Consiglio di Stato, Sentenza|26 febbraio 2021| n. 1681.
Il giudicato amministrativo, in assenza di norme ad hoc nel codice del processo amministrativo, è sottoposto alle disposizioni processualcivilistiche, per cui il giudicato opera solo inter partes, secondo quanto prevede l’art. 2909 c.c.. I casi di giudicato amministrativo con effetti ultra partes sono, quindi, eccezionali e si giustificano in ragione dell’inscindibilità degli effetti dell’atto o dell’inscindibilità del vizio dedotto: in particolare, l’indivisibilità degli effetti del giudicato presuppone l’esistenza di un legame altrettanto indivisibile fra le posizioni dei destinatari, in modo da rendere inconcepibile logicamente, ancor prima che giuridicamente che l’atto annullato possa continuare ad esistere per quei destinatari che non lo hanno impugnato.
Sentenza|26 febbraio 2021| n. 1681
Data udienza 16 luglio 2020
Integrale
Tag – parola chiave: Scuola Nazionale dell’Amministrazione – Rideterminazione del trattamento giuridico ed economico dei docenti – Incidente di costituzionalità – Sospensione del giudizio – Art. 267, TFUE – Termine per la prosecuzione – Art. 80, comma 1, c.p.a. – Poteri officiosi di fissazione – Eccezione di improcedibilità – Rimessione in termini per errore scusabile – Sopravvenuta carenza di interesse alla decisione – Passaggio in giudicato della sentenza di primo grado – Giudicato amministrativo – Limiti soggettivi ed oggettivi di efficacia
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Quarta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
Sul ricorso numero di registro generale 2780 del 2017, proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente del Consiglio dei ministri pro tempore, dalla Scuola Nazionale dell’Amministrazione, in persona del Direttore pro tempore, e dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Funzione Pubblica, in persona del Direttore pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (…);
contro
I professori -OMISSIS-e-OMISSIS-, rappresentati e difesi dall’avvocato Gi. Pe., con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, Corso (…);
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sede di Roma, Sezione I, n. -OMISSIS-, resa tra le parti, in materia concernente la rideterminazione del trattamento giuridico ed economico dei docenti della SNA (ex SSEF).
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio dei professori -OMISSIS-e-OMISSIS-;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 16 luglio 2020 il consigliere Daniela Di Carlo e uditi per le parti l’avvocato Gi. Pe. e gli avvocati dello Stato Fa. Fe. ed Eu. De Bo., i quali hanno chiesto il passaggio in decisione con tutti gli effetti di legge;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. La Presidenza del Consiglio dei Ministri e la Scuola Nazionale dell’Amministrazione hanno appellato la sentenza -OMISSIS-, con la quale il Tar per il Lazio, sede di Roma, Sezione I, in accoglimento del ricorso introduttivo e dei motivi aggiunti proposti dai prof.ri -OMISSIS-e-OMISSIS-, ha annullato “nei sensi di cui in motivazione il d.p.c.m. 25.11.2015, n. 202, nella parte impugnata di cui all’art. 2, comma 1 e comma 4, e all’art. 5, commi 2 e 4, nonché i collegati provvedimenti impugnati con i motivi aggiunti”.
2. Più in particolare, i ricorrenti hanno impugnato il DPCM del 25.11.2015, n. 202 (pubblicato nella G.U. n. 295/2015) nella parte in cui stabilisce che ai docenti a tempo indeterminato della Scuola Nazionale dell’Amministrazione si applica la disciplina delle incompatibilità e delle autorizzazioni prevista per i professori e i ricercatori universitari a tempo pieno (art. 2, comma 4) e, altresì, nella parte in cui individua i criteri per la determinazione del trattamento economico dei docenti a tempo indeterminato della Scuola Nazionale dell’Amministrazione (art. 2, comma 1 e art. 5, commi 2 e 4).
Hanno impugnato, inoltre, gli atti applicativi mediante i quali la Scuola ha diffidato dal proseguire eventuali attività professionali incompatibili, ha rideterminato il trattamento economico e ha disposto il recupero delle maggiori somme erogate.
3. A sostegno delle proprie pretese, i ricorrenti hanno articolato le seguenti censure.
3.1. “Violazione dell’art. 11, co 1, lett. d), L. n. 124/2015. Falsa applicazione art. 21, co. 4, D.L. n. 90/2014”.
La potestà normativa regolamentare del Governo di cui all’art. 21, co. 1, lett. d) d.l. n. 90/2014 è venuta meno per effetto dell’entrata in vigore dell’art. 11, co. 1, lett. d) l. n. 124/2015, con la conseguente inesistenza della necessaria base legale per l’emanazione del d.P.C.M. impugnato.
3.2. “Sullo stato giuridico: Violazione e falsa applicazione dell’art. 21, comma 4, d.l. n. 90/2014 – Violazione dell’art. 17 l. n. 400/1988 – Violazione del legittimo affidamento – Irragionevolezza ed ingiustizia manifeste”.
Anche supponendo che il potere regolamentare del Governo non sia venuto meno, il d.P.C.M. impugnato è comunque illegittimo nella parte in cui ha disciplinato lo stato giuridico dei professori ex SSEF, perché la delega era oggettivamente limitata alla disciplina del trattamento economico.
3.3. “Sul trattamento economico: Violazione e falsa applicazione dell’art. 21, comma 4, d.l. n. 90/2014 – Violazione dell’art. 17 l. n. 400/1988. Violazione del legittimo affidamento – Irragionevolezza ed ingiustizia manifeste”.
Il d.P.C.M. impugnato è viziato anche nella parte concernente la disciplina del trattamento economico, perché introduce autonomamente un meccanismo di automatica equiparazione dei professori ex SSEF ai professori universitari, non previsto dalla legge di delega.
3.4. “Violazione di legge, eccesso di potere – Illegittimità derivante dalla illegittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 21, c. 4, d.l. n. 90/14 e dell’art. 11, c.1. lett. d), terzo periodo, della l. n. 124/15”.
Laddove il d.P.C.M. impugnato fosse ritenuto non contrastante con la legge di delega e, anzi, attuativo dei principi in essa contenuti, si profila il dubbio di legittimità costituzionale della legge di delega in parola, perché la stessa introduce un trattamento giuridico ed economico irragionevole, sproporzionato ed eccessivamente penalizzante per i destinatari incisi sfavorevolmente.
3.5. “Illegittimità degli atti impugnati derivata dalla illegittimità costituzionale della previsione contenuta nell’art. 11, co.1, lett. d), terzo periodo, della l. n. 124/15”.
La legge di delega è costituzionalmente illegittima anche sotto altro profilo, e cioè in via derivata dall’illegittimità costituzionale della successiva legge n. 124/2015, nella parte in cui questa, nel prevedere che la ridefinizione dello status dei professori ex SSEF avvenga in coerenza con le previsioni di cui all’art. 21, comma 4, d.l. 90/2014, ha inserito l’inciso “ferma restando l’abrogazione dell’art. 10, c. 2, d.lgs. n. 178/09”, in violazione dei principi che governano il potere di interpretazione autentica delle leggi.
3.6. “Illegittimità propria – Violazione del d.P.C.M. 202/2015 e dell’ivi richiamato d.P.R. n. 232/2011”.
Il d..P.C.M. impugnato è illegittimo anche in via propria, perché contrasta con i principi dell’invarianza del trattamento economico e delle progressioni economiche stipendiali.
Applica retroattivamente il sistema degli scatti triennali.
Computa le somme da recuperare al lordo anziché al netto delle retribuzioni.
4. Il Tar del Lazio, sede di Roma, Sezione I, con la sentenza impugnata di cui in epigrafe:
a) ha ricostruito il quadro normativo di riferimento, osservando che:
a.1) l’art. 21 d.l. n. 90/14, conv. in l. n. 114/14, rubricato “Unificazione delle Scuole di formazione”, prevede al comma 4 che: “I docenti ordinari e i ricercatori dei ruoli a esaurimento della Scuola Superiore dell’economia e delle finanze, di cui all’articolo 4-septies, comma 4, del decreto-legge 3 giugno 2008, n. 97, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 agosto 2008, n. 129, sono trasferiti alla Scuola nazionale dell’amministrazione e agli stessi è applicato lo stato giuridico dei professori o dei ricercatori universitari. Il trattamento economico è rideterminato con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, al fine di renderlo omogeneo a quello degli altri docenti della Scuola nazionale dell’amministrazione, che viene determinato dallo stesso decreto del Presidente del Consiglio dei ministri sulla base del trattamento economico spettante, rispettivamente, ai professori o ai ricercatori universitari a tempo pieno con corrispondente anzianità . Dall’attuazione del presente comma non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.”;
a.2) l’art. 2 del d.p.c.m. impugnato prevede che “Ai docenti a tempo pieno, scelti tra dirigenti di amministrazioni pubbliche, magistrati ordinari, amministrativi e contabili, avvocati dello Stato e consiglieri parlamentari, nonché ai docenti a tempo indeterminato si applica il trattamento economico annuo lordo dei professori universitari di prima fascia a tempo pieno, come fissato dall’articolo 3, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 15 dicembre 2011, n. 232, e successive modificazioni.
Ai docenti a tempo pieno, scelti tra professori universitari di prima o seconda fascia si applica, rispettivamente, il trattamento economico annuo lordo dei professori universitari di prima fascia a tempo pieno o quello dei professori universitari di seconda fascia a tempo pieno come fissati dal decreto del Presidente della Repubblica n. 232 del 2011 e successive modificazioni.
Per i docenti a tempo pieno scelti tra dirigenti di amministrazioni private o tra soggetti, anche stranieri, in possesso di elevata e comprovata qualificazione professionale, il trattamento economico annuo lordo è stabilito, tra quelli di professore universitario di prima fascia a tempo pieno o di professore universitario di seconda fascia a tempo pieno, dal Presidente della Scuola, sentito il Comitato di gestione, sulla base della valutazione del curriculum accademico e professionale, in applicazione dei criteri di valutazione fissati dallo stesso Comitato, comunque nel rispetto del decreto del Presidente della Repubblica 15 dicembre 2011, n. 232, e successive modificazioni.
Il trattamento economico dei docenti a tempo pieno e a tempo indeterminato, come definito dal presente articolo, è correlato all’espletamento degli obblighi istituzionali e delle attività didattiche e scientifiche, previsti per i professori universitari a tempo pieno e all’impegno didattico fissato dall’articolo 1, comma 16, della legge 4 novembre 2005, n. 230, e dall’articolo 6 della legge 30 dicembre 2010, n. 240. Ai suddetti docenti si applica la disciplina delle incompatibilità e delle autorizzazioni prevista per i professori e ricercatori universitari a tempo pieno dallo stesso articolo 6. Il Presidente, sentito il Comitato di gestione, determina le modalità per la verifica dell’effettivo svolgimento delle attività didattiche e scientifiche da parte dei predetti docenti. Il compenso per le ulteriori attività è determinato, nei limiti delle disponibilità di bilancio, in applicazione dei criteri di cui al decreto previsto dall’articolo 1, comma 16, della legge 4 novembre 2005, n. 230 e, fino all’adozione del suddetto decreto, in misura pari al settantacinque per cento dell’importo individuato ai sensi dell’articolo 4.”;
a.3) l’art. 5 del d.p.c.m. cit. dispone che “Ai fini della determinazione del relativo trattamento economico, i docenti a tempo pieno, scelti tra professori universitari di prima o seconda fascia o tra ricercatori universitari, mantengono l’anzianità di servizio già maturata.
Ai fini della determinazione del trattamento economico dei docenti a tempo pieno, scelti tra dirigenti di amministrazioni pubbliche, magistrati ordinari, amministrativi e contabili, avvocati dello Stato e consiglieri parlamentari, e dei docenti a tempo indeterminato, i periodi di servizio prestato nelle suddette qualifiche vengono computati come anzianità di servizio nel ruolo dei professori universitari di prima o di seconda fascia a tempo pieno, in coerenza con i criteri di determinazione del trattamento economico previsti dall’articolo 2, applicando le disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica n. 232 del 2011 e successive modificazioni.
Ai fini del comma 2, in applicazione delle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica n. 232 del 2011 e successive modificazioni, la progressione per classi e scatti è biennale fino alla data di entrata in vigore della legge n. 240 del 2010, e triennale a decorrere dall’entrata in vigore della predetta legge.
Ai fini del computo dell’anzianità, i periodi di servizio presso la Scuola dei docenti a tempo pieno, dei docenti a tempo indeterminato e dei ricercatori a tempo indeterminato vengono valutati in applicazione della disciplina generale relativa ai professori e ai ricercatori universitari.”
b) Sulla base del dato testuale delle disposizioni testé richiamate, il Tar ha escluso che la volontà del legislatore (con l’art. 21 d.l. n. 90/14, conv. in l. n. 114/14) fosse quella di modificare lo status giuridico dei docenti del ruolo ad esaurimento della “ex SSEF” e di introdurre un regime di incompatibilità alle attività libero-professionali per l’innanzi non previsto, implicitamente deducendolo da quello previsto per i professori ordinari “a tempo pieno”.
Ad avviso del Tar, è rilevante e decisiva la circostanza che l’entrata in vigore dell’art. 11, comma 1, lett. d), l. n. 124/2015 è posteriore rispetto a quella del d.l. n. 90/2014, ma anteriore rispetto all’emanazione del d.p.c.m. impugnato.
La norma in questione, quale norma speciale posteriore rispetto a quella di cui al richiamato art. 21, comma 4, d.l. n. 90/14 cit., evidenzia la nuova scelta del legislatore di non propendere più per il ricorso allo strumento di rango secondario per la ridefinizione del trattamento economico dei soli docenti “ex SSEF”, bensì di provvedere a una più generale riorganizzazione del trattamento dei docenti della SNA, mediante delega da attuarsi con lo strumento normativo di fonte primaria.
Il primo giudice ha escluso, inoltre, che il richiamo – contenuto nella legge delega del 2015 – al principio di ‘coerenzà rispetto alle previsioni di cui all’art. 21, comma 4, d.l. cit., implichi anche l’ulteriore considerazione che il d.p.c.m. impugnato fosse, all’epoca, ancora attuabile, soltanto perché ivi richiamato. A ciò si deve aggiungere che il legislatore ha riorganizzato la SNA ai sensi dell’art. 1, comma 657, l. n. 216/2015 (legge di stabilità 2016).
c) Anche volendo prescindere da queste considerazioni, ad avviso del Tar, le disposizioni regolamentari impugnate sono illegittime pure per altre ragioni.
In primo luogo, perché l’art. 21, comma 4, d.l. cit. prevede che la rideterminazione del trattamento economico dei docenti provenienti dal ruolo “ad esaurimento” della SSEF deve avvenire “…al fine di renderlo omogeneo a quello degli altri docenti della Scuola nazionale dell’amministrazione, che viene determinato dallo stesso decreto del Presidente del Consiglio dei ministri sulla base del trattamento economico spettante, rispettivamente, ai professori o ai ricercatori universitari a tempo pieno con corrispondente anzianità “.
L’impugnato decreto, invece, ha dato luogo ad una sostanziale “omologazione” del trattamento in questione, nel senso di renderlo del tutto coincidente a quello dei professori “a tempo pieno”, senza considerare la peculiarità della posizione dei professori “ex SSEF”, inseriti a suo tempo in un “ruolo ad esaurimento” in virtù del processo di riorganizzazione delle scuole di formazione della p.a., con un procedimento sostanzialmente coincidente a quello della “mobilità obbligatoria ex lege” dei pubblici dipendenti.
In secondo luogo, perché il d.p.c.m. impugnato non ha nemmeno previsto “un congruo termine di “preavviso” agli interessati, che nel tempo di meno di quindici giorni si sono visti obbligati a prendere decisioni “vitali” e irreversibili legate ad un’unica alternativa prospettata, quale la permanenza nella SNA o la continuazione della (sola) attività libero professionale, laddove la stessa non era rinvenibile in capo agli altri docenti della Scuola e quindi senza che potesse configurarsi quella “omogeneizzazione” del trattamento economico richiesta dalla norma primaria – intesa come tendenziale conformazione di assimilabilità ma non di perfetta equiparazione e sovrapponibilità indipendentemente dallo “status” di provenienza – e senza neanche una approfondita valutazione di tale trattamento idonea a sostenere che lo stesso potesse considerarsi assunto sulla mera “base” di quello dei professori universitari “a tempo pieno”, come richiesto nella delega di cui all’art. 21, comma 4, cit.”.
In terzo luogo, perché in conseguenza dei provvedimenti impugnati con i secondi motivi aggiunti, si è operata una drastica riduzione (e cioè per oltre il 60%) della remunerazione stipendiale percepita sino al 1.1.2016. A ciò si deve aggiungere che la riduzione in parola opera non soltanto per l’avvenire, ma influisce anche sugli interessi consolidati e sulla posizione economica relativa al
trattamento pensionistico, con la conseguente riduzione della pensione e del T.F.R..
Il Tar ha ritenuto, inoltre, l’illegittimità dell’art. 5, comma 2, del d.p.c.m. impugnato, anche nella parte in cui ha qualificato i periodi di servizio prestati nelle qualifiche “di provenienza” computabili come anzianità di servizio nel ruolo dei professori “universitari”, perché la previsione impone di computare l’attività svolta anteriormente all’assunzione dell’incarico nella SNA come “anzianità di servizio”, malgrado l’attività in parola sia stata svolta in un ruolo diverso da quello in cui il ricorrente era, all’epoca, inquadrato, e ciò in violazione del principio del legittimo affidamento e di garanzia della continuità giuridica del rapporto di lavoro alle dipendenza della Pubblica amministrazione.
d) Il Tar ha dunque accolto i primi tre motivi di ricorso introduttivo e i corrispondenti motivi aggiunti, per l’effetto annullando in parte qua il d.P.C.M. impugnato e in via derivata gli ulteriori atti emanati dall’Amministrazione. Ha assorbito, invece, il quarto e il quinto motivo, che illustravano sotto diversi profili la questione comunitaria e quella di costituzionalità avverso la legge delega. Ha assorbito, infine, i motivi aggiunti articolati in via autonoma avverso i medesimi atti.
5. La Presidenza del Consiglio dei ministri e la Scuola nazionale dell’amministrazione hanno appellato la sentenza, articolando le seguenti censure.
5.1. “Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 11, comma 1, lettera d) della legge 124/2015, nonché dell’art. 1, comma 657, l. n. 216/2015 (legge di stabilità 2016), dell’art. 21, comma 4 del d.l. 90/2014”.
Ad avviso delle Amministrazioni appellanti, la sentenza di primo grado ha erroneamente accolto la doglianza incentrata sulla asserita “inesistenza” del potere esercitato dal Governo con il d.p.c.m. impugnato.
5.2) “Erroneità della sentenza appellata relativamente alle modalità di determinazione del trattamento economico dei docenti trasferiti dal ruolo ad esaurimento della SSEF alla SNA – Violazione dell’art. 21, comma 4, del d.l. n. 90/2014 – Violazione e falsa applicazione dei canoni di ragionevolezza e imparzialità dell’azione amministrativa – Erronea applicazione del principio della tutela dell’affidamento e del principio di irretroattività “.
Le parti appellanti criticano il ragionamento logico giuridico seguito dal primo giudice in ordine ai tre diversi profili concernenti:
a) l’omologazione del trattamento economico dei docenti provenienti dalla ex SSEF a quello dei professori ordinari universitari a tempo pieno;
b) la disparità di trattamento derivante dal non avere il d.P.C.M. previsto l’opzione per il rientro presso le amministrazioni di appartenenza;
c) gli effetti retroattivi della rideterminazione del trattamento economico con specifico riferimento al trattamento pensionistico.
5.3) “Erroneità della sentenza appellata relativamente all’annullamento dell’art. 5, comma 2, del d.p.c.m. n. 202/2015, in violazione e falsa applicazione dei principi di irretroattività delle
norme e tutela dell’affidamento”.
Ad avviso delle parti appellanti, la paventata violazione dei principi di irretroattività delle norme e di tutela del legittimo affidamento, non sussiste.
La disposizione contenuta nell’art. 5, comma 2, del d.P.C.M. n. 202/2015 non incide sul
passato, ma dispone ex nunc il computo dell’attività svolta prima dell’assunzione dell’incarico presso la SNA come anzianità di servizio, lasciando impregiudicato quanto maturato fino alla data di entrata in vigore della nuova normativa.
5.4) “Violazione degli artt. 21, comma 4, del d.l. n. 90/2014 e dell’art. 6 della l. n. 240/2010, sull’asserita illegittimità dell’art. 2, comma 4 del d.p.c.m. n. 202/2015 per eccesso di delega”.
Ad avviso delle appellanti, le conclusioni cui è pervenuto il Tar in relazione alla profilata censura di eccesso di delega, fondata sulla scissione tra lo status giuridico e il trattamento economico, sarebbero errate.
L’art. 21, d.l. 24 giugno 2014, n. 90 espressamente prevede l’applicazione dello stato giuridico dei professori e ricercatori universitari ai docenti e ricercatori del ruolo ad esaurimento della ex SSEF trasferiti alla SNA e poi detta i criteri per la rideterminazione del trattamento economico.
In secondo luogo, perché la norma in parola non fa che confermare quanto già previsto per i professori “inquadrati” della ex SSEF da altre disposizioni, e cioè :
– dall’art. 5, comma 4, Decreto Ministeriale 28 settembre 2000, n. 301, a tenore del quale “i professori della Scuola inquadrati acquisiscono, ad ogni effetto, lo stato giuridico e le funzioni di professori ordinari”;
– dal d.P.R. 11 luglio 1980, n. 382, recante “Riordinamento della docenza universitaria, relativa alla fascia di formazione nonché sperimentazione organizzativa e didattica”, ai sensi del quale lo stato giuridico dei professori universitari a tempo pieno è strettamente legato al trattamento economico loro corrisposto. In particolare, l’art. 39 del cit. d.P.R. dispone che “ai professori di ruolo appartenenti alla prima fascia che optino per il regime di impegno a tempo pieno e per la durata dell’opzione è attribuito in aggiunta al trattamento economico previsto dal precedente art. 36, per dodici mensilità all’anno, un assegno aggiuntivo […]”;
– dall’art. 3, “Personale in regime di diritto pubblico”, del D.Lgs. n. 165/2001, e dall’art. 6, “Stato giuridico dei professori e ricercatori di ruolo”, della Legge n. 30 marzo 2010, n. 240, che riaffermano la stretta correlazione tra status giuridico e trattamento economico di professori e di ricercatori universitari.
In terzo luogo, perché sul piano sistematico e ordinamentale sarebbe illogico e contraddittorio separare, rispetto ad un’unica figura professionale, lo stato giuridico da quello economico, con la conseguenza di ritenere che i docenti a tempo indeterminato trasferiti dalla ex SSEF possano beneficiare di un impegno attenuato rispetto a quello richiesto per i docenti a tempo pieno.
In quarto luogo, perché trova applicazione nella materia giuslavoristica, anche quella non contrattualizzata, il principio della proporzione tra la retribuzione e la quantità e qualità del lavoro prestato (art. 36 della Costituzione).
6. Gli appellati si sono costituiti in resistenza, chiedendo il rigetto dell’avverso gravame e riproponendo le argomentazioni articolate a sostegno del ricorso di primo grado.
7. La Sezione, con la sentenza parziale e non definitiva n. -OMISSIS-, ha accolto l’appello nei sensi e limiti di cui in motivazione e, per l’effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata, ha respinto, nei medesimi limiti, il ricorso instaurativo del giudizio di primo grado. Inoltre, ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 21, comma 4, del decreto legge 24 giugno 2014 n. 90, convertito in legge 11 agosto 2014 n. 114. Di conseguenza, ha disposto la sospensione del giudizio e ha ordinato l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.
8. La Corte costituzionale ha definito il giudizio incidentale di costituzionalità con la sentenza n. -OMISSIS-, trasmessa e depositata agli atti del presente giudizio il 4 dicembre 2019.
9. In data 21 febbraio 2020, gli appellati hanno depositato il decreto n. -OMISSIS-con il quale il Presidente della Sezione ha dichiarato estinto per perenzione il giudizio di appello n. 2782/2017, instaurato dalle odierne Amministrazioni appellanti avverso la sentenza del Tar del Lazio, sede di Roma, Sezione I, n. -OMISSIS-, di contenuto ana alla sentenza qui impugnata, emessa nei confronti di altro docente della SNA.
10. Il successivo 2 marzo 2020, gli appellati hanno depositato una memoria difensiva in cui hanno eccepito:
a) l’improcedibilità dell’appello ai sensi dell’art. 35, comma, 2, lett. a), c.p.a., per il mancato deposito, da parte delle Amministrazioni appellanti, dell’istanza di fissazione dell’udienza a seguito della pronuncia della Corte costituzionale, in riassunzione del giudizio nel termine perentorio e decadenziale di cui all’art. 80 c.p.a., decorrente dalla comunicazione alle parti della decisione della Consulta, ovvero – al più tardi – dalla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale n. 48 del 29.11.2019.
b) L’improcedibilità dell’appello avversario per la sopravvenuta carenza di interesse delle Amministrazioni appellanti alla definizione del giudizio, perché :
– il d.P.C.M. 25.11.2015, n. 202 ha natura regolamentare;
– il regolamento è stato impugnato da diversi docenti della SNA, che si reputavano illegittimamente lesi dalle nuove previsioni;
– il Tar Lazio ha definito i relativi giudizi con distinte sentenze, tutte di accoglimento e di annullamento del regolamento in parte qua (precisamente, si tratta degli artt. art. 2, comma 1, 5, comma 2 e 6), sostanzialmente per gli stessi vizi dedotti anche dagli odierni ricorrenti;
– queste sentenze sono state tutte appellate dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e dalla SNA, ma nel caso specifico deciso dal Tar del Lazio con la sentenza n. -OMISSIS-, il giudizio di appello n. 2782/2017 si è estinto per perenzione, ai sensi dell’art. 85, comma 1, c.p.a., in ragione del mancato deposito da parte delle Amministrazioni appellanti dell’istanza di fissazione di udienza;
– la declaratoria in parola ha comportato il passaggio in cosa giudicata della sentenza di primo grado favorevole al docente;
– la natura generale del regolamento impugnato e delle previsioni ivi contenute, caratterizzate da un’efficacia erga omnes, insuscettibili di essere applicate in modo disomogeneo rispetto alle singole posizioni giuridiche, ha comportato ulteriormente – quale effetto diretto dell’estinzione del giudizio di appello n. 2782/2017 e del passaggio in giudicato della sentenza del Tar favorevole al docente – la sopravvenuta carenza di interesse delle Amministrazioni appellanti alla coltivazione di tutti gli altri giudizi di appello, ivi compreso quello presente.
11. Le Amministrazioni appellanti hanno controdedotto, sostenendo l’infondatezza delle eccezioni ex adverso sollevate.
12. Le parti hanno ulteriormente insistito sulle rispettive tesi difensive, mediante il deposito di memorie integrative e di replica.
13. All’udienza pubblica del 16 luglio 2020, la causa è stata discussa ed è stata trattenuta per la decisione.
14. In via preliminare, va esaminata l’eccezione di improcedibilità dell’appello per il mancato deposito, da parte delle Amministrazioni appellanti, dell’istanza di fissazione dell’udienza a seguito della pronuncia della Corte costituzionale.
14.1. L’eccezione non è fondata.
14.2. Ai sensi dell’art. 79, comma 1, c.p.a., la sospensione del processo è disciplinata dal codice di procedura civile, dalle altre leggi e dal diritto dell’Unione europea.
Ai sensi dell’art. 80, comma 1, c.p.a., in caso di sospensione del giudizio, per la sua prosecuzione deve essere presentata istanza di fissazione di udienza entro novanta giorni dalla comunicazione dell’atto che fa venir meno la causa della sospensione.
La natura ordinatoria e sollecitatoria del termine si evince da plurimi elementi:
a) la legge non indica la parte processuale che è tenuta a presentare l’istanza;
b) non qualifica il termine come perentorio;
c) regola la ripresa del giudizio in modo diametralmente opposto rispetto alla fattispecie dell’interruzione del giudizio.
Più in particolare, quanto alla lettera sub b), la qualificazione giuridica espressa è elemento necessario per affermare la natura perentoria del termine: ai sensi dell’art. 152 c.p.c., applicabile al processo amministrativo ex art. 39 c.p.a., “I termini per il compimento degli atti del processo sono stabiliti dalla legge; possono essere stabiliti dal giudice anche a pena di decadenza, soltanto se la legge lo permette espressamente. I termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, tranne che la legge stessa li dichiari espressamente perentori”.
In relazione alla lettera sub c), invece, il comma 2, art. 80 c.p.a. prevede che il processo interrotto prosegue se la parte nei cui confronti si è verificato l’evento interruttivo presenta nuova istanza di fissazione di udienza.
Se la prosecuzione non avviene in questo modo, a norma del successivo comma 3, il processo deve essere riassunto, a cura della parte più diligente, con atto notificato alle altre parti nel termine perentorio di novanta giorni dalla conoscenza legale dell’evento interruttivo.
L’art. 35, comma 2, lettera a), c.p.a. prevede, invece, che il processo si estingue “se, nei casi previsti dal presente codice, non viene proseguito o riassunto nel termine perentorio fissato dalla legge o assegnato dal giudice”.
14.4. Applicando questi principi alla fattispecie de qua, si ricava che:
– l’evento che determina la sospensione può anche prescindere dallo specifico comportamento processuale di una delle parti del giudizio e riguardare invece, il giudizio medesimo nella sua oggettività .
Tipico è il caso – come quello per il quale si procede – della sospensione a seguito di rimessione dell’incidente di costituzionalità .
L’esito non sarebbe mutato se fosse stato fatto un rinvio pregiudiziale alla CGUE.
Entrambe le questioni possono essere rimesse o sollevate d’ufficio dal giudice, anche senza la richiesta specifica di una o di entrambe le parti del giudizio.
Nel caso, poi, del rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 del TFUE, lo stesso si configura anche come obbligatorio e doveroso per il giudice di ultima istanza.
– L’evento interruttivo, viceversa, riguarda la parte processuale specificamente colpita.
– Quanto alle conseguenze processuali concernenti la ripresa del processo, trattandosi di fattispecie diverse e non assimilabili, la norma (con riguardo al processo sospeso) non individua la parte che è tenuta a presentare l’istanza e non qualifica come perentorio il termine per il compimento dell’attività utile.
– Viceversa, con riguardo al caso del processo interrotto, la norma individua il soggetto interessato nella parte che ha subito l’evento interruttivo; soltanto nell’ipotesi in cui tale soggetto si dimostri disinteressato, la norma onera la parte più diligente del compimento dell’attività e qualifica come perentorio il termine di novanta giorni.
14.5. Ciò significa che, sul piano processuale, rispetto al processo sospeso, è sostanzialmente indifferente il soggetto che compie l’attività processuale e manca la previsione della perentorietà .
La ratio della norma è quella – sola – ordinatoria e sollecitatoria alla ripresa dell’attività, che può avvenire a cura di una delle parti o di entrambe congiuntamente o anche separatamente.
La giurisprudenza amministrativa è consolidata nel senso di ritenere che il termine per la prosecuzione decorre dalla data della comunicazione ad opera della Segreteria della Corte costituzionale, anziché dal giorno della pubblicazione della sentenza nella Gazzetta Ufficiale, e che dell’evento deve essere data comunicazione a cura della Segreteria del giudice che ha disposto la sospensione (v. Consiglio di Stato, Sezione V, n. 3400/2012; Cons. giust. sic., n. 651/2008; cfr. anche la giurisprudenza civile per le comunicazioni poste a carico delle Cancellerie dei giudici civili: Cass. SS.UU. n. 4394/1996).
La ratio iuris è quella secondo cui la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale è idonea a rendere conoscibili le pronunce della Corte alla collettività in generale, mentre – rispetto alla specifica esigenza ordinatoria e sollecitatoria del giudizio a quo – si esige un quid pluris, consistente nel dovere del giudice di rendere nota alle parti la possibilità materiale e giuridica di riprendere il giudizio (Cass. I, 3922/1992; nonché Consiglio di Stato, Sezione V, n. 3400/2012; Cons. giust. sic., n. 651/2008).
Il principio di diritto sancito dalla sentenza dell’Adunanza plenaria n. 28/2014 non contraddice, ma anzi conferma, l’indirizzo esegetico in parola.
Più in particolare, con la menzionata pronuncia, il Supremo Consesso ha stabilito che “rimane inteso che il termine per la prosecuzione del giudizio sospeso è quello innovativamente sancito dall’art. 80, co. 1, c.p.a. per tutte le ipotesi di sospensione del processo amministrativo (90 giorni dimidiati nel caso di specie a 45, in forza del combinato disposto degli artt. 87, co. 2, lett. d) e co. 3, e 114, co. 8 e 9, c.p.a.); tale termine decorrerà dalla data di pubblicazione nella Gazzetta ufficiale del provvedimento della Corte costituzionale che definisce il giudizio relativo al più volte menzionato art. 42-bis t.u. espr.; invero, deve ritenersi ragionevole, ai fini della tempestiva prosecuzione del processo sospeso per la pendenza di un giudizio di legittimità costituzionale sulla disciplina applicabile nella causa a seguito di questione sollevata da altro giudice, che il termine decorra dalla data di pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale sulla Gazzetta ufficiale – che integra un idoneo sistema di pubblicità legale per la conoscenza delle sorti del processo costituzionale – e non dalla notificazione operata dal soggetto interessato alle controparti a fini sollecitatori, in quanto tale meccanismo, rimesso alla mera volontà delle parti, non è compatibile con il principio di ragionevole durata del processo essendo suscettibile di provocare una quiescenza sine die del processo (cfr. Cass. civ., sez. I, 26 marzo 2013, n. 7580; Cons. St., ordinanza Sez. IV, 11 luglio 2002, n. 3926)”.
Ciò significa che:
– è confermato il meccanismo sollecitatorio che è alla base dell’istituto della sospensione del processo e della sua ripresa;
– il meccanismo in parola opera in modo assoluto quando ricorre la fattispecie tipica della sospensione propria del giudizio (si tratta del caso all’esame, perché la rimessione alla Corte è originata, tra le altre, dal presente giudizio);
– quando ricorre, invece, la diversa fattispecie della sospensione impropria del giudizio (che è il caso esaminato dalla menzionata Plenaria n. 28/2014), va ricercato un efficace equilibrio tra la natura sollecitatoria del termine e la ragionevole durata del processo, che non può subire gli effetti sfavorevoli della mancata notificazione ad opera della parte, a sua volta dipendente dalla mancata comunicazione ad opera della Segreteria della Corte, per la semplice evidenza che la sospensione del giudizio – per l’appunto, impropria – non è stata accompagnata da un’ordinanza di rimessione alla Corte, per essere già pendente presso la Corte medesima analoga questione rimessa da un diverso giudizio a quo. In questo caso, pertanto, è giustificato e risponde al principio del giusto processo che il termine per la ripresa del giudizio (il quale resta ad ogni modo ordinatorio) decorra dalla pubblicazione della sentenza della Corte in Gazzetta ufficiale, avendo essa efficacia erga omnes.
Nel caso di specie, è accaduto che l’Ufficio è stato tempestivamente informato della sentenza della Corte costituzionale (sentenza n. -OMISSIS-) a seguito della formale trasmissione a cura della Segreteria della Corte, in data 21 novembre 2019, ai sensi dell’art. 29, legge 11 marzo 1953, n. 87.
Il deposito nel sistema informatico del processo amministrativo è stato effettuato il giorno 4 dicembre 2019.
Il Presidente della Sezione non si è limitato a comunicare l’evento, ma ha anzi fissato con apposito decreto – nell’ottica prospettica di una maggiore speditezza dell’iter processuale e nell’interesse di tutte le parti del giudizio – l’udienza per la prosecuzione del giudizio (precisamente si trattava del giorno 2 aprile 2020, poi rinviata d’ufficio al 16 luglio 2020 a causa della nota emergenza pandemica da covid-19).
Pertanto, di fronte alla oggettiva ripresa del giudizio a seguito dell’esercizio di poteri officiosi di fissazione, nessuna funzione utile avrebbe potuto sortire un’eventuale attività compiuta dalla parte, essendosi già interamente realizzato in rerum natura l’evento (ossia, la prosecuzione del giudizio) in funzione del quale l’art. 80, comma 1, c.p.a. pone anche a carico delle parti processuali la responsabilità dell’ordinata e sollecita gestione del processo.
La fissazione dell’udienza ad opera dell’Ufficio non ha cagionato nessuna lesione alle parti ed ha anzi maggiormente tutelato il bene giuridico alla rapidità della procedura, il quale è bene primario e comune a tutte le parti del giudizio.
14.6. In tesi, se si volesse portare alle estreme conseguenze la teoria dell’interesse specifico alla prosecuzione del giudizio (applicando i principi e le categorie che regolano la diversa fattispecie dell’interruzione del giudizio) si dovrebbe anche giungere alla conclusione che l’evento ‘sospensivò di cui alla ordinanza n. -OMISSIS-di rimessione alla Corte costituzionale, è stato determinato dal positivo vaglio – nell’interesse del ricorrente – della questione di legittimità costituzionale dallo stesso articolata nel primo grado del giudizio e nel presente grado d’appello espressamente riproposta per reagire all’avverso gravame erariale, dubitando egli della legittimità costituzionale dell’articolo 21, comma 4, del decreto legge 24 giugno 2014 n. 90, convertito in legge 11 agosto 2014 n. 114, il quale ha costituito la base legale dell’impugnato d.P.C.M. applicativo.
Ciò significa che, al limite, sarebbe stata – tecnicamente – interesse della parte processuale che ha sollecitato la remissione alla Corte costituzionale la ripresa del giudizio, proprio al fine di trarre dall’invocata pronuncia le conseguenze processuali rispetto al caso da decidere.
Va ricordato, infatti, che il giudizio d’appello ha la natura giuridica del gravame, piuttosto che quella del mero mezzo di impugnazione, sicché – se pure è vero che l’interesse alla coltivazione dell’appello appartiene alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e della SNA – è anche vero che la rimessione alla Corte costituzionale è sorta dalla necessità di verificare la compatibilità costituzionale della norma statale, sulla cui base è stato emanato un regolamento che disciplina – a parere del ricorrente, illegittimamente – il rapporto giuridico sostanziale sottostante da esso intrattenuto con la Scuola nazionale dell’amministrazione.
14.7. In disparte le ultime considerazioni, la Sezione rileva che, comunque – anche a voler seguire la tesi dell’improcedibilità dell’appello per la mancata proposizione nei termini (da supporre perentori) dell’istanza di fissazione dell’udienza da parte dell’appellante – spetterebbe, in questo caso, alla parte processuale che subisce gli effetti sfavorevoli della declaratoria di improcedibilità dell’appello (e cioè le Amministrazioni appellanti) il beneficio della rimessione in termini per errore scusabile indotto dall’esercizio dei poteri d’ufficio nella fissazione dell’udienza per la prosecuzione del giudizio, attività – questa – che potrebbe avere ragionevolmente convinto la parte della non necessità di compiere ulteriori incombenze (cfr. Consiglio di Stato, Sezione VI, n. 3829/2009, Id., Sezione V, n. 2344/2014; Id., Sezione III, n. 4947/2018, che si richiamano anche ai sensi degli artt. 74, comma 1 e 88, comma 2, lett. d) c.p.a.).
14.7. Nel caso di specie, la Sezione ritiene non necessaria la concessione del rimedio in parola, essendo il processo legittimamente proseguito (sulla base della suesposta interpretazione dell’art. 80, co. 1, c.p.a.) e avendo le parti (in particolare, le Amministrazioni appellanti, nel cui interesse il rimedio sarebbe, al limite, da riconoscere) dimostrato di avere pienamente esplicato le proprie difese, attraverso il deposito di successivi e cospicui atti difensivi.
Del resto, l’Avvocatura erariale ha invocato la concessione del beneficio della rimessione in termini soltanto in via subordinata, e cioè solo nell’ipotesi in cui la Sezione ritenesse di accogliere l’avversa eccezione di improcedibilità .
15. Va ora esaminata la seconda eccezione di improcedibilità dell’appello, e cioè quella concernente la asserita sopravvenuta carenza di interesse alla decisione.
15.1. La Difesa degli appellati ha eccepito che il gravame è divenuto improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, essendosi nel frattempo consolidati, erga omnes, gli effetti annullatori della sentenza del Tar del Lazio n. -OMISSIS-, resa all’esito del giudizio promosso da altro docente della Scuola contro la PCM e la SNA, nell’ambito di una vicenda analoga a quella oggetto del presente contenzioso.
La sentenza del Tar, anch’essa di accoglimento esattamente come quella qui impugnata, è passata in giudicato, con la conseguente definitività delle statuizioni ivi contenute, perché il relativo giudizio di appello, pur tempestivamente proposto dall’Avvocatura erariale, si è estinto per perenzione a seguito del mancato compimento di attività processuale e, in particolare, della mancata presentazione dell’istanza di fissazione dell’udienza.
Gli appellati ritengono che il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado n. -OMISSIS- sia un evento produttivo di effetti favorevoli anche per la propria posizione giuridica, sia sul piano sostanziale, sia su quello processuale.
Più in particolare, le disposizioni regolamentari annullate in via definitiva nei riguardi del docente destinatario della sentenza n. -OMISSIS- non sarebbero più idonee, sul piano sostanziale, a regolare il rapporto giuridico intercorrente tra i ricorrenti medesimi e la SNA, mentre su quello processuale determinerebbero l’epi in rito dell’appello oggi pendente.
Il d.P.C.M. oggetto della controversia, secondo la tesi prospettata dagli appellati, va infatti qualificato come un atto ad effetti inscindibili, il cui annullamento in parte qua non può che produrre effetti nei confronti di tutti i potenziali destinatari.
15.2. L’assunto non è fondato.
15.3. La Sezione ricorda, brevemente, i principi cardine del giudicato amministrativo, dei suoi limiti soggettivi e oggettivi di efficacia, dei modi di estendere ultra partes gli effetti derivanti dal giudicato.
Ai sensi degli artt. 74, comma 1 e 88, comma 2, lett. d) c.p.a., la Sezione richiama la sentenza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 4 del 2019, della quale merita di essere riportato l’intero punto 30 della motivazione, perché contiene una sintesi molto efficace dei principi e degli sviluppi esegetici ai quali è giunta la giurisprudenza amministrativa.
“30. Il giudicato amministrativo – in assenza di norme ad hoc nel codice del processo amministrativo – è sottoposto alle disposizioni processualcivilistiche, per cui il giudicato opera solo inter partes, secondo quanto prevede per il giudicato civile l’art. 2909 c.c..
I casi di giudicato amministrativo con effetti ultra partes sono, quindi, eccezionali e si giustificano in ragione dell’inscindibilità degli effetti dell’atto o dell’inscindibilità del vizio dedotto: in particolare, l’indivisibilità degli effetti del giudicato presuppone l’esistenza di un legame altrettanto indivisibile fra le posizioni dei destinatari, in modo da rendere inconcepibile – logicamente, ancor prima che giuridicamente – che l’atto annullato possa continuare ad esistere per quei destinatari che non lo hanno impugnato.
Utilizzando tale criterio, dottrina e giurisprudenza hanno individuato alcune eccezionali ipotesi di estensione ultra partes degli effetti del giudicato. Tale estensione dipende spesso da una pluralità di fattori concorrenti, fra i quali rileva non solo la natura dell’atto annullato, ma anche, cumulativamente, il vizio dedotto, nonché il tipo di effetto prodotto dal giudicato della cui estensione si discute.
Più nel dettaglio, secondo l’orientamento tradizionale, gli effetti inscindibili del giudicato amministrativo possono dipendere: a) in alcuni casi (ma raramente), solo dal tipo di atto annullato; b) altre volte, più frequenti, sia dal tipo di atto annullato, sia dal tipo di vizio dedotto; c) altre volte ancora, dal tipo di effetto che il giudicato produce e di cui si invoca l’estensione.
Si ritiene, in particolare, che produca effetti ultra partes:
a) l’annullamento di un regolamento (l’efficacia erga omnes in questo caso trova una base normativa indiretta nell’art. 14, comma 3, d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199, che, proprio presupponendo tale efficacia, prevede che il decreto decisorio di un ricorso straordinario che pronunci l’annullamento di un atto normativo deve essere pubblicato nelle stesse forme dell’atto annullato);
b) l’annullamento di un atto plurimo inscindibile (ad es. il decreto di esproprio di un bene in comunione);
c) l’annullamento di un atto plurimo scindibile, se il ricorso viene accolto per un vizio comune alla posizione di tutti i destinatari (ad es. il decreto di approvazione di una graduatoria concorsuale travolto per un vizio comune);
d) l’annullamento di un atto che provvede unitariamente nei confronti di un complesso di soggetti (ad es. il decreto di scioglimento di un Consiglio comunale).
In tutti i casi indicati, tuttavia, l’inscindibilità riguarda solo l’effetto di annullamento (l’effetto caducatorio), perché è solo rispetto ad esso che viene a crearsi la sopra richiamata situazione di incompatibilità logica che un atto inscindibile possa non esistere più per taluno e continuare ad esistere per altri”.
15.4. Analizzando la fattispecie all’esame, la Sezione espone le seguenti considerazioni.
15.5. In punto di diritto, è dirimente il raffronto tra le disposizioni contenute nell’art. 21 d.l. n. 90/2014 e quelle previste dall’art. 5, commi 2 e 5 del d.P.C.M. del 2015.
Dal raffronto si evince, con nitidezza, che la norma regolamentare è meramente applicativa ed esecutiva di quella di rango primario e non reca ulteriori specificazioni di natura innovativa, ampliativa o al contrario restrittiva, o comunque di carattere derogatorio.
Più in particolare, il legislatore statale:
1) ha circoscritto i destinatari del nuovo regime giuridico del corpo docente della SNA (si tratta dei docenti ordinari e dei ricercatori dei ruoli a esaurimento della SSEF);
2) ha stabilito il principio dell’applicazione dello stato giuridico dei professori o dei ricercatori universitari;
3) ha fissato il criterio cardine per rideterminare il trattamento economico, ossia il trattamento economico spettante, rispettivamente, ai professori o ai ricercatori universitari a tempo pieno con corrispondente anzianità .
Ai fini di facilitare il raffronto tra le disposizioni menzionate, giova trascrivere l’esatto contenuto delle disposizioni citate.
– L’art. 21 d.l. n. 90/14, conv. in l. n. 114/14, rubricato “Unificazione delle Scuole di formazione”, prevede al comma 4 che:
“I docenti ordinari e i ricercatori dei ruoli a esaurimento della Scuola Superiore dell’economia e delle finanze, di cui all’articolo 4-septies, comma 4, del decreto-legge 3 giugno 2008, n. 97, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 agosto 2008, n. 129, sono trasferiti alla Scuola nazionale dell’amministrazione e agli stessi è applicato lo stato giuridico dei professori o dei ricercatori universitari. Il trattamento economico è rideterminato con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, al fine di renderlo omogeneo a quello degli altri docenti della Scuola nazionale dell’amministrazione, che viene determinato dallo stesso decreto del Presidente del Consiglio dei ministri sulla base del trattamento economico spettante, rispettivamente, ai professori o ai ricercatori universitari a tempo pieno con corrispondente anzianità . Dall’attuazione del presente comma non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.”.
– L’art. 2 del d.p.c.m. impugnato prevede che:
“Ai docenti a tempo pieno, scelti tra dirigenti di amministrazioni pubbliche, magistrati ordinari, amministrativi e contabili, avvocati dello Stato e consiglieri parlamentari, nonché ai docenti a tempo indeterminato si applica il trattamento economico annuo lordo dei professori universitari di prima fascia a tempo pieno, come fissato dall’articolo 3, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 15 dicembre 2011, n. 232, e successive modificazioni.
Ai docenti a tempo pieno, scelti tra professori universitari di prima o seconda fascia si applica, rispettivamente, il trattamento economico annuo lordo dei professori universitari di prima fascia a tempo pieno o quello dei professori universitari di seconda fascia a tempo pieno come fissati dal decreto del Presidente della Repubblica n. 232 del 2011 e successive modificazioni.
Per i docenti a tempo pieno scelti tra dirigenti di amministrazioni private o tra soggetti, anche stranieri, in possesso di elevata e comprovata qualificazione professionale, il trattamento economico annuo lordo è stabilito, tra quelli di professore universitario di prima fascia a tempo pieno o di professore universitario di seconda fascia a tempo pieno, dal Presidente della Scuola, sentito il Comitato di gestione, sulla base della valutazione del curriculum accademico e professionale, in applicazione dei criteri di valutazione fissati dallo stesso Comitato, comunque nel rispetto del decreto del Presidente della Repubblica 15 dicembre 2011, n. 232, e successive modificazioni.
Il trattamento economico dei docenti a tempo pieno e a tempo indeterminato, come definito dal presente articolo, è correlato all’espletamento degli obblighi istituzionali e delle attività didattiche e scientifiche, previsti per i professori universitari a tempo pieno e all’impegno didattico fissato dall’articolo 1, comma 16, della legge 4 novembre 2005, n. 230, e dall’articolo 6 della legge 30 dicembre 2010, n. 240. Ai suddetti docenti si applica la disciplina delle incompatibilità e delle autorizzazioni prevista per i professori e ricercatori universitari a tempo pieno dallo stesso articolo 6. Il Presidente, sentito il Comitato di gestione, determina le modalità per la verifica dell’effettivo svolgimento delle attività didattiche e scientifiche da parte dei predetti docenti. Il compenso per le ulteriori attività è determinato, nei limiti delle disponibilità di bilancio, in applicazione dei criteri di cui al decreto previsto dall’articolo 1, comma 16, della legge 4 novembre 2005, n. 230 e, fino all’adozione del suddetto decreto, in misura pari al settantacinque per cento dell’importo individuato ai sensi dell’articolo 4.”.
– L’art. 5 del d.p.c.m. cit. prevede che “Ai fini della determinazione del relativo trattamento economico, i docenti a tempo pieno, scelti tra professori universitari di prima o seconda fascia o tra ricercatori universitari, mantengono l’anzianità di servizio già maturata.
Ai fini della determinazione del trattamento economico dei docenti a tempo pieno, scelti tra dirigenti di amministrazioni pubbliche, magistrati ordinari, amministrativi e contabili, avvocati dello Stato e consiglieri parlamentari, e dei docenti a tempo indeterminato, i periodi di servizio prestato nelle suddette qualifiche vengono computati come anzianità di servizio nel ruolo dei professori universitari di prima o di seconda fascia a tempo pieno, in coerenza con i criteri di determinazione del trattamento economico previsti dall’articolo 2, applicando le disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica n. 232 del 2011 e successive modificazioni.
Ai fini del comma 2, in applicazione delle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica n. 232 del 2011 e successive modificazioni, la progressione per classi e scatti è biennale fino alla data di entrata in vigore della legge n. 240 del 2010, e triennale a decorrere dall’entrata in vigore della predetta legge.
Ai fini del computo dell’anzianità, i periodi di servizio presso la Scuola dei docenti a tempo pieno, dei docenti a tempo indeterminato e dei ricercatori a tempo indeterminato vengono valutati in applicazione della disciplina generale relativa ai professori e ai ricercatori universitari.”
15.6. La Sezione, con la sentenza parziale e non definitiva n. -OMISSIS- di rimessione alla Corte costituzionale, ha già stabilito, con statuizione passata in cosa giudicata, che l’entrata in vigore degli artt. 11, co. 1, lett. d) l. n. 124/2015 e 1, co. 657, l. n. 216/2015 non ha fatto venire meno il potere regolamentare già attribuito al Governo dall’art. 21, comma 4, d.l. n. 90/2014, riformando, per l’effetto, la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva accolto il primo motivo di ricorso, ossia quello incentrato sulla pretesa illegittimità del regolamento per carenza di potestà regolamentare.
La Sezione ha stabilito inoltre, con statuizione anch’essa passata in cosa giudicata, che il regolamento impugnato ha natura meramente applicativa di prescrizioni contenute nella norma di rango primario, dubitando di poi della legittimità costituzionale della legge di delega in parola.
Più in particolare, la Sezione rimettente ha ritenuto che la norma primaria avesse introdotto il principio dell’allineamento tra stato giuridico e stato economico e quello dell’equiparazione dei docenti ex SSEF ai professori di prima fascia a tempo pieno, nell’ottica prospettica della omogeneizzazione del trattamento, limitandosi – il regolamento impugnato – ad attuare le previsioni per i soggetti interessati.
L’atto di promovimento alla Corte, in altre parole, è stato incentrato sul cardine secondo cui le previsioni regolamentari costituiscono “coerente applicazione della norma primaria”, mentre le eventuali disparità di trattamento tra i docenti appartenenti alle varie scuole e con provenienza diversa, hanno rappresentato motivo di rimessione al Giudice delle Leggi quanto alla possibile (il)legittimità costituzionale della norma primaria, senza costituire – dunque – un vizio di (il)legittimità del d.P.C.M..
Va sottolineato, a questo proposito, che il Consiglio di Stato ha potuto sollevare, tecnicamente, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 21, comma 4, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, in riferimento agli artt. 3, 36, 38, 51 e 97 della Costituzione, proprio perché, a monte, ha smentito la tesi del contrasto tra il regolamento e la legge, riformando in parte qua la sentenza di primo grado e statuendo immediatamente circa la assoluta conformità del contenuto regolamentare a quello di rango primario.
Laddove, cioè, il regolamento fosse stato esso ritenuto illegittimo per non conformità a legge non si sarebbe potuto procedere, da parte di questa Sezione, alla rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale della norma primaria, essendo in tal caso sufficiente l’annullamento dell’atto (e, dunque, il rigetto del motivo di appello).
Si intende, in sostanza, affermare che ogni qualvolta si discute della legittimità di una disposizione regolamentare e questa, invece, è esclusa (in quanto il giudice ne accerta la perfetta coerenza alla norma primaria) ed è invece la norma primaria in sospetto di illegittimità costituzionale, l’accesso al giudizio della Corte costituzionale presuppone sempre un giudizio di reiezione del motivo di impugnazione dell’atto (regolamentare) con il quale si deduce l’illegittimità di quest’ultimo per violazione di legge.
Il dubbio di legittimità costituzionale ha investito in via diretta, pertanto, la norma primaria, di cui quella regolamentare ha costituito la mera applicazione pratica, a sua volta seguita dai singoli atti concreti di diffida dal cessare dalla situazione di incompatibilità e di recupero delle differenze retributive.
Nel caso che ci occupa, inoltre, diversamente da quanto è accaduto per casi giudiziari analoghi, anch’essi comunque pervenuti al giudizio incidentale di costituzionalità, le statuizioni in parola sono anche formalmente contenute in un provvedimento giurisdizionale avente natura di sentenza, sicché non vi è dubbio che sulle stesse sia ormai calato il giudicato, senza necessità di applicare il principio cd. funzionalistico della prevalenza della sostanza sulla forma.
15.6. Da queste premesse, possono trarsi le seguenti conclusioni.
Nel caso all’esame non sono in discussione i principi generali – consolidati e condivisi appieno dalla Sezione – che regolano la fattispecie dell’estensione ultra partes degli effetti del giudicato. L’estensione in parola, infatti, come già sopra precisato, dipende da una pluralità, spesso concorrente, di fattori, fra i quali rilevano la natura dell’atto annullato, il vizio dedotto e il tipo di effetto prodotto dal giudicato della cui estensione si discute.
A prescindere dalla circostanza – sulla quale pure si interrogano le parti – se il d.P.C.M. impugnato rappresenti o meno un regolamento, la Sezione osserva che la natura regolamentare dell’atto impugnato non è sempre dirimente, o perlomeno non lo è nei casi – come quello di specie – in cui la fattispecie concreta rinviene la propria disciplina direttamente nella fonte di rango primario, rispetto alla quale quella di rango regolamentare è non soltanto subordinata, ma meramente introduttiva di disposizioni applicative ed esecutive.
In altre parole, il sillogismo che poggia sulla natura generale ed astratta dell’atto impugnato, onde dedurne – di necessità – l’estensione ultra partes ed erga omnes degli effetti del giudicato, trova un ostacolo insuperabile ogni qual volta la norma regolamentare impugnata, sulla cui base sono stati emanati gli atti applicativi a valle (nel caso di specie, si tratta delle diffide a cessare dalle incompatibilità e delle note di rideterminazione del trattamento retributivo, impugnate coi motivi aggiunti), è essa stessa applicativa e meramente riproduttiva di disposizioni di rango primario, le quali contengono già in sé la disciplina del caso concreto.
A prescindere dalla efficacia (o meno) del regolamento impugnato, pertanto, la fonte che disciplina il rapporto sostanziale tra l’interessato e la SNA, è la legge primaria.
È sostanzialmente irrilevante che l’invocato giudicato del Tar si sia eventualmente formato in data anteriore rispetto all’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale (-OMISSIS-).
Si è già detto, a questo proposito, che il giudizio di costituzionalità ha riguardato la norma di rango primario (non potendo, naturaliter, avere ad oggetto la norma di rango regolamentare) e, al suo esito, è rimasta accertata la compatibilità costituzionale della norma rispetto ai parametri costituzionali che rappresentavano, a loro volta, la sintesi dei residui motivi di ricorso (introduttivo e di motivi aggiunti) avverso gli atti impugnati.
Ciò significa che, essendo oramai acclarata la natura meramente applicativa della norma regolamentare rispetto alla norma primaria, il rapporto è suscettibile di essere disciplinato anche sulla base delle sole disposizioni legislative, fermo quanto di seguito si esporrà in relazione al contenuto e ai limiti del giudicato di annullamento contenuto nella sentenza del Tar del Lazio n. -OMISSIS-.
15.7. Anche a prescindere da queste dirimenti considerazioni, e cioè che il rapporto sostanziale sottostante tra i docenti ex SSEF e la SNA trova una puntuale disciplina nella legge, la Sezione ritiene comunque che il d.P.C.M. impugnato, nonostante la sua formale natura regolamentare (in ragione dello specifico procedimento seguito per la sua adozione) presenta effettivamente un contenuto molto particolare, che lo avvicina – sul piano sostanziale – all’atto provvedimentale plurimo, l’atto cioè privo dei caratteri – tipici delle fonti del diritto – della generalità, della astrattezza e della innovatività .
L’atto in questione è, infatti, interamente pre-definito sia sotto l’aspetto soggettivo (perché si indirizza ad una categoria di destinatari già individuati); sia sotto l’aspetto oggettivo (perché attua le previsioni di rango primario senza innovare autonomamente all’ordinamento giuridico e in assenza dell’astratta ripetibilità nel tempo, trattandosi di una categoria di destinatari cd. ad esaurimento).
Ciò implica che, malgrado la formale veste regolamentare, l’atto in parola presenta un contenuto unitario suscettibile di scomporsi in plurimi contenuti, tanti quanti sono i destinatari ex ante individuabili (rectius, individuati), con la conseguente autonomia delle singole previsioni in relazione ad ogni singolo destinatario.
15.8. In punto di fatto, la Sezione ritiene di svolgere qualche riflessione – nei limiti argomentativi utili al presente giudizio e in quanto a ciò sollecitata dall’allegazione di parte – anche in ordine al contenuto dell’effetto demolitorio contenuto nella sentenza n. -OMISSIS- del Tar del Lazio.
Questa sentenza ha limitato l’annullamento del d.P.C.M. in senso soggettivo (ha espressamente statuito in ordine alla sola posizione del ricorrente, nei limiti del suo interesse) e in senso oggettivo (ha annullato le sole disposizioni regolamentari impugnate, nei limiti dei motivi di ricorso articolati).
Ha annullato, invece, le diffide e gli atti di rideterminazione del trattamento economico, per mera illegittimità derivata.
Così, testualmente, il dispositivo della menzionata sentenza n. -OMISSIS-: “li accoglie (n. d.r. il ricorso introduttivo e i motivi aggiunti) e, per l’effetto, annulla nei sensi di cui in motivazione il d.p.c.m. 25.11.2015, n. 202, nella parte impugnata nell’interesse del ricorrente, nonché i collegati provvedimenti impugnati con i motivi aggiunti”.
La sentenza del Tar non ha naturalmente riguardato la norma di rango primario, attesa la natura accentrata del controllo di costituzionalità .
Ciò implica che, ammesso e non concesso che l’estensione del giudicato possa riguardare la caducazione del d.P.C.M. n. 202/2015 (conclusione, questa, che è da escludere, ad avviso della Sezione, per le considerazioni sopra illustrate), di certo non può riguardare gli ulteriori effetti prodotti dal giudicato amministrativo in ordine ai singoli atti applicativi.
Come ricordato dalle menzionate Adunanze plenarie n. 4 e 5 del 2019, tali effetti si compendiano nell’accertamento della pretesa sostanziale sottostante e nella particolare conformazione del rapporto attraverso i singoli atti applicativi.
In altre parole, dall’annullamento del d.P.C.M. non potrebbe comunque derivare il travolgimento degli atti applicativi con i quali la SNA ha determinato il trattamento economico dei docenti, siccome adottati in coerente conformità rispetto alle previsioni contenute nell’art. 21, comma 4, D.L. n. 90/2014, conv. in L. n. 114/2014.
Come correttamente evidenziato dalla Avvocatura erariale, la Corte costituzionale con la sentenza n. -OMISSIS-, nel dichiarare inconferente l’evocazione di una lesione dell’art. 36 Cost. prospettata in relazione al fatto che ai docenti ex SSEF è attribuito il trattamento economico dei docenti universitari di prima fascia a tempo pieno, ha ritenuto “… agevole osservare che quella censurata è scelta non irragionevole, innanzitutto perché volta a realizzare l’omogeneità di trattamento interna ai docenti della SNA, che è tra i dichiarati obbiettivi del legislatore. Da tale punto di vista, non può dirsi – come pure fanno alcune delle parti private costituite in giudizio – che la scelta di un simile, specifico, trattamento economico non rispetti la lettera dell’art. 21, comma 4, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, che richiede appunto “omogeneità ” tra il trattamento economico da attribuirsi ai docenti ex SSEF e quello spettante a tutti gli altri docenti della SNA.
Se infatti è vero che il criterio dell’omogeneità non impone di per sé che il trattamento economico sia determinato in un ammontare esattamente corrispondente a quello percepito dai professori universitari, è altrettanto vero che neppure esclude una tale esatta corrispondenza”.
L’immediata conclusione logica è l’esclusione della possibilità di ravvisare un effetto caducante erga omnes con riferimento agli (ulteriori e diversi e personali) effetti conformativi e ordinatori sul trattamento economico spettante al docente ex SSEF.
Si tratta, in questo caso, di atti necessariamente uti singuli, e cioè di atti che riguardano le singole posizioni giuridiche degli interessati, sia con riferimento alle diffide dal continuare ad intrattenere rapporti lavorativi incompatibili con le nuove previsioni, sia con riferimento alla rideterminazione del trattamento economico.
Da qui la perdurante sussistenza dell’interesse a coltivare il gravame da parte delle Amministrazioni appellanti.
16. In relazione al merito dell’appello, la Sezione evidenzia che, con la sentenza parziale e non definitiva n. -OMISSIS-, sono stati riformati i capi della sentenza impugnata sui quali il giudice di primo grado aveva incentrato l’accoglimento del ricorso introduttivo e dei motivi aggiunti, ovverossia che:
a) il regolamento fosse viziato da carenza di potere per l’entrata in vigore della legge di delegazione successivamente intervenuta in materia;
b) anche a prescindere da ciò, il regolamento fosse viziato da eccesso di delega rispetto alla fonte di rango primario in relazione alla disciplina del trattamento giuridico;
c) il regolamento disciplinasse illegittimamente il trattamento economico, secondo parametri e criteri non previsti dalla legge.
In altre parole, è stato definitivamente appurato, con statuizioni passate in cosa giudicata, che il regolamento è stato delegato dalla legge anche per disciplinare il trattamento giuridico dei docenti, oltre a quello economico; e, inoltre, che in relazione a quest’ultimo, e cioè il trattamento economico, il regolamento costituisce coerente applicazione della fonte primaria.
17. Il Collegio ricorda, inoltre, che la Corte costituzionale – nel respingere le preliminari eccezioni di inammissibilità inerenti, la prima, all’asserito mancato esperimento, da parte del giudice a quo, del tentativo di un’interpretazione costituzionalmente conforme della disposizione censurata e, la seconda, alla richiesta di un avallo su di una particolare interpretazione dell’art. 21, comma 4, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito – ha incentrato la motivazione su tre argomentazioni puntuali, e cioè che:
– il Consiglio di Stato ha espressamente escluso che la norma regolamentare “”debordi” dai limiti ad essa imposta”;
– “in tutte le ordinanze di rimessione il giudice a quo ha consapevolmente reputato che il tenore di tale disposizione imponga una particolare interpretazione, escludendone altre, eventualmente idonee a neutralizzare i vizi di legittimità costituzionale derivanti dalla prima”;
– “Le ordinanze di rimessione assumono con piena convinzione la circostanza che quella prospettata, “secondo i normali canoni ermeneutici”, sia l’unica esegesi corretta della disposizione”.
18. A questo proposito, si riporta ampio e testuale stralcio del punto 3 della premessa in fatto della sentenza della Corte, perché bene compendia i sei ordini di motivazioni enucleati dal giudice remittente.
“In primo luogo, la disposizione censurata confliggerebbe con gli artt. 3 e 51 Cost., poiché nell’applicare ai docenti della ex SSEF lo stato giuridico dei professori e dei ricercatori universitari, non terrebbe conto “né della diversificazione delle provenienze dei medesimi (dirigenti di amministrazioni pubbliche, magistrati ordinari, amministrativi e contabili, avvocati dello stato e consiglieri parlamentari), conservate pur in costanza del rapporto con la SSEF, né della differenza di status originario esistente tra tali docenti e quelli delle altre Scuole confluite nella SNA e della stessa SNA”. Sarebbe dunque violato il principio di ragionevolezza in quanto la previsione impugnata, prevedendo “un “trattamento eguale” (nel senso di standardizzato) sul piano giuridico” per situazioni tra loro diverse, determinerebbe “un “accesso” (nel senso di nuova e diversa configurazione del rapporto di impiego) agli uffici pubblici non in condizioni di uguaglianza”.
In secondo luogo, l’art. 21, comma 4, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, violerebbe sempre gli artt. 3 e 51 Cost., ma sotto un diverso profilo: la disposizione infatti, pur attribuendo al docente ex SSEF il trattamento economico del professore a tempo pieno e pur qualificando anche “lo status giuridico in senso corrispondente, ivi compreso il regime delle incompatibilità “, non prevedrebbe il diritto di opzione per il regime a tempo definito. Con la conseguenza che i docenti ex SSEF, pur equiparati al professore universitario, costituirebbero “l’unico esempio di tale categoria al quale non è riconosciuta la possibilità di scelta tra tempo pieno e tempo definito”.
In terzo luogo, la disposizione censurata contrasterebbe con gli artt. 3 e 36 Cost., poiché, nell’attribuire ai docenti provenienti dalla SSEF “il trattamento economico spettante, rispettivamente, ai professori o ai ricercatori universitari a tempo pieno con corrispondente anzianità “, determinerebbe, in modo irragionevole e “con violazione del legittimo affidamento nella certezza delle situazioni giuridiche, una compressione e/o livellamento dei trattamenti economici da corrispondersi in futuro”. Una simile “reformatio in peius”, che non stabilisce neppure “meccanismi di progressiva omogeneizzazione”, non terrebbe inoltre in alcuna considerazione i diversi trattamenti economici precedentemente in godimento e appiattirebbe, in modo irragionevole e ingiustificato, tutte le retribuzioni.
In quarto luogo, l’art. 21, comma 4, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, violerebbe gli artt. 3,36 e 38 Cost., nella misura in cui non prevedrebbe “che a docenti aventi qualifiche e provenienze diverse nell’ambito del più generale rapporto di lavoro con le Pubbliche Amministrazioni, sia conservato il trattamento previdenziale attualmente previsto (o comunque questo venga autonomamente considerato e valutato)” e che dunque a costoro venga applicato il trattamento previdenziale del regime universitario.
Ancora, la disposizione impugnata violerebbe poi gli artt. 3 e 97 Cost., in quanto, omettendo di considerare la diversità dei ruoli di provenienza dei docenti della ex SSEF, determinerebbe la “violazione dei principi di imparzialità e buon andamento da parte della Pubblica Amministrazione, nei confronti di soggetti ad essa legati da rapporto di impiego”.
Infine, in sesto luogo, la disposizione censurata contrasterebbe con gli artt. 3, 36, 38, 51 e 97 Cost., “per non essere stata prevista una “norma transitoria””, che consenta ai docenti della ex SSEF “una possibilità di scelta, non immediata ma anche temporalmente definita”, tra il rientro nei ruoli di originaria provenienza ovvero la permanenza “nel (modificato) status di docente presso la SNA”.
19. Si illustrano, infine, le motivazioni poste dalla Corte costituzionale a sostegno della sentenza n. -OMISSIS-.
In primo luogo, la Corte ha escluso che l’art. 21, comma 4, d.l. cit., nell’applicare a tutti i docenti del ruolo ad esaurimento della SSEF lo stato giuridico dei professori e dei ricercatori universitari viola gli artt. 3 e 51 Cost..
Più in particolare, ha escluso che il legislatore statale non abbia tenuto conto “della diversificazione delle provenienze” dei docenti in questione (dirigenti di amministrazioni pubbliche, magistrati ordinari, amministrativi e contabili, avvocati dello Stato e consiglieri parlamentari) e del regime di conservazione delle stesse.
Ha inoltre escluso che il legislatore non abbia considerato la differenza di status originario esistente tra tali docenti e quelli delle altre scuole confluite nella SNA, ovvero la diversità delle categorie dei docenti già esistenti all’interno della SNA.
Ciò in quanto:
a) i docenti in questione, mediante l’esercizio del diritto di opzione previsto dal d.m. n. 359 del 2000, hanno abbandonato le amministrazioni di provenienza, accettando di essere inquadrati nel ruolo dei “professori incaricati non temporanei” della SSEF, istituito dal d.m. n. 301 del 2000 (artt. 3, comma 3, e 5, comma 5), a seguito delle modifiche ad esso apportate dal d.m. n. 359 del 2000.
b) Le discipline di favore recate da taluni decreti ministeriali (in particolare, dal d.m. n. 80 del 2002) i quali, oltre al diritto a mantenere il trattamento economico dell’Amministrazione che si era lasciata, attribuivano anche quello di vedersi garantite le procedure di avanzamento in carriera in quelle stesse Amministrazioni, non fondano la pretesa giuridica a che, ad ogni successiva trasformazione della condizione di quei docenti e dell’organizzazione della SSEF, il legislatore debba necessariamente tener conto, a pena d’illegittimità costituzionale, di ogni trascorsa peculiarità dello status giuridico di quei soggetti.
c) Il diritto di opzione per il rientro nelle amministrazioni di provenienza è stato previsto dal legislatore (art. 4-septies del d.l. n. 97 del 2008, come convertito, in occasione della creazione dell’apposito ruolo ad esaurimento per i professori della SSEF inquadrati nella Scuola ai sensi dell’art. 5, comma 5, del d.m. n. 301 del 2000), ma a quanto risulta non è stato esercitato dal ricorrente.
d) L’esercizio della prima possibilità di opzione (per ottenere l’inquadramento nella SSEF) e il mancato esercizio della seconda (in vista del rientro nelle amministrazioni di provenienza), danno ampiamente conto delle ragioni per cui il legislatore ha unitariamente considerato i docenti del ruolo ad esaurimento della SSEF, in quanto tali e a prescindere dalle appartenenze originarie, perché non soltanto ormai lontane nel tempo, ma anche rescisse per scelta volontaria e non ricostituite quando la disciplina normativa ne ha fornito occasione.
e) La ratio iuris della disposizione censurata richiede il superamento delle varie distinzioni di status presenti tra i docenti delle diverse scuole di formazione (e tra gli stessi docenti della medesima scuola), esigendo, a conclusione del complessivo riassetto, una ragionevole omogeneizzazione tra le posizioni giuridiche di tutti i docenti confluiti nella SNA.
In secondo luogo, la Corte ha escluso che la disposizione censurata non avrebbe previsto, per i soli docenti della ex SSEF, il diritto di opzione tra il regime a tempo pieno e quello a tempo definito.
Ciò in quanto:
f) la disposizione censurata, nella parte in cui stabilisce l’applicazione, ai docenti ex SSEF, dello stato giuridico dei professori o dei ricercatori universitari, non deve essere intesa nel senso che è istituito un canale d’accesso del tutto peculiare ai ruoli della docenza universitaria, bensì – al contrario – nel senso che il richiamo a quello status è servente rispetto all’obiettivo di rideterminare il trattamento economico di quei docenti, attribuendosi loro la retribuzione dei professori di prima fascia a tempo pieno, in modo da renderlo “omogeneo” a quello degli altri docenti della SNA.
g) Altre previsioni hanno variamente introdotto fattispecie di incompatibilità con le attività libero professionali per i docenti stabilmente incaricati di attività di insegnamento nella SSEF (l’art. 9 del d.P.R n. 336 del 1992 richiamava il regime d’impegno a tempo pieno dei professori universitari di cui all’art. 11 del d.P.R. n. 382 del 1980 e s.m.i.; l’art. 7 del d.m. n. 301 del 2000, nella sua versione originaria, conteneva una netta previsione in tema di incompatibilità, statuendo che “i professori incaricati non temporaneamente e collocati fuori ruolo, comando o aspettativa, non possono svolgere, pena la cessazione immediata dell’incarico, attività libero professionale, in via diretta o indiretta”, mentre veniva subordinata alla valutazione del rettore la compatibilità con l’insegnamento nella Scuola dello svolgimento di “altri incarichi”; con le modifiche recate dal d.m. n. 80 del 2002 veniva prevista la acquisizione “ad ogni effetto” dello stato giuridico e delle funzioni dei “professori ordinari”, con il beneficio di una sostanziale attenuazione del regime delle incompatibilità, poiché l’attività professionale risulta in generale consentita, tranne che nel settore fiscale e nelle materie afferenti alla vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato mobiliare; più in generale, nell’ambito del lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione, vige il principio generale di esclusività del rapporto di impiego, quale desumibile dalla disciplina dettata dall’art. 53 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, che rinviene anche un fondamento costituzionale nell’art. 98 Cost.).
h) La scelta legislativa di riferirsi alla retribuzione dei professori universitari di prima fascia a tempo pieno per determinare il trattamento economico dei docenti della SNA (e perciò anche dei docenti ex SSEF) è il risultato di un equilibrato contemperamento di interessi, oltre che il più vantaggioso tra quelli possibili una volta operata la unificazione delle varie scuole nella SNA, tramite il riferimento a quella che – nell’ambito della docenza universitaria – risulta la più elevata qualifica possibile a fini retributivi.
i) La scelta contraria, ossia consentire solo ai docenti ex SSEF lo svolgimento dell’attività libero-professionale, è suscettibile di arrecare un vulnus alle esigenze organizzative della SNA e anche alla parità di trattamento tra tutti i docenti in servizio nella stessa SNA (ad avviso della Corte, “Il ragionamento dei giudici rimettenti va in definitiva rovesciato: se i docenti ex SSEF trasferiti alla SNA, oltre a godere dello stipendio dei professori universitari di prima fascia a tempo pieno, potessero anche svolgere attività libero-professionale – attraverso l’esercizio del diritto di opzione del quale le ordinanze di rimessione lamentano l’assenza – essi allora costituirebbero realmente, senza alcuna giustificazione plausibile, una categoria del tutto a sé stante nell’ambito dell’impiego alle dipendenze della pubblica amministrazione”).
In terzo luogo, la Corte ha escluso che l’attribuzione del trattamento economico spettante ai professori o ai ricercatori universitari a tempo pieno con corrispondente anzianità, determini la violazione del legittimo affidamento nella certezza delle situazioni giuridiche; il livellamento verso il basso del trattamento economico; l’assenza di meccanismi di progressiva omogeneizzazione che tengano conto delle retribuzioni già percepite.
l) La contestazione, ai sensi dell’art. 36 Cost., dell’attribuzione del trattamento economico dei docenti universitari di prima fascia a tempo pieno proietta, senza argomentazioni a supporto, dubbi di legittimità costituzionale sulla stessa congruità della retribuzione di tutti i docenti universitari.
m) La scelta dello specifico trattamento economico da applicare è ragionevole e giustificata dall’interesse pubblico primario alla “omogeneità ” della posizione giuridica tra i docenti ex SSEF e tutti gli altri docenti della SNA.
n) Il criterio dell’omogeneità non esclude che il trattamento economico sia determinato in un ammontare esattamente corrispondente a quello percepito dai professori universitari.
o) La norma censurata non ha operato interventi di carattere retroattivo in senso proprio sulle retribuzioni. Ha realizzato invece un intervento normativo incidente sulla retribuzione corrente dei docenti ex SSEF, cioè su un rapporto di durata.
p) La tutela dell’affidamento e della certezza giuridica e il principio dell’irriducibilità della retribuzione non si sottraggono al normale bilanciamento proprio di tutti i principi e diritti costituzionali, nei limiti in cui le disposizioni che modificano in senso sfavorevole per i destinatari la disciplina di rapporti di durata, non trasmodino in un regolamento irrazionale. Nel caso all’esame, la riduzione della retribuzione originaria è sorretta dall’adeguata e ragionevole giustificazione di non creare sperequazioni retributive tra i docenti della SNA, a parità di funzioni esercitate.
In quarto luogo, la Corte ha escluso la possibilità di censurare la norma per non avere previsto una disciplina transitoria che consentisse ai docenti, in occasione della soppressione della SSEF, di scegliere tra il rientro nei ruoli di originaria provenienza e la permanenza nel’modificatò status di docente presso la SNA.
q) Nell’ambito delle scelte discrezionali del legislatore, va escluso che debba ritenersi costituzionalmente necessaria la previsione di una disciplina transitoria – che concretamente potrebbe assumere i più vari contenuti – in favore di soggetti che, ormai da tempo, hanno assunto la sola stabile condizione di docenti inquadrati nel ruolo ad esaurimento della SSEF.
La Corte ha dichiarato inammissibile, invece, la censura che lamentava la violazione, da parte dell’art. 21, comma 4, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, degli artt. 3, 36 e 38 Cost., sotto il profilo che la disposizione in questione non prevedrebbe, in riferimento a “docenti aventi qualifiche e provenienze diverse nell’ambito del più generale rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni”, che sia loro conservato il trattamento previdenziale attualmente previsto (o, comunque, che questo venga autonomamente considerato e valutato), consentendo invece, attraverso il richiamo allo status giuridico ed economico del professore universitario, l’applicazione “agli stessi” del trattamento previdenziale di quest’ultimo.
20. Alla luce delle illustrate motivazioni, che il Collegio condivide, l’appello va accolto, mentre vanno respinti i corrispondenti motivi di ricorso introduttivo e di motivi aggiunti, non ravvisandosi i prospettati profili di illegittimità del regolamento e degli atti applicativi emanati a valle della sua esecuzione.
21. La questione di legittimità costituzionale articolata con il quinto motivo di ricorso introduttivo non è stata espressamente riproposta dalla parte appellata.
Ad ogni modo, il Collegio ritiene che non ci siano gli estremi per un rilievo officioso della medesima, non ricorrendo il presupposto della sua non manifesta infondatezza.
Più in particolare, si osserva che:
– l’art. 11, comma 1 lett. d) della legge 124/2015 ha espressamente previsto che il trattamento economico dei docenti della Scuola nazionale dell’amministrazione venga ridefinito in coerenza con le previsioni di cui all’articolo 21, comma 4, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114;
– l’art. 21, del d.l. n. 90/2014 convertito in legge n. 114/2014, ha affidato al d.P.C.M. la rideterminazione del trattamento economico, sia dei professori a tempo indeterminato provenienti dalla ex SSEF, sia degli altri docenti della SNA;
– i decreti legislativi attuativi previsti dalla legge delega del 2015 non sono stati emanati;
– solo con l’entrata in vigore dei decreti in parola sarebbe stata abrogata la previgente disciplina, a seguito della nuova regolamentazione della materia.
– l’art. 1, comma 657, della legge n. 208/2015 (legge di stabilità 2016) ha previsto che, fino alla data di entrata in vigore dei decreti cit., rimanesse fermo quanto previsto dall’art. 21, d.l. n. 90/2014 e che “l’adeguamento dei trattamenti economici ivi previsto ha comunque effetto a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge”, e cioè dal 1° gennaio 2016.
Da ciò discende che l’art. 11, comma 1, lett. d) della l. 124/15 non contiene – come invece viene prospettato da parte dei ricorrenti – una “non consentita norma di interpretazione autentica”.
Nell’indicare i criteri e le direttive al Governo, è stato stabilito, tra l’altro, la “…ridefinizione del trattamento economico dei docenti della Scuola nazionale dell’amministrazione in coerenza con le previsioni di cui all’articolo 21, comma 4, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, ferma restando l’abrogazione dell’articolo 10, comma 2, del decreto legislativo 1º dicembre 2009, n. 178, senza incremento dei trattamenti economici in godimento e comunque senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”.
La disposizione è, sul punto, meramente ricognitiva, e ha lo scopo di puntualizzare che, nella ridefinizione del trattamento in parola, quando la delega sarà attuata, deve esserci coerenza con le previsioni di cui all’articolo 21, comma 4, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, e non si potrà più “tornare indietro”, ad una disciplina, cioè, che – come quella prevista dall’art. 10, comma 2, del decreto legislativo 1º dicembre 2009, n. 178 – è già stata abrogata.
22. La parte appellata non ha riproposto espressamente il sesto motivo, con cui si era dedotta “Illegittimità propria – Violazione del d.P.C.M. 202/2015 e dell’ivi richiamato d.P.R. n. 232/2011”.
Ad ogni modo, lo stesso sarebbe stato anche infondato nel merito, atteso che – come sopra meglio illustrato – va escluso che sussista un contrasto della legge (e del pedissequo regolamento) con i principi dell’invarianza del trattamento economico e delle progressioni economiche stipendiali, non automaticamente applicabili in materia e anzi esclusi dall’esegesi sistematica della legge delega.
Inoltre, con riferimento alla doglianza relativa al recupero delle somme al lordo anziché al netto delle ritenute, fin dal primo grado del giudizio la domanda non aveva circostanziato gli elementi di fatto in base ai quali inferire che il ricorrente non avesse comunque tratto un vantaggio fiscale dall’applicazione di quelle ritenute effettuate per legge dall’Amministrazione.
In altre parole, seppure è vero che in astratto, con riguardo al pagamento dell’indebito oggettivo, vale il principio del recupero di quanto è stato effettivamente percepito dall’interessato, è anche vero che, in concreto, va esclusa la possibilità che, sulla base di una domanda di restituzione generica, si consentano eventuali locupletazioni fiscali, visto che le imposte dovute allo Stato erano state originariamente calcolate sulle maggiori retribuzioni percepite.
Pertanto, la domanda sarebbe stata comunque da respingere per genericità .
23. La Sezione non ravvisa gli estremi per proporre d’ufficio un rinvio pregiudiziale interpretativo ai sensi dell’art. 267 del TFUE.
Più in particolare, la Sezione ritiene che la riforma della docenza ex SSEF, nel più ampio quadro prospettico della unificazione delle scuole, mediante la omogeneizzazione dello status giuridico ed economico del personale docente della SNA a parità di funzioni esercitate e dato per assodato il previgente inquadramento dei docenti nel ruolo ad esaurimento della SSEF, non viola alcuno dei principi generali del diritto europeo.
Per esigenze di economia processuale, la Sezione si riporta all’articolato (e condiviso) ragionamento logico giuridico seguito dal giudice costituzionale interno (con la menzionata sentenza n. -OMISSIS-) in tema di proporzionalità, ragionevolezza e necessità del mezzo rispetto al fine.
Le considerazioni ivi esposte possono essere argomentate anche rispetto alla fattispecie de qua, trattandosi di principi generali del diritto, comuni alle tradizioni costituzionali degli Stati membri.
Il Collegio fa riflettere inoltre sulla seguente ulteriore considerazione.
All’interno del consolidato indirizzo ermeneutico seguito dalla giurisprudenza europea, in questa come in altre materie rientranti nella sfera di rilevanza del diritto europeo, la Corte ha sempre ricercato il ragionevole equilibrio tra i principi fondamentali del diritto, mai facendo prevalere in assoluto un principio a discapito degli altri di pari rango.
Inoltre, i principi della certezza delle situazioni giuridiche e del legittimo affidamento sono stati oggetto di un particolare approfondimento in relazione alla tematica della disciplina degli effetti futuri delle situazioni sorte nei rapporti di durata.
A questo specifico proposito, va rammentato che la Corte ha espresso il convincimento secondo cui va ricercato “un costante adattamento in funzione dei mutamenti della situazione economica”. Da ciò discende che “Pur se il principio della tutela del legittimo affidamento rientra fra i principi fondamentali della comunità, ciò non toglie che la sfera d’applicazione di tale principio non può tuttavia essere estesa fino a rendere impossibile, in generale, che una nuova disciplina si applichi agli effetti futuri di situazioni sorte sotto l’impero della disciplina anteriore, senza assunzione di alcun obbligo nei confronti della pubblica amministrazione” (ex multis, Corte giustizia UE, 5 maggio 1981, n. 112).
Nel caso di specie, va fugato il dubbio – pure prospettato da parte ricorrente – che non si tratti di una regolamentazione in vista del futuro svolgimento del rapporto.
Ciò, per la semplice evidenza che ben prima della riforma qui in contestazione il personale docente della SSEF era transitato nel ruolo, sicché sarebbe sproporzionato esigere oggi di rimettere in discussione i rapporti già definiti, anziché definitivamente armonizzarli rendendoli omogenei a tutti gli altri, sia per ragioni di pari dignità delle funzioni svolte, sia per superiori e imperative esigenze di organizzazione della spesa pubblica.
Inoltre, tecnicamente, non si è nemmeno in presenza di una vera e propria norma retroattiva quando i rapporti giuridici sono di durata e la nuova disposizione modifica ex nunc gli effetti di un rapporto sorto nel previgente regime, a meno di non vincolare per il futuro e in senso assoluto il legislatore, al di fuori dei casi tipicamente previsti di fonti a forza passiva rinforzata.
24. Infine, la Sezione non ritiene sussistere i presupposti per la disapplicazione del regolamento impugnato, sia per effetto della sua accertata conformità a legge, sia in quanto, trattandosi di atto sostanzialmente provvedimentale rispetto alla posizione individuale e personale degli interessati, esso è conoscibile dal giudice amministrativo nei limiti del solo potere di annullamento.
25. In conclusione, l’appello va accolto e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, vanno respinti il ricorso introduttivo del giudizio e i motivi aggiunti.
26. Le spese del doppio grado del giudizio possono essere compensate per la novità e complessità delle questioni trattate, mentre il pagamento del contributo unificato del doppio grado resta a carico degli originari ricorrenti, ciascuno per la propria parte.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull’appello n. 2780/2017, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma dell’impugnata sentenza, respinge il ricorso introduttivo del giudizio e i motivi aggiunti.
Compensa le spese del doppio grado.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 luglio 2020, con l’intervento dei magistrati:
Oberdan Forlenza – Presidente FF
Daniela Di Carlo – Consigliere, Estensore
Francesco Gambato Spisani – Consigliere
Silvia Martino – Consigliere
Roberto Caponigro – Consigliere
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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