Suprema Corte di Cassazione
sezione VI
sentenza 13 febbraio 2015, n. 6467
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza emessa in data 8 maggio 2014 la Corte d’appello di L’Aquila ha confermato la sentenza del Tribunale di Teramo in data 8 maggio 2009, che all’esito di rito abbreviato condannava B.O. alla pena di mesi tre di reclusione ed Euro 200,00 di multa per il delitto di cui all’art. 348 c.p., commesso in (omissis) , escludendo sia la continuazione che l’aumento per la contestata recidiva.
2. Avverso la su indicata pronuncia ha personalmente proposto ricorso per cassazione l’imputato, che ha dedotto, con separati atti del 28 e del 30 maggio 2014, l’erronea applicazione della norma incriminatrice laddove la stessa prevede l’irrogazione della multa solo in alternativa alla pena detentiva della reclusione – che è stata invece applicata nella fattispecie in esame – nonché l’assenza di prova circa l’esercizio in modo continuativo, sistematico ed organizzato dell’attività professionale di avvocato, non essendo emerso, fra l’altro, che egli abbia ricevuto un compenso per la propria prestazione.
La Corte d’appello, in particolare, ha omesso di considerare che all’imputato sono stati contestati solo tre colloqui in carcere, peraltro avvenuti in un arco temporale assai ristretto (circa un mese) e che il dirigente la Squadra Mobile, nella sua relazione del 5 dicembre 2007, aveva escluso il requisito della professionalità ipotizzando che il B. svolgesse “impropriamente la professione di avvocato, senza interessi reconditi o altri fini delittuosi”.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è parzialmente fondato e va pertanto accolto nei limiti e per gli effetti di seguito esposti e precisati.
2. Del tutto infondato deve ritenersi il motivo di doglianza incentrato sulla prospettata inosservanza ed erronea applicazione della norma incriminatrice in esame, avendo i Giudici di merito posto in rilievo, con congrua ed esaustiva motivazione, in quanto tale immune da vizi logico-giuridici in questa Sede rilevabili, le ragioni giustificative del giudizio di penale responsabilità nei confronti del ricorrente.
In tal senso, essi hanno valorizzato le pacifiche e non contestate risultanze delle attività d’indagine, dalle quali è emerso che l’imputato, laureato in giurisprudenza, ma non abilitato all’esercizio della professione di avvocato, aveva effettuato – nel periodo ricompreso fra il (OMISSIS) – tre colloqui nella Casa circondariale di Teramo con un detenuto che lo aveva preventivamente nominato difensore di fiducia, qualificandosi come avvocato al cospetto del personale di Polizia penitenziaria di quell’Istituto, cui presentava un verbale di denuncia di smarrimento di una serie di documenti per giustificare il mancato possesso della tessera professionale.
Al riguardo, è evidente che il fatto di recarsi in più occasioni presso un Istituto penitenziario, simulando la presenza di un inesistente titolo professionale ed accedendovi al fine di colloquiare con un detenuto dal quale si è appena ricevuta la nomina, dunque per compiere un atto tipico ed esclusivo di esercizio della professione di avvocato, costituisce un comportamento idoneo a creare la pubblica percezione del concreto esercizio della professione forense o, comunque, l’apparenza di un’attività svolta da un soggetto regolarmente abilitato (arg. ex Sez. 6, n. 18745 del 21/01/2014, dep. 06/05/2014, Rv. 261098).
Muovendo da tali premesse storico-fattuali, deve rilevarsi come i Giudici di merito abbiano fatto buon governo del quadro di principii – in questa Sede più volte affermati – secondo cui il delitto previsto dall’art. 348 cod. pen., avendo natura istantanea, non esige un’attività continuativa od organizzata, ma si perfeziona con il compimento anche di un solo atto tipico o proprio della professione abusivamente esercitata (Sez. 6, n. 11493 del 21/10/2013, dep. 10/03/2014, Rv. 259490; Sez. 6, n. 30068 del 02/07/2012, dep. 23/07/2012, Rv. 253272).
Invero, quando l’esercizio dell’attività professionale vietata all’agente ne investa atti tipici, quali quelli posti in essere dall’imputato come patrocinatore legale, il reato ha natura istantanea, perfezionandosi anche con il compimento di un solo atto abusivo che realizza definitivamente il verificarsi dell’evento lesivo. Evento che deve ritenersi unico, come unitaria è la condotta che lo realizza, quand’anche sia sviluppata (come avvenuto nel caso in esame) con più atti professionali abusivi.
Una linea interpretativa, quella or ora indicata, che evidentemente si colloca nell’ambito di una prospettiva tracciata dalle Sezioni Unite di questa Suprema Corte, allorquando hanno distinto al riguardo le possibili evenienze fattuali rilevanti ai fini della configurabilità della fattispecie incriminatrice in esame, affermando il principio di diritto secondo cui “concreta esercizio abusivo di una professione, punibile a norma dell’art. 348 c.p., “non solo il compimento senza titolo, anche se posto in essere occasionalmente e gratuitamente, di atti da ritenere attribuiti in via esclusiva ad una determinata professione, ma anche il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva, siano univocamente individuati come di competenza specifica di una data professione, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività, onerosità e (almeno minimale) organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un’attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato” (Sez. Un., n. 11545 del 15/12/2011, dep. 23/03/2012, Rv. 251819).
V’è ancora da osservare che la rilevanza economica o i risvolti patrimoniali dell’abusiva attività professionale esercitata dall’imputato sono elementi affatto estranei alla struttura della fattispecie criminosa. Il reato di cui all’art. 348 c.p. è un reato contro la pubblica amministrazione, il cui evento è costituito dalla elusione di una previa “speciale abilitazione”, rilasciata una tantum da appositi organi pubblici o da enti pubblici professionali, per il durevole esercizio di attività professionali riservate a soggetti muniti di specifica qualificazione. L’eventuale scopo di lucro che possa aver spinto l’agente alla condotta abusiva non connota la lesione del bene protetto dalla norma incriminatrice, ossia il bene immateriale della P.A. rappresentato dall’esigenza di garanzia, nell’interesse della collettività, di un controllo generale e preventivo dei requisiti per l’esercizio di specifiche professioni di più o meno elevato spessore tecnico. Avuto riguardo alla indisponibilità dell’interesse protetto dall’art. 348 c.p., la mancanza nell’azione dell’imputato di finalità di profitto o guadagno patrimoniale, ovvero i moventi di natura meramente privata e perfino il previo assenso del destinatario dell’attività professionale al suo illegale svolgimento non possono produrre alcun effetto esimente sulla inequivoca apprezzabilità penale della condotta tecnico-professionale esercitata dall’imputato con la sicura contezza di essere privo del corrispondente titolo abilitativo (cfr., da ultimo, Sez. 6, n. 11493 del 21/10/2013, dep. 10/03/2014, cit.).
3. Fondato, di contro, deve ritenersi l’ulteriore profilo di doglianza inerente alla illegittima determinazione del trattamento sanzionatorio, sì come irrogato dal Giudice di primo grado e confermato, poi, all’esito del giudizio d’appello, laddove è stata congiuntamente applicata all’imputato la pena della reclusione e della multa, sebbene la norma incriminatrice di cui all’art. 348 c.p. preveda in via alternativa la pena della reclusione (sino a sei mesi), ovvero della multa (da Euro 103,00 ad Euro 516,00), con la conseguente facoltà discrezionale attribuita al Giudice del merito in ordine alla scelta della forma sanzionatoria più adeguata alle peculiarità del caso concreto.
4. S’impone, dunque, limitatamente al punto or ora indicato, l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata, affinché la Corte d’appello in dispositivo individuata provveda alla eliminazione del vizio riscontrato.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio e rinvia per nuovo giudizio sul punto alla Corte d’appello di Perugia. Rigetta nel resto il ricorso.
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