La violazione dell’obbligo di riversamento dell’imposta riscossa nelle casse comunali

Consiglio di Stato, Sezione quinta, Sentenza 10 febbraio 2020, n. 1016.

La massima estrapolata:

La violazione dell’obbligo di riversamento dell’imposta riscossa nelle casse comunali costituisce, per i gestori di strutture ricettive, una grave irregolarità nella gestione del servizio (peraltro, presidiata dalla sanzione penale correlata alla qualifica di incaricato di pubblico servizio e fonte, altresì, di responsabilità amministrativo-contabile correlata alla funzione di agenti contabili.

Sentenza 10 febbraio 2020, n. 1016

Data udienza 14 novembre 2019

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Quinta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 2488 del 2019, proposto da
Pa. Ca. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati An. e Pa. Cl., con domicilio digitale come registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato An. Cl. in Roma, alla via (….);
contro
Roma Capitale, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Pi. Lu. Pa., con domicilio digitale come da registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, alla via (…);
nei confronti
Da. di Fr. ed altri, non costituiti in giudizio;
per la riforma
della sentenza breve del T.A.R. Lazio – Roma, sezione II ter, n. 3462/2019, resa tra le parti
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Roma Capitale;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 14 novembre 2019 il Cons. Giovanni Grasso e uditi per le parti gli avvocati Le., in dichiarata delega di Cl., e Pa.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

1.- Con atto di appello, notificato nei tempi e nelle forme di rito, Pa. Ca. s.r.l., come in atti rappresentata e difesa, ha impugnato la sentenza, resa in forma semplificata e meglio distinta in epigrafe, con il quale il TAR per il Lazio ha respinto il ricorso avverso la determinazione dirigenziale prot. n. QA/3681/2019 del 21 gennaio 2019, con la quale Roma Capitale aveva disposto, in suo danno, la “sospensione dell’attività ricettiva di albergo”, all’esito del riscontro della omessa riversione nelle casse comunali delle somme acquisite, a titolo di imposta di soggiorno, relativamente al triennio 2015-2017, ritenute insuscettibili di rateizzazione.
2.- A sostegno del gravame, espone:
a) che, in virtù di segnalazione certificata di inizio attività in data 12 gennaio 2016, la società operava nel settore turistico-ricettivo e congressuale, segnatamente gestendo l’hotel Th. Ch. Pa., situato in Roma, alla via (omissis), con capacità ricettiva pari a n. 200 camere e n. 407 posti letto;
b) che, nell’ambito dell’espletamento della propria attività sociale, aveva nel tempo provveduto a riscuotere, ai sensi del regolamento comunale adottato ai sensi dell’art. 14, commi 14 e ss., d.l. n. 78/2010, il contributo di soggiorno dagli ospiti dell’albergo, destinato alla successiva riversione, con cadenza trimestrale, nelle casse comunali;
c) che, in data 16 aprile 2018, all’esito delle informazioni acquisite ex art. 13, comma 1 l. n. 689/1981, la Polizia locale di Roma Capitale le aveva contestato l’omesso versamento del contributo di soggiorno, per il periodo 2015-2017, per un complessivo importo pari ad Euro 970.248,00: contestazione alla quale aveva fatto seguito dapprima (con nota del 28 giugno 2018) sollecito di pagamento e, quindi, in data 17 luglio 2018, pedissequa ingiunzione, relativa anche ai maturati interessi legali ed agli oneri della riscossione coattiva, per un complessivo importo dovuto di Euro 1.003.022,91;
d) che – resasi vana, all’esito di ulteriore diffida comunale, l’interlocuzione preordinata all’auspicato concordamento di un piano di rateizzazione, in tesi giustificato dalle valorizzate difficoltà economiche da cui era interessata la propria gestione e condizionata anche dal sopravvenuto sequestro dei propri conti operato dall’autorità giudiziaria penale – si era vista inopinatamente notificare, in data 22 gennaio 2019, determinazione dirigenziale intesa alla sospensione, per un periodo di centottanta giorni, dell’attività ricettiva;
e) che – ricusata la richiesta di ritirare in autotutela la gravosa misura inibitoria, che nelle more l’aveva anche astretta ad attivare le procedure per il licenziamento collettivo dei propri dipendenti – aveva proposto ricorso dinanzi al TAR per il Lazio che peraltro, disattendendo le proprie ragioni di doglianza, lo aveva respinto con la sentenza impugnata.
3.- Sulle esposte premesse, insorgeva avverso la ridetta statuizione, di cui lamentava la complessiva erroneità ed ingiustizia, auspicandone l’integrale reiezione.
4.- Nella resistenza di Roma Capitale, alla pubblica udienza del 14 novembre 2019, sulle reiterate conclusioni dei difensori delle parti costituite, la causa è stata riservata per la decisione.

DIRITTO

1.- L’appello non è fondato e va respinto.
2.- Con il primo motivo di censura, la società appellante lamenta – censurando, sul punto, il difforme apprezzamento del primo giudice – violazione del principio di legalità, anche sotto il profilo del divieto di applicazione retroattiva della contestata sanzione.
Per un verso, a suo dire, alcuna norma primaria, nazionale o regionale, attribuirebbe a Roma Capitale (o, più genericamente, ai Comuni) la potestà di introdurre nuove sanzioni amministrative per la violazione dell’obbligo di riversamento dei contributi di soggiorno (non, in tesi, la legge della Regione Lazio n. 13/2007, muta sul punto; non l’art. 14, commi 14-16, del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni dalla Legge 30 luglio 2010, n. 122, che ha disciplinato il regime dell’imposta).
Per altro verso, la potestà di sospendere l’attività alberghiera, nella fattispecie in esame, sarebbe stata introdotta, nell’ambito del territorio di Roma, soltanto con la deliberazione dell’Assemblea capitolina del 30 marzo 2018 (n. 32/2018), cioè successivamente alle condotte contestate: con il che la sua applicazione, nel caso concreto, avrebbe avuto carattere abusivamente retroattivo.
2.1.- L’assunto non è persuasivo.
Importa premettere che il “contributo” a carico di coloro che soggiornano nelle strutture recettive cittadine è stato previsto, per quanto riguarda Roma Capitale, dall’art. 14, comma 16, del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla l. 30 luglio 2010, n. 122, per trovare successiva generalizzazione, a favore dei Comuni capoluogo di provincia, delle Unioni di Comuni e dei Comuni inclusi negli elenchi regionali delle località turistiche o città d’arte, con il d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23, recante disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale.
La relativa disciplina è rimessa, in coerenza alla previsione di cui all’art. 52 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, alla potestà regolamentare del Comune, che Roma Capitale ha, di fatto, esercitato con l’approvazione della delibera dell’Assemblea Capitolina n. 38 del 22-23 dicembre 2010, successivamente modificata dapprima con deliberazione del Commissario straordinario n. 14 del 18 marzo 2016 e, da ultimo, con deliberazione assembleare n. 32 del 30 marzo 2018.
Il provvedimento impugnato risulta adottato in applicazione dell’art. 8, comma 4 del regolamento in questione, a tenore del quale “l’omesso o parziale riversamento del contributo da parte del gestore della struttura ricettiva, nonché la mancata presentazione della comunicazione alle prescritte scadenze configurano presupposto per l’avvio – previa diffida e assegnazione di un termine non superiore a trenta giorni per la regolarizzazione – del procedimento volto alla sospensione del titolo abilitativo all’esercizio delle attività ricettive, ricorrendo i presupposti di cui all’articolo 27 della Legge Regionale Lazio 6 agosto 2007, n. 13”.
Il contenuto innovativo della previsione – cui l’appellante affida la censura di violazione, sotto il profilo della abusiva applicazione retroattiva a vicende svoltesi, in fatto, anteriormente alla introdotta modifica regolamentare – è, in realtà, limitato alla espressa prefigurazione della omissione, integrale o parziale, della riversione dei contributi riscossi (nonché della violazione degli strumentali obblighi dichiarativi) quale presupposto per l’applicazione della misura già prevista, in termini generali, dal richiamato art. 27 della l.r. n. 13/2007 (recante la disciplina della “Organizzazione del sistema turistico regionale”), che faculta l’Amministrazione comunale, in presenza di “irregolarità tecnico-amministrative” nella gestione del servizio, alla sospensione dell’esercizio, per un periodo non superiore a sei mesi, previa diffida al titolare e assegnazione di un termine, non superiore a trenta giorni, per la regolarizzazione.
In sostanza – non essendo revocabile in dubbio, a dispetto di quanto anche su questo profilo assume criticamente l’appellante, che la violazione dell’obbligo di riversamento dell’imposta riscossa nelle casse comunicali costituisca, per i gestori di strutture ricettive, una grave irregolarità nella gestione del servizio (peraltro, presidiata dalla sanzione penale correlata alla qualifica di incaricato di pubblico servizio e fonte, altresì, di responsabilità amministrativo-contabile correlata alla funzione di agenti contabili: cfr., rispettivamente, Cass. pen., sez. VI, 26 marzo 2019, n. 27707 e Cass., SS.UU., 24 luglio 2018, n. 19654, nonché Cons. Stato, sez. V, 27 novembre 2017, n. 5545) – alla rammentata modifica regolamentare non può essere riconosciuto il ruolo di integrare innovativamente le condotte imposte o vietate, ma solo di chiarire (in dichiarata conformazione alla maturata elaborazione giurisprudenziale ed in non celata prospettiva monitoria) l’importanza del rispetto, anche sotto il profilo delle relative cadenze temporali, degli adempimenti in questione.
Ne discende:
a) che, per un verso, la contestata misura inibitoria trova idonea, sufficiente, pertinente ed autonoma base legale nella evocata (e previgente) normativa regionale di rango primario (e non, come pretenderebbe l’appellante, in una mera delibera assembleare preordinata alla modifica della previsione di rango regolamentare);
b) che, per altro verso, non sussiste la prospettata applicazione retroattiva a fatti verificatisi anteriormente alla prefigurazione tipologica delle condotte vietate od imposte, assunte a presupposto della gravata determinazione;
c) che neppure, in epoca antecedente alla espressa modifica regolamentare, sussistesse il ventilato deficit di tassatività e determinatezza nella fattispecie prefigurativa degli obblighi gravanti, in termini di regolarità tecnico-amministrativa, sui gestori.
Del resto, non è, comunque, inutile soggiungere che – sebbene la misura della sospensione temporanea dell’attività sia, nel contesto dell’art. 8 del regolamento in esame, inquadrata nel complessivo ed omnicomprensivo contesto delle scolpite “Sanzioni” irrogabili dall’Amministrazione comunale – deve escludersi (a differenza di quanto deve dirsi per le vere e proprie “sanzioni amministrative pecuniarie” previste e graduate, per le medesime condotte, dai commi da 1 a 3 ed assoggettate, come tali, al regime di cui alla l. n. 689/1981: cfr. Cass. pen., sez. II, 28 maggio 2019, n. 29632) la natura di sanzione in senso stretto e proprio (id est, afflittiva e punitiva) della sospensione temporanea (e del divieto di prosecuzione) dell’attività, che appare, piuttosto, legalmente ancorata alla gestione, sul versante autoritativo del riscontro di regolarità tecnica ed operativa, del rapporto amministrativo di matrice autorizzatoria sorto in forza della segnalazione certificata di inizio attività necessaria per l’esercizio dell’attività ricettiva alberghiera ed extralberghiera (art. 26 l.r. n. 13/2007 cit.), cui vanamente l’appellante pretenderebbe di sottrarre le modalità di riscossione e riversione del contributo di soggiorno posto a carico dell’utenza.
3.- Con il secondo motivo di gravame, l’appellante denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della l. n. 241/1990 e dei principi del giusto procedimento, avuto riguardo alla mancata attivazione del preventivo contraddittorio procedimentale.
3.1.- Il motivo non è fondato.
Di là dal rilievo, valorizzato dal primo giudice, del canone antiformalistico di cui all’art. 21 octies l. n. 241/1990 (riguardato quale assorbente ragione di dequotazione di vizi meramente formali, a fronte della sostanziale correttezza riconosciuta alla decisione assunta dall’Amministrazione), osserva il Collegio che, in fatto, l’appellante è stata destinataria di reiterate diffide e sollecitazioni, con le quali il Comune ha, per un verso, ingiunto il pagamento delle somme detenute indebitamente e, per altro verso, prospettato l’adozione, in difetto di adempimento, della misura sospensiva.
Per tal via, deve farsi, nella specie, applicazione del consolidato orientamento per cui la formale omissione della comunicazione di avvio del procedimento non determina l’illegittimità del provvedimento finale, qualora sia stata comunque assicurata, almeno in via di fatto, la partecipazione procedimentale del soggetto destinatario del provvedimento finale e raggiunto, perciò, lo scopo partecipativo (cfr., ex multis, Cons. Stato, 9 gennaio 2014, n. 25).
4.- Con distinto mezzo, l’appellante censura la sentenza impugnata anche nella parte in cui ha respinto la doglianza relativa al difetto di motivazione che avrebbe affettato la determinazione comunale di irrogare, oltre alla sanzione pecuniaria e gli interessi, anche la sospensione di tutte le attività all’interno della struttura in quanto del tutto illogica, eccessivamente afflittiva e altresì violativa del canone della proporzionalità .
A suo dire, il primo giudice non avrebbe tenuto conto: a) della insufficienza, in sede giustificativa, del mero richiamo alla norma applicata, trattandosi di determinazione a contenuto discrezionale e, quindi, modulabile; b) della circostanza che la debenza delle somme non era stata mai né negata né occultata, essendosi solo invocato il differimento del sollecitato versamento e la relativa rateizzazione; c) del rilievo che la sospensione dell’attività avrebbe finito per compromettere la stessa possibilità di assolvere all’obbligo di riversamento, tanto più che i conti correnti della società erano stati, nelle more, assoggettati a sequestro penale; d) dall’assunto che il cumulo con gli interessi e gli oneri della riscossione avrebbe finito per triplicare indebitamente, in modo obiettivamente sproporzionato, il complessivo carico sanzionatorio.
4.1.- Il motivo non è fondato.
Importa, invero, osservare:
a) che l’irrogazione, nella misura massima, della sospensione appariva obiettivamente giustificata, come correttamente ritenuto dal primo giudice, dalla consistenza delle somme indebitamente trattenute e dalla gravità, anche sotto il profilo temporale, dei contestati inadempimenti, di cui l’Amministrazione non ha omesso di dare, nel corpo degli atti in contestazione, ampia e motivata contezza;
b) che la mera manifestazione di disponibilità a provvedere alla sollecitata riversione nelle casse erariali – peraltro condizionata all’accoglimento di una istanza di rateizzazione, plausibilmente denegata in considerazione della argomentata inapplicabilità della disciplina tributaria a favore dell’agente contabile, detentore sine titulo – non risultava certo sufficiente a sterilizzare, perdurante l’inottemperanza alle reiterate ingiunzioni, la gravità dell’inadempienza;
c) che priva di rilievo era la temporanea indisponibilità del capitale sequestrato dal giudice penale, per giunta a fronte di una istanza di dissequestro a cui l’appellante si era risolta solo successivamente alla adozione del provvedimento impugnato (per giunta neppure fornendo dimostrazione dell’eventuale diniego opposto dal giudice per le indagini preliminari);
d) che l’obiettivo impatto afflittivo della misura non poteva certo riguardarsi quale ragione di per sé idonea a legittimarne, con evidente inversione logica, l’auspicato temperamento, essendo proprio corrispondente alla ratio della normativa applicata;
e) che la pretesa degli interessi moratori (per giunta dovuti, al tasso legale, in forza del mero ritardo nella restituzione delle somme) e degli oneri per la coattiva riscossione non prefiguravano, avuto riguardo alla diversità di titolo e di fondamento, moltiplicazione del carico sanzionatorio.
5.- Con l’ultima ragione di doglianza, l’appellante lamenta, censurandone l’erroneo avallo del primo giudice, l’illegittimità della sospensione in riferimento alle attività diverse da quelle consistenti nella prestazione di alloggio e servizi connessi ed accessori.
5.1.-Il motivo è infondato.
Correttamente, la sentenza impugnata ha evidenziato:
a) che il regime dell’attività ricettiva alberghiera ed extralberghiera, quale risultante dalla articolata previsione di cui all’art. 26, comma 4 della l. r. n. 3/2007, è tale da legittimare il gestore, all’esito della formalizzata segnalazione di inizio attività, all’espletamento, accanto all’attività principale, di ulteriori attività direttamente connesse (per es.: la somministrazione di alimenti e bevande a persone alloggiate) e prime di diretta connessione (quale deve ritenersi la somministrazione a persone non alloggiate);
b) che, per l’effetto, il legittimo esercizio dell’attività alberghiera costituisce presupposto anche per l’esercizio delle ridette attività collaterali, come comprovato dalla unicità del titolo abilitante (idoneo ad assorbire la disciplina ordinariamente prevista per le attività isolatamente considerate, quale, appunto, la somministrazione o la vendita di giornali etc.);
c) che la ribadita unicità del titolo legittima la conclusione che la sua temporea inibizione debba ritenersi omnicomprensiva ed estesa, come tale, alle attività connesse (proprio in quanto la sospensione si risolve, dal punto di vista formale, nella temporanea inibizione di efficacia al titolo abilitativo).
6.- In definitiva, l’appello deve essere integralmente respinto.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo che segue.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna l’appellante alla refusione delle spese di lite a favore di Roma Capitale, che liquida in complessivi Euro 7.000,00 (settemila/00), oltre accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 14 novembre 2019 con l’intervento dei magistrati:
Fabio Franconiero – Presidente FF
Valerio Perotti – Consigliere
Giovanni Grasso – Consigliere, Estensore
Alberto Urso – Consigliere
Anna Bottiglieri – Consigliere

 

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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