permesso a costruire in sanatoria, occorreva comunque acquisire il nulla osta della Soprintendenza archeologica di (omissis);
– successivamente la Soprintendenza per i beni archeologici di Napoli e (omissis), con nota prot. 14209 del 15 aprile 2011, esprimeva parere negativo in relazione alle predette pratiche, indicando testualmente nella motivazione che: a) la particella (omissis) ex (omissis) del foglio (omissis) del Comune di (omissis) risulta vincolata ai sensi della legge 364/1909 con notifica a Mo. Ma. e rivincolata ai sensi della legge 1089/1939 giusto D.M. 21 dicembre 1962 regolarmente notificato e trascritto; b) l’area risulta interessata dai resti di un complesso archeologico risalente agli inizi del I sec. d.C. e facente parte dell’abitato dell’antica (omissis); c) i lavori per la realizzazione del fabbricato da sanare, sono stati condotti in assenza della necessaria autorizzazione ai sensi dell’art. 21 del d.lgs. 42/2004; d) per il detto fabbricato è stato emesso decreto di demolizione e restituzione in pristino da parte del Ministero per i beni culturali ed ambientali con D.M. 16 settembre 1986 regolarmente notificato a St. Re.;
– in conseguenza della notifica del predetto atto i signori An. Am. ed An. St. chiedevano alla Soprintendenza l’accesso ai documenti contenuti nei fascicoli di condono nonché l’autorizzazione ad effettuare a proprie spese, e sotto la vigilanza e la direzione di personale dell’amministrazione, saggi e quant’altro necessario al fine di certificare la presenza o meno di reperti archeologici nell’area oggetto di parere, ma non ricevevano alcuna risposta;
– a questo punto i signori An. Am., Im. St., An. St. e Ra. St. proponevano ricorso al Tribunale amministrativo regionale per la Campania al fine di ottenere l’annullamento dell’atto di diniego di condono edilizio.
3. – Il Tribunale amministrativo regionale respingeva sia il ricorso introduttivo che quello recante motivi aggiunti, successivamente proposto con riguardo ad alcuni documenti depositati dall’amministrazione e quindi conosciuti per la prima volta nel corso del giudizio, affermando che non fosse possibile condividere quanto era stato sostenuto (e viene ancora sostenuto nella presente sede di appello) dai ricorrenti di primo grado circa la illegittimità dell’atto di diniego di condono edilizio emesso dalla Soprintendenza.
Il giudice di primo grado, dopo avere ritenuto improcedibili le contestazioni circa la mancata risposta da parte dell’amministrazione comunale alle richieste di accesso documentale, atteso che in giudizio era stata prodotta tutta la documentazione utile a sviluppare adeguatamente la difesa dei ricorrenti e dopo aver considerato inammissibile la domanda di silenzio inadempimento in ordine alla presunta inerzia mantenuta dalla Soprintendenza in merito alla richiesta rivolta a quest’ultima di eseguire saggi archeologici nell’area, non essendo configurabile alcun obbligo giuridico, in capo alla Soprintendenza o in capo al Ministero, di provvedere sulle domande dirette all’effettuazione di tali pretesi accertamenti, ha escluso che potessero ritenersi fondate le censure con le quali i ricorrenti lamentavano la carenza di motivazione del parere negativo, “perché non evidenzierebbe i profili di specifico contrasto tra le opere abusive e il vincolo archeologico gravante sull’area, dall’altro, il difetto di istruttoria, perché non vi sarebbe corrispondenza tra il sito archeologico e l’area di sedime degli immobili oggetto della richiesta di condono” (così, testualmente, a pag. 6 della sentenza qui oggetto di appello).
In particolare il giudice di primo grado ha:
– osservato che l’area in contestazione è soggetta da lungo tempo a vincolo di interesse archeologico, atteso che esso è stato imposto nel 1927 con decreto del Ministero della pubblica istruzione, ai sensi della l. 364/1909, nonché confermato, ai sensi della l. 1089/1939, con D.M. del 21 dicembre 1962, trascritto presso la Conservatoria dei registri immobiliari il 17 febbraio 1983;
– ritenuto sufficientemente motivato il provvedimento, anche per effetto della tecnica della motivazione ob relationem in riferimento ai documenti allegati al provvedimento medesimo, costituenti il corredo istruttorio che ha condotto l’amministrazione a negare il parere favorevole al condono edilizio, in quanto la Soprintendenza ha esplicitato che l’area, su cui insistono i fabbricati oggetto della richiesta di condono, è interessata dai resti di un complesso archeologico risalente agli inizi del I sec. d.c., facente parte dell’abitato dell’antica (omissis), dimostrando in tal modo puntualmente quali siano le ragioni che impediscono la condonabilità delle opere abusive, rispetto alle quali, del resto, già era stato emesso, in data 16 settembre 1986, un decreto di demolizione e riduzione in pristino da parte dal Ministero competente;
– puntualizzato, in proposito, come la relazione allegata al provvedimento renda esplicito che “l’area interessa(ta) è inserita come parte integrante del Parco Archeologico dell’A. St., essendo ubicata a brevissima distanza, circa 70 mt, dalle note e rilevanti costruzioni della Villa del Pa., lasciando presumere un logico prosieguo funzionale al contenimento del fronte collinare”, con la ulteriore specificazione che “l’area della particella è situata in un comprensorio densamente interessato da strutture archeologiche (…) ed è stata inserita dal PRG del Comune di (omissis) come area di pertinenza archeologica” (così, testualmente, nella relazione per come riportata per stralci a pag. 8 della sentenza di primo grado qui oggetto di appello);
– soggiunto che il provvedimento di demolizione e di riduzione in pristino, emesso dal Ministero in data 16 settembre 1986, è stato notificato al signor Re. St. che, seppure non proprietario dell’area, è coniuge di una delle parti ricorrenti ed era stato individuato dall’amministrazione quale autore dell’abuso, tanto che egli aveva impugnato il decreto dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Campania (n. R.g. 1360/1987) con ricorso poi dichiarato perento, oltre alla decisiva circostanza che il parere negativo di condono non è basato sull’esistenza di tale precedente provvedimento repressivo-sanzionatorio, ma sulla presenza del vincolo archeologico impeditivo all’accesso alla sanatoria;
– ulteriormente chiarito che il vincolo del 1927 sull’area è stato regolarmente notificato così come il vincolo del 1962, seppure quest’ultimo abbia una portata meramente ricognitiva del vincolo precedente e che nessun rilievo poteva assumere la segnalata circostanza della inopponibilità del secondo vincolo alla proprietaria Am., per avere quest’ultima acquistato l’area in epoca antecedente rispetto alla trascrizione dell’atto impositivo, atteso che nel contesto dispositivo della l. 20 giugno 1909, n. 364, in applicazione della quale è stato imposto il vincolo nel 1927 poi ribadito nel 1962, la trascrizione nei registri immobiliari dell’atto di imposizione del vincolo storico-artistico su immobile di importante interesse culturale non era prevista quale condizione di efficacia del vincolo stesso nei confronti dei terzi acquirenti, la cui tutela si sostanziava nella (ed era quindi limitata alla) responsabilità delle parti contrattuali per inesatte informazioni nel corso della formazione del contratto, con la conseguenza che, in mancanza di idonea e specifica informazione sul punto all’atto della compravendita, l’acquirente resta soggetto alle condizioni del vincolo pur se trascritto successivamente alla data di trascrizione dell’atto di compravendita.
Di conseguenza il ricorso introduttivo e quello recante motivi aggiunti venivano respinti dal Tribunale amministrativo regionale.
4. – I signori An. Am., Im. St., An. St. e Ra. St. hanno proposto appello nei confronti della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sede di Napoli, Sez. VIII, 3 maggio 2018 n. 2960 sostenendo la erroneità delle conclusioni alle quali è giunto il predetto Tribunale e tracciando sostanzialmente sette coordinate contestative che condurrebbero alla evidente illegittimità dei provvedimenti impugnati in primo grado e alla conseguente inattendibilità del percorso argomentativo fatto proprio dal giudice di primo grado per respingere il ricorso introduttivo e quello recante motivi aggiunti in quella sede proposti.
In sintesi dunque i motivi di appello sono i seguenti:
1) erra il Tribunale amministrativo affermando che “la particella (omissis) ex (omissis) del foglio (omissis) del Comune di (omissis), risultava vincolata ai sensi della legge 364/1909 con notifica a Mo. Ma. e rivincolata ai sensi della legge 1089/39 giusto D.M. 21.12.1962”. Infatti il riferimento che viene fatto nella sentenza di primo grado al decreto del Ministro della pubblica istruzione con il quale sarebbe stato imposto nel 1927 il vincolo di interesse archeologico e che sarebbe stato “notificato in data 20.2.1928 a mezzo del messo comunale di (omissis)” altro non è che un verbale di notifica al quale cui non sono allegati nessun formale decreto né la indispensabile relazione istruttoria (sulla quale si fonderebbe l’imposizione del vincolo archeologico), finendo per costituire tale atto un mero strumento di presunzione dell’esistenza di un vincolo, mai provata documentalmente;
2) sotto un secondo versante va ulteriormente ricordato che non è mai stato depositato in giudizio il decreto del 20 febbraio 1928 e che, comunque, pur ipotizzandosene l’esistenza, esso, come peraltro il D.M. 21 dicembre 1962 con il quale sarebbe stato impresso al medesimo immobile un nuovo vincolo archeologico ai sensi della l. 1089/1939, non è opponibile ai proprietari richiedenti il condono perché entrambi mai sono stati notificati né, diversamente, comunicati agli aventi diritto, anche perché il decreto ministeriale del 1928 non risulterebbe notificato al signor Ma. Mo., all’epoca proprietario del bene, ma a tale signor Da. Mo., senza che fosse stata precisata la ragione della notifica a quest’ultimo e il decreto del 1962, depositato in giudizio, si compendia in un documento incompleto, essendo privo dei fogli successivi al primo nonché della sottoscrizione e della relata di notifica;
3) in terzo luogo, quand’anche dovesse dimostrarsi che il decreto ministeriale del 1962 fosse stato notificato agli aventi diritto, esso sarebbe inopponibile agli attuali proprietari e richiedenti il condono edilizio in quanto non risulta, dall’estratto dei Registri immobiliari, che l’attuale particella n. (omissis) (all’epoca dell’atto di acquisto da parte della signora Am. particella n. (omissis)) sia gravata dalla iscrizione del D.M. 21 dicembre 1962 ovvero da altro decreto impositivo del vincolo. A ciò si aggiunge la decisiva circostanza che, a quanto risulta dagli atti depositati dal Ministero resistente ed oggi appellato, il D.M. 21 dicembre 1962 sarebbe stato notificato ai danti causa della signora Am. (i germani Gi. e Fe. D’A.) e trascritto nel RR.II. della Conservatoria di Napoli con nota del 15 febbraio 1983, quindi molti anni dopo l’esecuzione delle opere edilizie contestate come realizzate senza titolo nonché cinque anni dopo l’acquisto dell’immobile per cui è causa da parte della signora Am., avvenuto nel 1978. A ciò si aggiunga ancora che, “quando nel 1983 è stato trascritto sulla particella n. (omissis) il D.M. 21.12.1962, tale particella non aveva più la sua conformazione originaria, ma una parte di essa era rimasta contraddistinta al C.T. come particella n. (omissis), altra parte era stata invece già da anni frazionata in alcune particelle più piccole, tra cui la n. (omissis) acquistata dalla ricorrente” (così, testualmente, a pag. 17 dell’atto di appello);
4) ha errato poi il giudice di primo grado laddove ha ritenuto di dichiarare improcedibile il ricorso proposto per l’accesso documentale ritenendo che tutti gli atti richiesti fossero comunque stati depositati in giudizio, atteso che nel giudizio medesimo non sono mai confluiti i seguenti documenti, richiesti in sede di domanda ostensiva: a) il decreto impositivo del vincolo archeologico del 1928 con gli atti istruttori da cui sarebbe scaturito, in quanto l’unico documento prodotto a riguardo dal Ministero, altro non è che una relata di notifica; b) il D.M. del 21 dicembre 1962, atteso che il documento depositato è incompleto mancando i fogli successivi al primo nonché gli atti istruttori presupposti; c) il verbale di sopralluogo redatto dagli incaricati della Soprintendenza, richiamato nella nota prot. 21912 dell’11 dicembre 1980;
5) il Tribunale amministrativo regionale ha inoltre errato nel considerare dimostrato che l’area di proprietà dei ricorrenti “sarebbe interessata dai resti di un complesso archeologico risalente agli inizi del I sec. d.c., facente parte dell’abitato dell’antica (omissis) (…)”(così nella sentenza qui oggetto di appello), visto che tale circostanza, infatti, non è stata in alcun modo giudizialmente comprovata dall’amministrazione mentre, all’opposto, gli odierni appellanti hanno avuto modo di dimostrare l’esatto contrario, attraverso le perizie, gli elaborati grafici e la copiosa documentazione tecnico/scientifica, prodotta in giudizio;
6) ad avviso del primo giudice la nota del 14 aprile 2011 con la quale la Soprintendenza di Napoli e (omissis) ha espresso il parere negativo impugnato in primo grado (con gli altri provvedimenti) sarebbe adeguatamente motivata in quanto richiama una relazione archeologica secondo la quale, essendo l’area de qua posta a soli 70 mt di distanza dalla nota “Villa del Pa.”, potrebbe essere anch’essa interessata da strutture archeologiche. Tuttavia tale ricostruzione è errata perché il parere è privo di adeguata motivazione, in ragione del fatto che la Soprintendenza ha solo descritto lo stato dei luoghi e di conseguenza ne ha dedotto la incondonabilità delle opere abusive senza chiarire come, nel caso di specie, non potesse operare l’istituto del condono edilizio. In secondo luogo la predetta relazione non tiene conto della circostanza che il terreno sul quale insistono le opere edilizie rispetto alle quali è stato chiesto il condono costituisce un unicum con il sito archeologico di (omissis)(il pianoro di (omissis)) e che studi specifici hanno potuto dimostrare che il piano di campagna dove è stato realizzato l’immobile in questione si trovava sul mare nel 79 d.C. e che attualmente nella specifica area in questione non sono stati rinvenuti reperti, dovendosi così concludere per la sussistenza di una “sterilità archeologica dell’area”.
5. – Si è costituita nel presente giudizio di appello l’amministrazione appellata confermando la correttezza della sentenza di primo grado e contestando la fondatezza delle censure dedotte in grado di appello.
In particolare la difesa erariale ha ricordato (dopo averlo già fatto in primo grado) che “la formalità della trascrizione nella vigenza della legge n. 364 del 1909 riferibile al D.M. del 1928 non era contemplata, ma è stata prevista soltanto dalle leggi successive (in primo luogo, dalla L. n. 1089 del 1939, poi dal D.Lgs. n. 490 del 1999 e, infine, dal D.Lgs. n. 42 del 2004)” (così, testualmente, a pag. 2 della memoria di costituzione nel giudizio di appello). In virtù di ciò può affermarsi che la trascrizione del decreto di vincolo, con riferimento ai vincoli apposti in epoca anteriore rispetto al 1939, non assume valore costitutivo ma di mera “pubblicità notizia”, con la conseguenza che l’omissione della trascrizione non pregiudica in alcun modo l’efficacia del vincolo sul bene, né esclude la sua opponibilità ai terzi e, quindi, anche nei confronti degli aventi causa dall’originario proprietario del bene.
Nel caso di specie, quindi, il D.M. del 1962 sull’area in questione è tuttora efficace ed il provvedimento, a suo tempo, fu regolarmente notificato al figlio del proprietario dell’area stessa.
La difesa erariale, in ordine alla attuale rilevanza archeologica dell’area in questione, ha rammentato che “L’area di proprietà dell’appellante rientra in un più articolato sistema vincolistico posto in essere sulla Collina di Va. per la presenza di almeno 4 ville romane monumentali che vanno dalla tarda età repubblicana all’età flavia, nonché assi viari antichi, il porto, i depositi, magazzini, strutture di risalita al costone e numerosi altri rinvenimenti, che nel loro insieme testimoniano l’esistenza dell’antica città di (omissis)” (così, testualmente, a pag. 5 della memoria di costituzione nel giudizio di appello), per come risulta dalle relazioni depositate.
Da quanto sopra consegue, ad avviso dell’amministrazione appellata, la reiezione del gravame proposto.
6. – Osserva il Collegio che il deposito della memoria con documentazione effettuato dalla difesa erariale in data 8 marzo 2019 non può considerarsi tardivo rispetto alla data di celebrazione dell’udienza di merito, atteso che tra le due date è intercorso un lasso di tempo ben maggiore rispetto a quanto stabilito dall’art. 73 c.p.a..
In secondo luogo detta documentazione è ritenuta dal Collegio rilevante atteso che il mancato deposito in appello della stessa avrebbe condotto il giudice di appello a richiederne il deposito in seguito ad apposita istruttoria.
7. – Chiarito quanto sopra, grazie a detta documentazione è dimostrato che:
a) in data 20 febbraio 1928 nelle mani del signor Da. Mo. [figlio di Ma. Mo., per come anche ribadito con certificato di nascita depositato dalla difesa erariale, proprietario dell’area in questione (partita catastale (omissis), foglio di mappa (omissis), particelle (omissis)), per averlo precisato lui stesso per iscritto accanto alla sottoscrizione della relata di notifica] veniva notificato l’atto impositivo di vincolo ai sensi della legge 20 giugno 1909, n. 364 (all. 1 della nuova documentazione prodotta);
b) ai germani D’A. Gi. e Fe. veniva poi notificato altro atto impositivo di vincolo (all. 2 della nuova documentazione prodotta in copia), ai sensi della l. 1089/1939, con dichiarazione che il fondo in questione insiste nell’area dell’antica (omissis);
c) nei confronti della proprietà del signor D’A. Gi. e di quella del signor D’A. Fe. era trascritto (all. 3 e 4 della nuova documentazione prodotta in copia), in data 15 febbraio 1983, il decreto 21 dicembre 1962 notificato il 2 febbraio 1963;
d) nell’atto di trascrizione (del 6 luglio 1978) del contratto di compravendita dell’area intervenuto tra il signor Ma. della Mu. e la signora An. Am. in data 23 giugno 1978 si legge – alla terza pagina – testualmente che “il venditore ha garantito che il cespite alienato è libero da oneri o formalità ipotecarie pregiudizievoli ad eccezione della trascrizione 13983 del 27 agosto 1951, relativa alla notifica di atti in dipendenza dei quali l’area in oggetto veniva riconosciuta di interesse particolarmente importante dal Ministero della Pubblica Istruzione a norma della legge 1/6/1939, n. 1084. La parte acquirente dichiara di essere a piena conoscenza delle disposizioni contenute nella legge predetta e di tutto quanto forma oggetto della menzionata trascrizione (…)” (all. 5 della nuova documentazione prodotta in copia);
e) in una relazione del soprintendente dottor Fa. Ze. si dava puntualmente conto degli importanti ritrovamenti archeologici intervenuti nell’ambito dell’intera area di (omissis) compresa fra la zona sopra (omissis) e quella di (omissis) (all’epoca della relazione ancora di proprietà dei germani Ro. e Fr. Pa. Fu.) e così anche nella relazione redatta dall’archeologa dottoressa Mi. (all. 8 e 9 della nuova documentazione prodotta in copia).
8. – In disparte le contestazioni circa l’ammissibilità di detta documentazione, ritenute superabili per quanto si è sopra detto dal Collegio, gli appellanti puntualizzano che proprio dalle due relazioni da ultimo depositate emerge la non coincidenza tra l’area di loro proprietà, sulla quale insistono le opere oggetto di domanda di condono, e le zone descritte nelle relazioni rispetto alle quali sole dovrebbe considerarsi esistente il vincolo archeologico, impeditivo all’accoglimento della domanda di sanatoria, in quanto recanti testimonianze storico-archeologiche che permettono la imposizione del vincolo indiretto di cui al DM del 1962.
Ed infatti nella relazione del dottor Ze., puntualizzano gli appellanti, si fa riferimento ad un’area “opposta a quella in cui è ubicata la proprietà degli (appellanti), che si trova invece a Nord, ma soprattutto su quota notevolmente più bassa del Pianoro di (omissis), sul piano di campagna della città moderna” (così, testualmente a pag. 5 della memoria di replica degli appellanti).
Nella relazione della dottoressa Mi. di afferma che “(…) le due aree oggetto di prelazione (…) ricadono nella parte centrale della collina di Va., modesta altura (h.m. 50) che oggi sovrasta la città moderna sorta sull’antico litorale di epoca romana, andandosi progressivamente colmando nel corso dei secoli. Su questa collina si conservano resti monumentali della antica città di (omissis), costituiti da grandi ville di otium edificate nella prima età imperiale lungo il bordo panoramico del costone, dietro le quali si estendevano quartieri con edifici e botteghe (…)” e che “le Ville per otium si trovano sulla collina di Va. e si estendono nella parte interna in direzione Sud, quindi in un’area del tutto dislocata rispetto alla particella in esame che, lo ribadiamo, si trova al di sotto del (omissis)” (ancora, testualmente, a pag. 5 della memoria di replica degli appellanti).
Trovandosi l’area di proprietà degli appellanti nell’ambito del centro abitato di (omissis), la zona archeologicamente interessata, che è quindi ubicata sulla parte collinare con altezza di 40-50 mt., non coincide con quella oggetto di domanda di sanatoria.
9. – Tenuto conto anche (ma non esclusivamente) della ulteriore documentazione acquisita agli atti del giudizio che, lo si ribadisce, assume importanza rilevante per la completezza del quadro istruttorio e che avrebbe comunque dovuto essere richiesta all’amministrazione appellata da parte di questo giudice di appello, può trovare conferma quanto deciso dal giudice di primo grado.
E’ utile premettere che, ai sensi della l. 1089/1939 (artt. 1 e 3), il vincolo archeologico c.d. diretto viene imposto su beni o aree nei quali sono stati ritrovati reperti archeologici, o in relazione ai quali vi è certezza dell’esistenza, della localizzazione e dell’importanza del bene archeologico, mentre il vincolo archeologico c.d. indiretto (art. 21 l. 1089/1939), viene imposto su beni e aree circostanti a quelli sottoposti a vincolo diretto, per garantirne una migliore visibilità e fruizione collettiva, o migliori condizioni ambientali e di decoro (cfr., in tal senso, Cons. Stato, Sez. VI, 19 gennaio 2007 n. 111).
In linea di diritto va, ancora, ricordato come il vincolo storico artistico c.d. diretto venga imposto sui beni o sulle aree nei quali sono stati rinvenuti beni di tale valenza, o in relazione ai quali vi è la certezza dell’esistenza, della localizzazione e dell’importanza di tali beni, mentre il vincolo c.d. indiretto viene imposto sui beni e sulle aree circostanti a quelli sottoposti a vincolo diretto, così da garantirne una migliore visibilità e fruizione collettiva, o migliori condizioni ambientali e di decoro. Spetta alla discrezionalità tecnica della Pubblica amministrazione valutare se emettere o meno la declaratoria del particolare interesse archeologico di un immobile, tale valutazione è pertanto sindacabile in sede di legittimità solo per difetto di motivazione o per erroneità o illogicità, ovvero per inattendibilità della valutazione stessa (cfr., tra le molte, Cons. Stato, Sez. VI, 30 maggio 2018 n. 3246).
In generale, sulla natura e consistenza dei poteri in esercizio, va ribadito come le valutazioni in ordine all’esistenza di un interesse culturale particolarmente importante di un immobile, tali da giustificare l’apposizione del relativo vincolo diretto sul bene e indiretto sui beni circostanti con il conseguente regime, costituiscano espressione di un potere di apprezzamento essenzialmente tecnico, espressione di una prerogativa propria dell’amministrazione dei beni culturali nell’esercizio della funzione di tutela del patrimonio, sindacabile solamente per incongruenza e illogicità di rilievo tale da far emergere l’inattendibilità o l’irrazionalità della valutazione (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 10 gennaio 2018 n. 100 e 14 ottobre 2014 n. 5061).
In materia, l’imposizione di un vincolo diretto necessita di indagini e approfondimenti che possono richiedere anche molto tempo – oltre che opportuni finanziamenti non sempre disponibili – con la conseguenza che non appare illogica la scelta di sottoporre a vincolo una determinata zona anche a distanza di vari anni ed anche successivamente alla edificazione di manufatti; anzi, il vincolo si giustifica maggiormente con la esigenza di non consentire o comunque regolare un siffatto sfruttamento una volta accertato l’interesse archeologico del sito proprio al fine di preservare l’intera zona.
In proposito va altresì ricordato che la tutela storico-artistica di un bene culturale non protegge un’opera dell’ingegno dell’autore, ma un’oggettiva testimonianza materiale di civiltà, la quale, nella sua consistenza effettiva e attuale, ben può risultare da interventi successivi e sedimentati nel tempo, tali da dar luogo ad un manufatto storicamente complesso e comunque parzialmente diverso da quello originario (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 13 maggio 2016 n. 1947).
Anche in ordine alla estensione del vincolo indiretto va considerata legittima la sottoposizione a vincolo di un’intera zona, considerata come parco o complesso, anche se i reperti riportati alla luce siano stati rinvenuti soltanto in alcuni terreni vincolati, purché dalla motivazione del provvedimento di vincolo e dall’attività istruttoria svolta, emergano le specifiche ragioni che giustificano una valutazione unitaria della zona di pregio archeologico e sia indicata specificamente l’ubicazione dei singoli reperti nelle varie particelle catastali della zona vincolata (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 15 dicembre 2014 n. 6152 e 3 luglio 2012 n. 3893)
10. – Nel caso di specie, dall’esame di tutta la documentazione disponibile nel presente processo può evidenziarsi che:
A) l’intera area in questione oggi di proprietà degli appellanti (tenuto conto della successione nel corso del tempo delle particelle catastale attraverso le quali è possibile individuare detta area) è stata oggetto di imposizione di vincolo con il D.M. del 20 febbraio 1928, ai sensi dell’allora vigente l. 364/1909, correttamente notificato all’originario proprietario del fondo signor Ma. Mo. (avendola ricevuta il figlio Da. Mo.);
B) successivamente, con il D.M. 21 dicembre 1962, in applicazione della sopravvenuta l. 1089/1939, la proprietà in questione è stata sottoposta nuovamente a vincolo (questa volta diretto sulla particella (omissis)). Il decreto ministeriale, per come risulta dal successivo atto di trascrizione, è stato notificato correttamente agli allora proprietari del fondo (i germani D’A. Gi. e D’A. Fe.) in data 2 febbraio 1963;
C) nel momento in cui la signora Am. ha acquistato il fondo, nel 1978, ella era perfettamente a conoscenza dell’esistenza del vincolo, per come risulta dall’atto di compravendita versato in atti;
D) in tutte le relazioni depositate dalla difesa erariale ed in particolare dallo stesso parere sfavorevole sulla domanda di condono, impugnato in via principale con il ricorso di primo grado, emerge con chiarezza che (come è stato anche testualmente riprodotto nella sentenza qui oggetto di appello) l’area in questione “(…) è inserita come parte integrante del Parco Archeologico dell’A. St., essendo ubicata a brevissima distanza, circa 70 mt, dalle note e rilevanti costruzioni della Villa del Pa., lasciando presumere un logico prosieguo funzionale al contenimento del fronte collinare” ed “è situata in un comprensorio densamente interessato da strutture archeologiche” ed “è stata inserita dal PRG del Comune di (omissis) come area di pertinenza archeologica”;
E) la completezza dell’istruttoria svolta dalla Soprintendenza e la congruità della motivazione (ob relationem alle relazioni istruttorie che lo hanno preceduto) del parere sfavorevole che nella presente sede giudiziale è oggetto di principale contestazione, a differenza di quanto sostengono gli appellanti, derivano anche alla ulteriore documentazione ora presente in atti, come ad esempio la scheda depositata dalla Soprintendenza (all. 10 del deposito effettuato nel 2019) nella quale è descritto che nella proprietà ex Fu. (il dante causa della attuale proprietà ), nell’attuale contesto urbano di (omissis), in buona parte interrata, è stata rinvenuta la presenza della “Villa del Pa.”, verosimilmente risalente al I secolo d.C., recante le seguenti caratteristiche “Villa esplorata nel 1754 dal We. e poi dal La Ve., infine negli anni 50 del 1900. Essa consta di una area oblunga posta verso levante e di una palestra cinta da un muro in opera reticolata policroma coronata da archirovesci, nel mezzo della quale è posta una natatio in corrispondenza di un’esedra del muro dì fondo. Il lato settentrionale à chiuso da una lunghissima cripta di m. 145 nella quale si aprono 32 finestre valvate, alle spalle della quale è realizzato un portico parallelo al ciglio della collina. La palestra si inserisce in un complesso che si estende più ad ovest composto di numerosi ambienti. Vi si distingue una zona termale che comprende un tepidario (…) con una vasca con gradini e sorretto da suspensurae, un calidario (…) con praefurnium annesso alla cucina (…), uno spogliatoio (…), ed un cortile tetrastilo (…) con al centro un larario (…). A nord di questo cortile si estende un peristilio più grande con esedra (…). A sud dei bagni si apre un grande cortile rettangolare con una serie di cubicoli o celle disposti sui lati sud ovest e nord (…). Gli ambienti 50- 56 sono sale ispirate a forme architettoniche greche tra le quali si identificano un ephebeum, uncorycaeum ed un conisterium, destinate ai preparativi dei giovinetti prima di passare nella palestra. Sul lato destro della sala 53 (conisterium) si apre un’edicola con nicchia centrale, forse un sacello. Il citato portico 33 con esedra presenta un pavimento in marmo e può essere identificato con un oecus aegyptius, con la navata centrale soprelevata rispetto a quelle laterali ed illuminata da finestre disposte al di sopra delle colonne. L’intero complesso lè argo circa m. 240 ed è orientato su due assi differenti che potrebbero derivare da impianti indipendenti unificati. Nell’ultima fase di vita la villa sembra aver perduto l’originario carattere privato, per diventare un valetudinarium o un hospitium cui possono appartenere le celle lungo il cortile a sud ovest. Anche un’ampia latrina (…) potrebbe spiegarsi con questo tipo di utilizzazione. Il nome attuale della villa è dovuto ad una statua qui rinvenuta raffigurante un anziano pastore con un capretto sulle spalle”. Segue poi rappresentazione grafica dell’intero plesso archeologico;
F) d’altronde, nonostante la copiosa documentazione prodotta in entrambi i gradi di giudizio dagli appellanti, compendiata in plurime relazioni sulla presenza di materiale archeologico nell’ampia area di (omissis) e sulla possibile trasformazione geomorfologica del sito rispetto all’epoca in cui le ville romane furono costruite tale da poter sostenere che il terreno ove insistono le opere edilizie oggetto della domanda di condono non sia in realtà effettivamente caratterizzato dalla presenza di reperti di rilievo archeologico, il contenuto di detta documentazione non è idoneo ad escludere comunque la presenza di reperti di interesse archeologico, il che è sufficiente (secondo le coordinate, più sopra ricordate, fatte proprie dalla giurisprudenza costante) a ritenere adeguatamente motivato il parere sfavorevole all’accoglimento della domanda di sanatoria espresso dalla Soprintendenza.
11. – Passando ora all’esame di alcuni aspetti specifici dei motivi di appello dedotti il Collegio osserva quanto segue.
Una corretta esegesi dell’art. 5 della l. 20 giugno 1909, n. 364 e dell’art. 53 del regolamento di esecuzione di cui al R.D. 30 gennaio 1913, n. 363 conduce ad affermare, diversamente da quanto è stato sostenuto dagli appellanti, che la dichiarazione di interesse storico e artistico di un bene, necessaria per la costituzione di un vincolo ai sensi della predetta legge, non doveva essere effettuata con un provvedimento formale.
Il menzionato art. 5 prevede, infatti, che il proprietario o il detentore “per semplice titolo di possesso” delle cose di cui all’art. 1 (cose immobili e mobili che abbiano interesse storico, archeologico, paletnologico o artistico), delle quali l’autorità “abbia notificato, nelle forme che saranno stabilite dal regolamento, l’importante interesse”, non possa trasmettere la proprietà ovvero dimettere il possesso, senza previa denuncia al Ministero della pubblica istruzione.
Le “forme”, con cui doveva avvenire la notifica, sono state previste dall’art. 53, primo comma, del R.D. n. 363/1913 nel modo che segue: “(…) o mediante lettera raccomandata con ricevuta di ritorno; o mediante atto di diffida intimato da ufficiale giudiziario o da messo comunale, e notificato nel modo stabilito per le citazioni del Codice di procedura civile”.
Queste notificazioni sono dovute all’iniziativa del Ministero della pubblica istruzione, dei sovrintendenti o di chi ne fa le veci (art. 53, secondo comma).
Il legislatore del tempo si è quindi preoccupato di garantire, mediante la previsione di precise formalità, che il destinatario (proprietario o detentore) avesse piena consapevolezza di detenere una “cosa di interesse storico e artistico”, senza stabilire che il vincolo dovesse essere imposto con un provvedimento amministrativo da notificare a cura dell’ufficiale giudiziario o del messo comunale, né specificando che a tale atto dovesse allegarsi apposita relazione.
Ciò che il legislatore dell’epoca pretendeva che avvenisse era esclusivamente di evitare che il proprietario o il possessore del bene sul quale era imposto il vincolo non fosse messo nella condizione di avere cognizione di possedere una “cosa di interesse storico e artistico” e tale scopo era raggiunto, in modo diretto dall’amministrazione, attraverso la trasmissione di una lettera raccomandata con r.r., che notifica l’interesse del bene, ovvero mediante un atto di diffida intimato dall’ufficiale giudiziario o da un messo comunale, promosso dalla stessa amministrazione sul presupposto che “la cosa” fosse di interesse.
Un altro dato positivo conferma che, all’epoca in cui fu notificato l’atto di vincolo in esame (con D.M. del 20 febbraio 1928), era stato introdotto l’obbligo, a seguito della legge 11 maggio 1922, n. 778, di individuare un provvedimento dichiarativo del “notevole interesse pubblico” in forma distinta dalla notifica, avendo l’art. 2, primo comma, previsto per la prima volta la “facoltà (del Ministro dell’Istruzione pubblica) di procedere, in via amministrativa, alla notificazione della dichiarazione di notevole interesse pubblico ai proprietari (…)” e tutto quanto sopra si è rammentato è regolarmente avvenuto all’atto della notifica del D.M. 20 febbraio 1928 (per quel che risulta dalla lettura degli atti dell’epoca).
Peraltro va rilevato che l’art. 54 del R.D. n. 364/1909, nel prevedere la facoltà del privato di ricorrere al Ministro, “chiedendo che sulla dichiarazione di pubblico interesse si pronunci il Consiglio Nazionale”, aveva previsto lo strumento per poter contestare la dichiarazione di pubblico interesse, ma non risulta che il proprietario dell’epoca abbia mai fatto uso di tale strumento di contestazione, sicché l’efficacia del provvedimento di imposizione del vincolo si è consolidata.
E del resto si è consolidata l’efficacia anche dei successivi atti di conferma dell’imposizione del vincolo sull’area in questione, in particolare il D.M. 21 dicembre 1962 che non risulta essere mai stato annullato in sede giurisdizionale né amministrativa.
A ciò si aggiunga che la notifica del vincolo, effettuata in base all’art. 5 l. 20 giugno 1909 n. 364, precedente alla l. 1 giugno 1939 n. 1089, sulla tutela delle cose di interesse storico e artistico, non può ritenersi priva di effetti sotto il vigore della successiva legge, dato che anche questa ultima prevede agli art. 2, 3 e 5 analoga notifica del Ministro ai privati proprietari e dato che esiste, quindi, una perfetta equiparazione di forme tra le due notifiche; né importa che la notifica di cui trattasi, non risulti, altresì trascritta nei registri della conservatoria delle ipoteche ai sensi dell’art. 2, comma 2, l. n. 1089 del 1939, in quanto la trascrizione è, invero, istituto che non spiega alcun effetto sulla validità degli atti, assolvendo, essa, soltanto funzioni di pubblicità verso i terzi (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 7 novembre 2002 n. 6067).
12. – Quanto, infine, alla decisione del giudice di primo grado, contestata nella sede di appello, secondo cui il Tribunale amministrativo regionale avrebbe errato nel dichiarare improcedibile la domanda di accesso documentale formulata in quella sede dagli odierni appellanti, essa si palesa scevre da profili patologici.
Come si è ampiamente illustrato, la documentazione prodotta nei due gradi di giudizio (e quindi non solo nel presente grado di appello) si è manifestata utilmente sufficiente a ricostruire compiutamente il quadro probatorio necessario ai fini della decisione, senza che si manifestassero specifici deficit conoscitivi apprezzati dal giudice di primo grado né rinvenibili in carenze della motivazione della sentenza qui oggetto di appello.
Ne deriva che la domanda ostensiva formulata pendente iudicio non aveva ragione di essere accolta.
13. – Consegue a tutto quanto sopra, pertanto, che i motivi dedotti in sede di appello non possono trovare accoglimento.
Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante; cfr. ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cass. civ., Sez. II, 22 marzo 1995 n. 3260 e, per quelle più recenti, Cass. civ., Sez. V, 16 maggio 2012 n. 7663). Le argomentazioni non espressamente esaminate sono state dal Collegio ritenute non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonee a supportare una conclusione di tipo diverso.
14. – Ritenuti quindi infondati i motivi dedotti in grado di appello, il relativo gravame (n. R.g. 5606/2018) va respinto potendosi, per l’effetto, confermare la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sede di Napoli, Sez. VIII, 3 maggio 2018 n. 2960, con conseguente conferma della reiezione del ricorso di primo grado (R.g. n. 5103/2011), ivi compreso il ricorso recante motivi aggiunti, proposti dai signori An. Am., Im. St., An. St. e Ra. St..
Ritiene il Collegio che, in ragione della evidente complessità della questione che ha condotto al presente giudizio di appello, sussistano i presupposti di cui all’art. 92 c.p.c., per come espressamente richiamato dall’art. 26, comma 1, c.p.a., per compensare tra tutte la parti le spese del grado di appello.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull’appello n. R.g. 5606/2018, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sede di Napoli, Sez. VIII, 3 maggio 2018 n. 2960, con conseguente conferma della reiezione del ricorso proposto in primo grado (R.g. n. 5103/2011).
Spese del grado di appello compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella Camera di consiglio del giorno 11 luglio 2019 con l’intervento dei magistrati:
Sergio De Felice – Presidente
Bernhard Lageder – Consigliere
Alessandro Maggio – Consigliere
Oreste Mario Caputo – Consigliere
Stefano Toschei – Consigliere, Estensore
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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