Consiglio di Stato, sezione terza, Sentenza 23 aprile 2019, n. 2620.
La massima estrapolata:
È legittima l’esclusione dalla competizione elettorale europea del 26 maggio 2019 di una lista elettorale che deposita all’interno del proprio contrassegno anche quello di un partito politico europeo «affiliato», senza autorizzazione da parte di quest’ultimo. Allo stesso modo non può essere ammesso nel contrassegno un simbolo che ormai identifica da anni per l’elettorato un’altra formazione politica.
Sentenza 23 aprile 2019, n. 2620
Data udienza 23 aprile 2019
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Terza
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 3408 del 2019, proposto da Ma. Be. e Ni. Tr., rappresentati e difesi dall’Avvocato Da. Mo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (…);
contro
Gi. Fr. Fa. ed altri, tutti rappresentati e difesi dall’Avvocato Gi. Ga., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (…);
nei confronti
Ministero dell’Interno, non costituito in giudizio;
Ufficio Elettorale Nazionale presso la Corte di Cassazione, non costituito in giudizio;
per la riforma
della sentenza n. 5085/2019 del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sez. II, resa tra le parti, concernente il ricorso d’appello, proposto ai sensi dell’art. 129, comma 8, c.p.a., contro la sentenza n. 5085 del 18 aprile 2019 del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, sul ricorso di registro generale n. 4514/2019, notificata il 18.04.2019, ore 16.30, con contestuale richiesta di sospensione e congelamento delle procedure elettorali preparatorie per le elezioni al Parlamento europeo in particolare delle date di deposito delle liste elettorali presso le 5 circoscrizioni elettorali previste.
visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
visti gli atti di costituzione in giudizio di Gi. Fr. Fa. ed altri;
visti tutti gli atti della causa;
relatore nella udienza pubblica speciale elettorale del giorno 23 aprile 2019 il Consigliere Massimiliano Noccelli e uditi per gli odierni appellanti, Ma. Be. e Ni. Tr., l’Avvocato Da. Mo. e per Gi. Ga.;
ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Gli odierni appellanti, Ma. Be. e Ni. Tr., rispettivamente nelle asserite qualità di depositante del contrassegno n. 5 Democrazia Cristiana per le elezioni europee 2019 e di segretario amministrativo e legale rappresentante della Democrazia Cristiana, hanno agito avverso la determinazione dell’Ufficio Elettorale Nazionale presso la Corte Suprema di Cassazione del 12 aprile 2019, che ha rigettato le opposizioni n. 2 e n. 3 /OPP/2019 presentate contro la decisione del Ministero dell’Interno del 10 aprile 2019, inerente all’ammissione alle suddette elezioni del contrassegno n. 5 della Democrazia Cristiana, e hanno impugnato tale determinazione avanti al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma.
1.1. Essi hanno chiesto al primo giudice – e richiedono, altresì, anche in questa sede di appello – di riconoscere il contrassegno n. 5 della Democrazia Cristiana, così come presentato, per la partecipazione alle elezioni del Parlamento europeo, che si terranno il 26 maggio 2019, e di vietare all’UDC l’utilizzo del contrassegno n. 20 con parti confondibili con quello n. 5 della Democrazia Cristiana e di permettere, altresì, l’utilizzo del contrassegno e della denominazione del PPE nel contrassegno n. 5 della Democrazia Cristiana.
1.2. Con il primo mezzo di gravame i ricorrenti in prime cure hanno lamentato che la determinazione gravata dell’Ufficio Elettorale Nazionale, nel recepire le osservazioni presentate dal Ministero dell’Interno in data 12 aprile 2019, nella parte in cui si afferma “che la Democrazia Cristiana dal 1993 in poi ha cessato la propria attività politica, non ha più avuto alcun rappresentante eletto in Parlamento e, quindi nessun gruppo politico può accreditarsi quale legittimo continuatore di quel partito, mancando proprio la dimostrazione storico giuridica della “continuità “”, violerebbe le statuizioni recate nella sentenza delle Sezioni Unite Corte di Cassazione n. 25999 del 2010, con la quale sono state confermate le sentenze della Corte d’Appello di Roma n. 1305 del 2009 e n. 19381/2006 del Tribunale di Roma.
1.3. In particolare, è stata dedotta la violazione dell’art. 14 del d.P.R. n. 361 del 1957, per come interpretato dal Ministero dell’Interno e dall’Ufficio Elettorale Nazionale, dovendosi escludere una tutela privilegiata in favore di un partito politico presente in Parlamento (nella specie UDC – Unione dei Democratici Cristiani e di Centro) che abbia tradizionalmente utilizzato un contrassegno in precedenza utilizzato da altro partito (segnatamente quello della Democrazia Cristiana costituito dallo scudo crociato con la scritta Libertas).
1.4. In altri termini, nelle prospettazioni dei ricorrenti in prime cure, il contrassegno dell’UDC non solo non potrebbe avere tutela, sebbene presente in Parlamento, perché il suo contrassegno è stato utilizzato in parte precedentemente, ma soprattutto perché inibito dall’uso di detto contrassegno con sentenza passata in giudicato.
1.5. Al riguardo avanti al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, e ancora in questa sede d’appello, i ricorrenti hanno sottolineato che l’esclusione del contrassegno n. 5 delle elezioni in questioni arreca alla Democrazia Cristiana, oltre ad un danno all’immagine anche un danno patrimoniale di considerevole consistenza, rilevante alla stregua delle previsioni dell’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU firmato a Parigi il 20.03.1952 e dell’art. 41 della CEDU, assumendo rilievo, sotto il profilo fattuale, le seguenti circostanze:
a) il partito politico dell’Unione dei Democratici Cristiani e dei Democratici Centro (UDC) è stato fondato in data 6 dicembre del 2002 e, dunque, successivamente alla nascita dello storico partito politico della Democrazia Cristiana, fondato a Roma nell’anno 1943 da Alcide De Gasperi;
b) il partito politico della Democrazia Cristiana non è mai stato sciolto, come riconosciuto dalla Corte di Cassazione, con sentenza n. 25999 del 23 dicembre 2010;
c) la nomina nel 2018 da parte del Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana delle strutture responsabili come da documentazione presentata in sede di deposito del contrassegno n. 5 presso il Ministero dell’Interno in data 7 aprile 2019 per le prossime consultazioni elettorali europee.
1.6. Ciò varrebbe ad escludere, ad avviso dei ricorrenti, in applicazione del sopra indicato art. 14 del d.P.R. n. 361 del 1957, correttamente interpretato, l’ammissibilità dell’utilizzazione da parte dell’UDC di un simbolo contenente segni grafici identificativi del partito della Democrazia Cristiana, risultando del tutto ininfluente, a tal fine, la circostanza che l’UDC abbia negli anni utilizzato detto simbolo.
1.7. I ricorrenti hanno, altresì, rappresentato di aver proceduto alla proposizione innanzi al Tribunale di Roma di un ricorso ex art. 700 c.p.c. affinché venga “inibito all’UDC l’utilizzo del simbolo e della denominazione in uso alla Democrazia Cristiana”.
1.8. Il secondo motivo di ricorso proposto in primo grado è incentrato sulla pretesa all’utilizzazione da parte del partito politico della Democrazia Cristiana nel contrassegno n. 5 del simbolo e della denominazione del PPE (Partito Popolare Europeo), non occorrendo, a tal fine, la dimostrazione di alcuna legittimazione, venendo in rilievo una affiliazione a detto partito, da intendere quale “forma di condivisione di valori, di etica, d’ideali e principi che non necessariamente richiede un’iscrizione formale”, e dovendosi, altresì, considerare che il partito della Democrazia Cristiana risulta fondatore del PPE nel 1976, ponendosi, quindi, quale “ispiratore dei principi fondamentali rappresentati e difesi dal PPE”.
1.9. Su tali basi, quindi, i ricorrenti in prime cure hanno sostenuto l’irrilevanza delle comunicazioni trasmesse dal PPE a mezzo mail al Ministero dell’Interno in quanto “ultronee ed irrituali”.
2. L’Ufficio Elettorale Nazionale non si è costituito nel primo grado del giudizio per resistere al gravame.
2.1. Si è costituito invece nel primo grado del giudizio, con atto di mera forma, il Ministero dell’Interno.
2.2. Si sono altresì costituiti nel primo grado del giudizio anche l’UDC – Unione dei Democratici Cristiani e di Centro, Gi. Fr. Fa., in qualità di depositante del contrassegno n. 20 “UDC – Unione di Centro” per le Elezioni europee 2019 e l’On. Lo. Ce., in qualità di segretario politico e soggetto legittimato alla gestione del simbolo e della denominazione dell’UDC, sollevando eccezioni preliminari di inammissibilità del ricorso e concludendo, comunque, per il rigetto del ricorso nel merito, in quanto infondato.
3. Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, con la sentenza n. 5085 del 18 aprile 2019, dopo avere disatteso le eccezioni preliminari sollevate dall’Avvocatura Generale dello Stato in sede di discussione orale e quelle proposte, altresì, dalla lista controinteressata, ha respinto nel merito il ricorso.
4. Avverso tale sentenza hanno proposto appello personalmente Ma. Be. e Ni. Tr., sempre nelle rispettive qualità sopra indicate, e nell’articolare due motivi di censura, che di seguito saranno esaminati, ne hanno chiesto la integrale riforma, con il conseguente accoglimento delle domande formulate in prime cure.
5. Si sono costituiti l’UDC – Unione dei Democratici Cristiani e di Centro, Gi. Fr. Fa., in qualità di depositante del contrassegno n. 20 “UDC – Unione di Centro” per le Elezioni europee 2019 e l’On. Lo. Ce., in qualità di segretario politico e soggetto legittimato alla gestione del simbolo e della denominazione dell’UDC, per chiedere la reiezione dell’appello.
5.1. Nell’udienza pubblica straordinaria del 23 aprile 2019 il Collegio, sentiti i difensori delle parti, ha trattenuto la causa in decisione.
6. L’appello deve essere respinto, prescindendosi, per il principio della ragione più liquida, dalle eccezioni preliminari in questa sede riproposte dai controinteressati nella memoria depositata in data odierna, eccezioni già respinte espressamente, del resto, dal primo giudice e non fatte oggetto di impugnativa incidentale.
7. Con il primo motivo (pp. 3-9 del ricorso), ciò premesso, gli odierni appellanti ripropongono con dovizia di argomentazioni, ma pressoché pedissequamente, le censure formulate nel ricorso di primo grado e assumono, nella sostanza, che la formazione politica da essi rappresentata sarebbe la legittima erede e continuatrice, secondo una linea di continuità storica e politica, della disciolta Democrazia Cristina, la cui attività politica non sarebbe affatto cessata nel 1993, e che l’UDC dal 2002 avrebbe illegittimamente usato il simbolo dello scudocrociato con la scritta Libertas della Democrazia Cristiana, uso ritenuto illegittimo dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite nella sentenza n. 25999 del 2010.
7.1. Si tratta di un assunto infondato perché, come ha correttamente rilevato la sentenza impugnata, nel presente giudizio si deve solo accertare se l’Ufficio Elettorale Nazionale presso la Corte di Cassazione abbia fatto corretta applicazione della normativa a rilevanza pubblicistica – art. 14, commi terzo quarto e sesto, del d.P.R. n. 361 del 1957 – volta a garantire una corretta e consapevole scelta dell’elettore, immune da sviamenti e confusioni, verso una determinata forza politica, con tutela, quindi, dell’affidamento identitario che l’elettore può ragionevolmente effettuare attraverso un riscontro, appunto, dei simboli nell’immagine socialmente nota di un partito.
7.2. Ebbene, tutto ciò considerando, l’art. 14, comma sesto, del d.P.R. n. 361 del 1957appresta una tutela privilegiata dal rischio di possibili confusioni ed errori in favore dei partiti presenti nel Parlamento nazionale ed europeo da molto tempo.
7.3. Nel caso di specie non vi è dubbio che tale partito sia l’UDC, come lo stesso Ufficio Elettorale Centrale Nazionale ha chiarito a più riprese (v. docc. 6, 8 e 9 fasc. controinteressati), e che non sia stata provata dagli odierni appellanti alcuna continuità storica e giuridica, come ha ben messo in rilievo lo stesso Ufficio Elettorale, tra la formazione politica, rappresentata dagli stessi odierni appellanti, e la “vecchia” DC, secondo quanto è pure emerso dalle numerose pronunce giurisdizionali depositate in atti, anche quelle prodotte dagli stessi appellanti, che in nessun modo sembrano suffragare questa linea di continuità tale da legittimarli ad invocare l’applicazione dell’art. 14, sopra citato, in proprio favore.
7.4. Gli odierni appellanti non possono dunque vantare alcun titolo di continuità storico-giuridica, rispetto all’antica DC, che li legittimi ad ottenere l’invocata applicazione dell’art. 14 del d.P.R. n. 361 del 1957, mentre, per converso, proprio le esigenze di tutela dell’elettorato, ad evitare confusioni nell’utilizzo di simboli anche solo in parte sovrapponibili, legittima l’utilizzo del simbolo da parte della sola formazione politica che, per anni, se ne è servita ed è stata rappresentata in sede parlamentare, nazionale ed europea, e cioè l’UDC, sulla base, peraltro, di numerosi provvedimenti confermati in sede giurisdizionale.
7.5. L’art. 14, comma terzo, del d.P.R. n. 361 del 1957, giova ricordarlo, vieta espressamente la presentazione, da parte di altri partiti o gruppi politici, di contrassegni riproducenti simboli o elementi caratterizzanti simboli che, per essere usati tradizionalmente da partiti presenti in Parlamento, possono trarre in errore l’elettore e il successivo comma terzo non ammette la presentazione, da parte di altri partiti o gruppi politici, di contrassegni riproducenti simboli o elementi caratterizzanti simboli che, per essere usati tradizionalmente da partiti presenti in Parlamento, possono trarre in errore l’elettore.
7.6. Nel caso di specie non vi è dubbio che la confusione tra i due contrassegni, che contengono al proprio interno lo scudo crociato con la scritta Libertas, è talmente evidente da non richiedere particolari spiegazioni, come ha ben messo in rilievo la sentenza impugnata, e ciò deve essere evitato e vietato in favore della sola formazione politica (l’UDC), tradizionalmente rappresentata nel Parlamento nazionale ed europeo, che se ne serve ormai da anni, ad evitare confusione per gli elettori.
7.7. Le contrarie argomentazioni degli appellanti, dunque, non sono idonee ad infirmare le motivazioni della sentenza impugnata, che dunque va immune da censura per avere ritenuto, con motivazione sufficiente e completa, che fosse legittimo il divieto di utilizzare il simbolo dello scudocrociato nei confronti della formazione politica rappresentata dagli odierni appellanti.
8. Anche il secondo motivo di appello (pp. 10-11 del ricorso), relativo al divieto di utilizzo del simbolo e della denominazione del PPE (Partito Popolare Europeo) nel contrassegno n. 5, deve essere respinto.
8.1. Sul punto si deve premettere, infatti, che con la decisione (UE, Euratom) 2018/994 del Consiglio del 13 luglio 2018 è stato modificato l’atto relativo all’elezione dei membri del Parlamento europeo a suffragio universale diretto, allegato alla decisione 76/787/CECA, CEE, Euratom del Consiglio del 20 settembre 1976, inserendovi l’articolo 3-ter, che prevede testualmente: “Gli Stati membri possono consentire l’apposizione, sulle schede elettorali, del nome o del del partito politico europeo al quale è affiliato il partito politico nazionale o il singolo candidato”.
8.2. I partiti o gruppi politici, pertanto, possono inserire, nel contrassegno che intendono presentare, simboli e/o denominazioni di partiti europei, fornendo la relativa documentazione sulla legittimità all’uso.
8.3. Invero il partito nazionale, che depositerà, all’interno del proprio contrassegno, anche quello (e/o la denominazione) di un partito politico europeo “affiliato”, dovrà produrre l’attestazione/dichiarazione del presidente, segretario o altro rappresentante legale del partito europeo di riferimento, che affermi l’esistenza di un “collegamento” (o affiliazione/associazione) con detto partito nazionale, e la conseguente legittimazione all’utilizzo del simbolo e/o della denominazione del partito o gruppo politico europeo all’interno del contrassegno che il medesimo partito nazionale deposita al Ministero dell’Interno.
8.4. Tale attestazione o dichiarazione dovrà essere autenticata da uno dei soggetti di cui all’art. 14 della legge n. 53 del 1990 o da un’autorità diplomatica o consolare italiana.
8.5. L’utilizzo del simbolo del PPE non risulta, invece, essere stato oggetto di alcun atto di assenso o di “affiliazione” o, comunque, di collegamento, nei sensi precisati, da parte dello stesso PPE, che ha riconosciuto la possibilità di usare il simbolo del PPE solo a sei formazioni politiche (Forza Italia, Sü dtiroler Volkspartei, Popolari per l’Italia, Alternativa Popolare, Partito Autonomista Trentino Tirolese ed UDC), ma non alla formazione politica rappresentata dagli odierni appellanti, avendo anzi il PPE espressamente negato l’uso del proprio simbolo a formazioni politiche diverse da quelle indicate.
8.6. Come ha bene osservato la sentenza impugnata, dunque, si deve escludere che la mera dichiarazione unilaterale di affiliazione, da parte della formazione politica nazionale, possa considerarsi idonea a fondare una pretesa di utilizzo, secondo quanto gli odierni appellanti hanno sostenuto, perché, a tacer d’altro, una simile tesi, che gli odierni appellanti hanno propugnato in questa sede, oltre ad essere contraria al quadro del diritto europeo, sopra ricordato, trascura di considerare la doverosa tutela del corpo elettorale, suscettibile di essere tratto in inganno o fuorviato da utilizzazioni non solo non autorizzate, ma – come ha bene messo in rilievo il primo giudice – addirittura espressamente vietate dal PPE, con rischio di compromettere la genuinità della competizione elettorale.
8.7. Ne segue la sicura reiezione anche del motivo in esame, infondato in fatto e in diritto.
9. L’appello, in conclusione, deve essere respinto, con la piena conferma della sentenza qui impugnata.
10. Cionondimeno le spese del presente grado del giudizio, per la complessità delle questioni esaminate oggetto di un annoso dibattito che ha conosciuto, anche in passato, plurimi e non sempre collimanti pronunciamenti, possono comunque essere compensate interamente tra le parti.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Terza, definitivamente pronunciando sull’appello, proposto da Ma. Be. e Ni. Tr., lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata.
Compensa interamente tra le parti costituite le spese del presente grado del giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 23 aprile 2019, con l’intervento dei magistrati:
Massimiliano Noccelli – Presidente FF, Estensore
Pierfrancesco Ungari – Consigliere
Giulia Ferrari – Consigliere
Solveig Cogliani – Consigliere
Umberto Maiello – Consigliere
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