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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
sentenza 27 agosto 2014, n. 18353
Svolgimento del processo
1. Con ricorso per decreto ingiuntivo, P.F. adiva il Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro, esponendo che con sentenza del 13 luglio 2000, il giudice del lavoro aveva accertato e dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato dalla Rete Ferroviaria Italiana s.p.a., ordinando la sua reintegra nel posto di lavoro, con la corresponsione, a titolo di risarcimento dei danni, di un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino a quello della reintegra. Con comunicazione del 18 novembre 2000, il P. aveva esercitato l’opzione per l’indennità sostitutiva della reintegra, ex art. 18, comma 5, della legge n. 300 del 1970; ma la relativa indennità era stata corrisposta solo in data 7 febbraio 2002.
Sulla scorta di tali premesse, e ritenendo che il rapporto di lavoro fosse continuato fino al giorno dell’effettiva corresponsione dell’indennità sostitutiva, chiedeva in via monitoria il pagamento di tutte le retribuzioni maturate e non percepite nell’intervallo di tempo intercorso tra la data di esercizio dell’opzione e quella di effettivo pagamento dell’indennità sostitutiva della reintegra.
Il ricorso monitorio veniva accolto e la successiva opposizione della società, fondata sulla deduzione che il rapporto di lavoro doveva considerarsi risolto con l’esercizio del diritto di opzione e non già con il pagamento dell’indennità sostitutiva, veniva rigettata.
2. La Corte di Appello di Roma, con sentenza n. 5467 del 14 luglio 2010, in riforma della decisione di primo grado, ha invece accolto l’impugnazione proposta da Rete Ferroviaria Italiana S.p.A., così accogliendo l’opposizione avverso il decreto ingiuntivo con il quale era stato ad essa ingiunto il pagamento, a favore di P.F. , delle retribuzioni relative al periodo intercorso tra la data in cui il medesimo aveva esercitato il diritto di opzione ai sensi del quinto comma dell’art. 18 Stat. lav.. chiedendo la corresponsione dell’indennità sostitutiva, e la data in cui detta indennità era stata tardivamente corrisposta.
La Corte territoriale, nel revocare il decreto ingiuntivo, ha affermato di condividere l’orientamento espresso da Cass., sez. lav. 17 febbraio 2009, n. 3775. secondo cui la richiesta del pagamento dell’indennità sostitutiva, in luogo della reintegrazione, determina la cessazione del rapporto di lavoro, sicché, esercitando la facoltà di scelta, il lavoratore rinuncia alla prestazione alternativa e alla continuazione del rapporto, con la preclusione della possibilità di chiedere l’altra prestazione, e cioè le retribuzioni maturate successivamente alla scelta da lui operata. La Corte territoriale ha privilegiato tale indirizzo, ritenuto “maggiormente convincente” di quello enunciato da Cass., sez. lav., 19 marzo 2010, n. 6735, secondo cui – conformemente a quanto già statuito da Cass., sez. lav., 16 marzo 2009, n. 6342 – la richiesta del lavoratore illegittimamente licenziato di ottenere, in luogo della reintegrazione nel posto di lavoro, l’indennità sostitutiva della reintegra, costituisce esercizio di un diritto derivante dall’illegittimità del licenziamento, riconosciuto al lavoratore secondo lo schema dell’obbligazione con facoltà alternativa ex parte creditoris, sicché l’obbligo di reintegrazione nel posto di lavoro, facente carico al datore di lavoro, si estingue soltanto con il pagamento dell’indennità sostitutiva della reintegrazione, per la quale abbia optato il lavoratore, non già con la semplice dichiarazione da questi resa di scegliere detta indennità in luogo della reintegra.
3. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione P.F. , articolando tre motivi, sulla scorta dei quali ha chiesto la cassazione dell’impugnato provvedimento.
La società Rete Ferroviaria Italiana s.p.a. ha resistito con controricorso, illustrato da successiva memoria ex art. 378 cod. proc. civ..
All’esito dell’udienza di discussione e della camera di consiglio del 25 giugno 2013, la Sezione Lavoro ha pronunciato ordinanza interlocutoria (n. 18365 del 31 luglio 2013), con la quale ha rilevato che la questione di diritto sottoposta all’esame del Collegio è stata decisa in senso difforme dalle sezioni semplici della Corte e quindi ha rimesso la causa al Primo Presidente che ne ha assegnato la trattazione a queste Sezioni Unite.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è articolato in tre motivi.
I primi due motivi prospettano l’omessa o insufficiente motivazione, ai sensi dell’ari 360, comma 1, n. 5, per essersi la sentenza di appello limitata a richiamare – trascrivendola integralmente e senza alcuna considerazione ulteriore – la motivazione di Cass., sez. lav., 17 febbraio 2009, n. 3775, relativa a controversia avente – a suo dire – un oggetto diverso da quello trattato nella pronuncia impugnata.
Il terzo motivo è maggiormente focalizzato sulla questione di diritto che ha indotto la Sezione Lavoro a rimettere gli atti al Primo Presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite, ossia la sussistenza, o no, del diritto al riconoscimento, in favore del lavoratore delle somme richieste a titolo di risarcimento per l’illegittimo licenziamento ex art. 18, comma 4, legge n. 300 del 1970 dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettivo pagamento dell’indennità ex art. 18. comma 5, della legge n. 300 citata. Secondo la prospettazione del ricorrente – che richiama a sostegno la giurisprudenza di questa Corte (fin da Cass., sez. lav., 5 agosto 2000, n. 10326) – l’obbligo di reintegrazione nel posto di lavoro, facente carico al datore di lavoro a norma dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, si estingue soltanto con il pagamento della indennità sostitutiva della reintegrazione, prescelta dal lavoratore illegittimamente licenziato, e non già con la semplice dichiarazione, proveniente da quest’ultimo, di scegliere tale indennità in luogo della reintegrazione, con la conseguenza che il risarcimento del danno, il cui diritto è dalla legge fatto salvo anche nel caso di opzione per l’indennità sostitutiva della reintegrazione, va commisurato alle retribuzioni che sarebbero maturate fino al giorno del pagamento dell’indennità sostitutiva. La tesi secondo cui la norma introduce un’obbligazione con facoltà alternativa dal Iato del creditore – sicché il rapporto non cessa per effetto della dichiarazione di scelta del lavoratore, come si dovrebbe pensare se essa avesse la valenza di dichiarazione di recesso, bensì solo al momento e per effetto del pagamento dell’indennità alternativa – è stata adottata, ricorda ancora il ricorrente, anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 81 del 4 marzo 1992.
2. Il ricorso – i cui tre motivi possono essere esaminati congiuntamente – è infondato.
3. La questione interpretativa che pone il ricorso riguarda il quinto comma dell’ari 18 legge 20 maggio 1970, n. 300, che, nel testo introdotto dalla legge 11 maggio 1990 n. 108 e prima della riforma recata dalla legge 28 giugno 2012, n. 92, disciplinava un istituto di nuovo conio – l’indennità sostitutiva della reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato – non previsto nella formulazione originaria della disposizione, quella del 1970. La citata disposizione prevedeva: “Fermo restando il diritto al risarcimento del danno così come previsto al quarto comma, al prestatore di lavoro è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto. Qualora il lavoratore entro trenta giorni dal ricevimento dell’invito del datore di lavoro non abbia ripreso servizio, né abbia richiesto entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza il pagamento dell’indennità di cui al presente comma, il rapporto di lavoro si intende risolto allo spirare dei termini predetti”.
L’istituto è rimasto associato alla tutela reintegratoria anche nel contesto della recente riforma di cui alla legge n. 92 del 2012 che ne ha solo rimaneggiato la disciplina anche se il suo ambito di applicazione si è ridotto come conseguenza del restringimento dell’area della tutela reintegratoria nei confronti del licenziamento illegittimo. Attualmente il terzo comma dell’art. 18 cit., nella formulazione introdotta dalla cit. legge n. 92/2012 prevede: “Fermo restando il diritto al risarcimento del danno come previsto al secondo comma, al lavoratore è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro, e che non è assoggettata a contribuzione previdenziale. La richiesta dell’indennità deve essere effettuata entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza, o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione”. Disposizione questa che va integrata con quella del terzo periodo del nuovo primo comma del medesimo art. 18: “A seguito dell’ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall’invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l’indennità di cui al terzo comma del presente articolo”.
Al fine dell’esame del ricorso e della questione rimessa a queste Sezioni Unite a seguito della citata ordinanza interlocutoria della Sezione Lavoro la nuova disciplina, pur nel complesso sostanzialmente confermativa di quella previgente, rimane sullo sfondo giacché il licenziamento è stato intimato (ed il giudizio è stato promosso) ben prima dell’entrata in vigore della legge n. 92 del 2012. Occorre invece occuparsi della disposizione introdotta dalla legge n. 108 del 1990 che è stata in vigore per oltre ventanni e che – quasi per una finale recrudescenza di problematicità prima di essere archiviata tra i testi normativi abrogati – è stata portata all’esame di queste Sezioni Unite perché sia composto un contrasto di giurisprudenza insorto essenzialmente nel 2012 con pronunce pubblicate dopo l’entrata in vigore della nuova disciplina, ma che trova le sue radici indietro nel tempo.
Dovendo quindi farsi applicazione della disciplina dell’indennità sostitutiva della reintegrazione nel testo vigente prima della legge n. 92 del 2012, la questione interpretativa che si viene ora ad esaminare ha una connotazione marcatamente retrospettiva: si tratta di fare il punto su una disciplina in una formulazione normativa attualmente non più in vigore ed applicabile transitoriamente solo a fattispecie in via di esaurimento. Però nella fattispecie non solo l’insorto contrasto di giurisprudenza, ma in realtà anche la stessa riforma del 2012, che si pone in linea di continuità con la formulazione previgente dell’istituto, giustificano una rivisitazione della complessiva questione interpretativa sollevata dalla citata ordinanza interlocutoria della Sezione Lavoro.
4. La formulazione del 1990 del quinto comma dell’art. 18 ha posto un interrogativo di fondo.
Una volta che il giudice abbia ordinato la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato il datore di lavoro è obbligato ad adempiere all’ordine giudiziale invitando il lavoratore a riprendere il servizio e fino alla reintegrazione permane l’obbligo risarcitorio del danno conseguente all’illegittima estromissione. Con la reintegrazione l’ordine giudiziale è ottemperato e l’obbligo risarcitorio cessa, sorgendo invece l’obbligo retributivo in sinallagma con la prestazione riattivata.
Però da una parte l’effettiva ottemperanza all’ordine di reintegrazione, pur provvisoriamente esecutivo già nell’originaria formulazione del 1970, non era in concreto realizzabile in termini di esecuzione forzata in forma specifica trattandosi di un facere non coercibile (Cass, sez. lav., 14 maggio 1998, n. 4881), né era presidiato da sanzione pecuniaria con finalità dissuasiva dell’inottemperanza, come nel’ipotesi dell’ordine di reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato che rivesta una carica sindacale all’interno dell’azienda secondo la previsione di cui all’ultimo comma dell’art. 18 cit., né da sanzione penale come nell’ipotesi in cui, ridondando l’illegittimità del licenziamento anche in condotta antisindacale, la reintegrazione costituisca un modo di repressione ex art. 28 legge n. 300 del 1970 della condotta antisindacale stessa.
D’altra parte questo difetto di concreta eseguibilità forzata era però di fatto compensato da un orientamento giurisprudenziale che inizialmente, a seguito di una pronuncia di questa Sezioni Unite (Cass., sez. un., 15 marzo 1982 n. 1669), si era affermato su una questione processuale apparentemente di dettaglio (gli effetti dell’eventuale riforma in appello dell’ordine di reintegrazione ex art. 336, secondo comma, cod. proc. civ.) che però approntava un indiretto (eppur forte) presidio all’effettività dell’ordine di reintegrazione (una sorta di “tutela equivalente” per usare una terminologia invalsa in seguito): il datore di lavoro, soccombente in primo grado e destinatario dell’ordine di reintegrazione, era indotto ad ottemperare all’ordine del giudice, che aveva accertato l’illegittimità del licenziamento in regime di c.d. tutela reale, perché, ove non avesse ottemperato, comunque avrebbe dovuto corrispondere al lavoratore le retribuzioni addirittura – si riteneva all’epoca – fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma. Solo anni dopo questo principio sarebbe stato assai ridimensionato da queste stesse Sezioni Unite (Cass., sez. un., 13 aprile 1988 n. 2925) ed ulteriormente rettificato in chiave riduttiva a seguito dalla giurisprudenza della Sezione Lavoro (a partire da Cass., sez. lav., 1 aprile 2003 n. 4943).
In breve è sufficiente qui rimarcare che l’ordine di reintegrazione fin dall’inizio (1970) ha presentato problematicità, variamente risolte dalla giurisprudenza e che comportavano, per le parti in lite, conseguenze in termini economici di peso crescente in ragione della durata del processo.
Ed allora il legislatore del 1990, pressato peraltro da un’iniziativa referendaria che incideva proprio sull’area di applicazione dell’art. 18 legge n. 300 del 1970. intervenne su tale disposizione (con la legge n. 108 del 1990) ed in particolare approntò uno strumento “sostitutivo” dell’ottemperanza dell’ordine di reintegrazione diretto ad offrire al lavoratore, a sua scelta, una tutela alternativa ed ulteriore di tipo indennitario (ulteriore rispetto all’indennità risarcitoria spettante a compensazione del danno da licenziamento illegittimo): una sorta di “monetizzazione” della reintegrazione ove ad essa il lavoratore non avesse più interesse o comunque rinunciasse. Sicché l’eventuale prosieguo del giudizio risultava per così dire sgravato della questione della reintegrazione, avendo esso ad oggetto pur sempre la legittimità, o no, del licenziamento, ma quale presupposto non più della reintegrazione nel posto di lavoro, ma della spettanza, o no, dell’indennità sostitutiva della reintegrazione.
L’istituto quindi nasce con la vocazione di regolare i rapporti tra le parti nel corso del processo; ha una matrice processuale piuttosto che sostanziale con la finalità anche di favorire la composizione transattiva della lite nel senso che, sgombrato il campo dall’ordine di reintegrazione, la sua sostituzione “indennitaria” poteva – e può – anche indurre le parti a conciliare la lite.
5. Si ha quindi che dopo la riforma del 1990 il lavoratore può chiedere “in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro” l’indennità di cui si discute.
Però la testuale indicazione della finalità sostitutiva dell’indennità (unitamente al regolamentazione, peraltro non chiara, del termine entro cui la facoltà di opzione poteva essere esercitata) esauriva la disciplina positiva e non si coniugava ad alcuna espressa regolamentazione dei suoi effetti non essendo, in particolare, regolato quando il rapporto di lavoro potesse considerarsi risolto per effetto dell’esercizio da parte del lavoratore della facoltà di scelta dell’indennità sostitutiva della reintegrazione; né quando cessava l’obbligo del datore di lavoro di corrispondere l’indennità risarcitoria a compensazione del danno per il licenziamento illegittimo. Insomma la disciplina del nuovo istituto fin dall’inizio si presentava carente; del resto si è già ricordato che il legislatore dell’epoca si trovò pressato da un referendum diretto, con l’abrogazione parziale dell’art. 35, primo comma, legge n. 300 del 1970, ad estendere la possibilità dell’ordine di reintegrazione dei lavoratori illegittimamente licenziati indipendentemente dal numero dei dipendenti nelle singole unità produttive, e quindi indirizzato, nelle intenzioni del comitato promotore, ad ampliare l’area di applicabilità della tutela reale, referendum già ammesso dalla Corte costituzionale (sent. 2 febbraio 1990 n. 65). Il legislatore, adottando la cit. legge 11 maggio 1990 n. 108, fece una corsa contro il tempo perché si voleva evitare – e si evitò (nonostante l’opposizione del comitato promotore: cfr. Corte cost., ord., 30 maggio 1990, s.n.) – la consultazione referendaria.
La carenza normativa era evidente. Solo la mancata ottemperanza del lavoratore all’invito, rivolto dal datore di lavoro in (spontanea) esecuzione dell’ordine di reintegrazione, a riprendere il servizio era positivamente disciplinato nel senso che era qualificato ex lege il comportamento di disinteresse del lavoratore alla riattivazione della prestazione lavorativa essendo previsto che, ove il lavoratore entro trenta giorni dal ricevimento dell’invito del datore di lavoro non avesse ripreso servizio, né avesse richiesto entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza il pagamento dell’indennità sostitutiva, il rapporto di lavoro si intendeva risolto allo spirare dei termini predetti. Senza entrare nel dettaglio dell’interpretazione di questa previsione, anch’essa di non facile lettura, quello che è certo che essa, facendo riferimento congiuntamente all’invito del datore di lavoro a riprendere il servizio e all’eventualità dell’esercizio dell’opzione del lavoratore per l’indennità sostitutiva, considerava un’unica ipotesi in cui “il rapporto si intende risolto”: quello del mero decorso del termine di 30 giorni (anzi, dei termini di 30 giorni).
Al di là del mero decorso del termine, nulla era previsto: non c’era testualmente un’altra ipotesi in cui il rapporto si intendeva risolto.
Occorreva quindi interrogarsi se, al di là della lettera della disposizione, il rapporto non dovesse intendersi risolto – e quando – anche con l’esercizio della facoltà, accordata al lavoratore, di chiedere l’indennità sostitutiva della reintegrazione.
6. Non è qui il caso di esaminare le varie tesi interpretative che nell’immediato si sono confrontate in dottrina e nella prima giurisprudenza di merito perché, come notò un autorevole ed acuto autore dell’epoca, la Corte costituzionale giocò d’anticipo.
Dopo poco più di un anno dall’entrata in vigore della legge n. 108 del 1990, che aveva introdotto l’indennità sostitutiva della reintegrazione, la Corte costituzionale fu investita della questione di costituzionalità della nuova disposizione (quinto comma dell’art. 18 cit.) per contrasto con gli artt. 3, 4, 35 e 41 Cost. in particolare sotto il profilo dell’ingiustificata disciplina differenziata rispetto alle dimissioni per giusta causa, fattispecie indicata come tertium comparationis.
La Corte (sent. 4 marzo 1992 n. 81) ritenne che non potesse porsi questa comparazione; osservò che “ordine di reintegrazione nel posto, con facoltà del lavoratore di optare per il pagamento di un’indennità sostitutiva, e dimissioni per giusta causa indennizzate sono strumenti di tutela concettualmente diversi, che non possono fondersi l’uno con l’altro”. Ma subito dopo aggiunse quella che dichiarò essere l’interpretazione “più congrua” della disposizione censurata nella quale andava ravvisata “un’obbligazione con facoltà alternativa dal lato del creditore […] il cui adempimento produce, insieme con l’estinzione dell’obbligazione di reintegrare il lavoratore nel posto, la cessazione del rapporto di lavoro per sopravvenuta mancanza dello scopo”. La Corte prese una posizione netta e chiara affermando che “il rapporto non cessa per effetto della dichiarazione di scelta del lavoratore, come si dovrebbe pensare se essa avesse la valenza di dichiarazione di recesso, bensì solo al momento e per effetto del pagamento dell’indennità sostitutiva”.
Pur trattandosi di interpretazione “correttiva”, che attiene alla verifica del presupposto di plausibilità dell’interpretazione offerta dal giudice rimettente della disposizione censurata, e non già di interpretazione “adeguatrice”, che costituisce invece una modalità di superamento di una censura di costituzionalità altrimenti fondata, l’autorevolezza della Corte da cui proveniva l’interpretazione ha fatto sì che la giurisprudenza di legittimità, chiamata anni dopo a pronunciarsi su fattispecie alle quali era ormai applicabile la legge n. 108 del 1990, si allineasse a questa ricostruzione che indubbiamente rappresentava un rafforzamento della tutela del lavoratore che avesse esercitato l’opzione: fino a quando il datore di lavoro non corrispondeva l’indennità sostitutiva rimaneva la garanzia del perdurante ordine di reintegrazione e soprattutto del connesso obbligo di corrispondere l’indennità risarcitoria a compensazione del danno da licenziamento illegittimo (ex plurimis Cass., sez. lav., 28 luglio 2003, n. 11609).
7. Un primo momento di criticità però insorse quando si trattò di calare questa ricostruzione in una fattispecie particolare: l’esercizio dell’opzione in favore dell’indennità sostitutiva già prima dell’ordine di reintegrazione del giudice. La lettera del quinto comma dell’art. 18 deponeva nel senso che occorresse l’ordine di reintegrazione perché il lavoratore potesse esercitare la facoltà di opzione apparendo contrario al dettato testuale della disposizione citata la possibilità di rinunciare ex ante all’ordine di reintegrazione. In questo senso del resto si è pronunciata la Corte costituzionale (ord. 22 luglio 1996 n. 291) nuovamente investita della questione di costituzionalità della medesima disposizione (quinto comma dell’art. 18) in riferimento agli artt. 3 e 41 Cost. in un’ipotesi in cui il licenziamento era stato revocato ed il lavoratore, non accettando di riprendere il servizio, chiedeva non più la reintegrazione nel posto di lavoro, ma (solo) l’indennità sostitutiva. La Corte, nel dichiarare manifestamente infondata la questione, ha ribadito la ricostruzione dell’obbligazione con facoltà alternativa dal lato del creditore ed ha aggiunto che “la revoca dell’atto di licenziamento e l’invito a riprendere il lavoro impediscono la pronuncia dell’ordine giudiziale di reintegrazione e conseguentemente la scelta dell’indennità sostitutiva solo se accettati dal lavoratore, espressamente o tacitamente col ritorno in servizio”. Quindi in mancanza di accettazione del lavoratore della revoca del licenziamento, comunque può e deve intervenire l’ordine giudiziale di reintegrazione perché il lavoratore possa esercitare la facoltà di chiedere l’indennità sostitutiva.
Stavolta però la giurisprudenza di legittimità non si è adeguata a quella della Corte costituzionale, ma si è diversamente orientata. Con una prima pronuncia questa Corte (Cass., sez. lav., 16 ottobre 1998, n. 10283), ha ritenuto, “pur consapevole che l’opposta interpretazione è stata invece accolta dalla Corte Costituzionale nella ordinanza di rigetto n. 291 dell’11-12 luglio 1996”, che non è necessario un ordine giudiziale di reintegrazione per l’esercizio dell’opzione sicché il lavoratore può anche limitarsi inizialmente a chiedere in giudizio l’indennità in sostituzione della domanda di reintegrazione, anche nell’ipotesi in cui il licenziamento sia stato revocato dal datore di lavoro e alla revoca non abbia fatto seguito il ripristino del rapporto. Questo indirizzo è stato successivamente confermato da questa Corte (cfr. Cass.. sez. lav., 12 giugno 2000, n. 8015), che ha ribadito espressamente il disallineamento rispetto a Corte cost. n. 291 del 1996, affermando che la revoca del licenziamento, intervenuta nel corso del giudizio promosso dal lavoratore per ottenere la reintegrazione (e il risarcimento del danno) non impedisce al lavoratore, ove non abbia aderito all’offerta di ripristino del rapporto, di richiedere la indennità sostitutiva in luogo della reintegrazione prima (e a prescindere) dalla conclusione del giudizio stesso; ciò fa venir meno, per il periodo successivo, il diritto alla indennità risarcitoria commisurata alle retribuzioni decorse dal momento del recesso sino a quello dell’effettiva reintegrazione. Secondo questo indirizzo giurisprudenziale il giudice non pronuncia l’ordine di reintegrazione, avendo il lavoratore rifiutato di riprendere servizio, ma – sempre che il licenziamento risulti illegittimo – condanna il datore di lavoro al pagamento dell’indennità sostitutiva.
In tal modo però indirettamente (ed implicitamente) è stata posta in dubbio, con riferimento a questa fattispecie, anche l’affermazione fatta da Corte cost. n. 81 del 1992 secondo cui il rapporto non cessa per effetto della dichiarazione di scelta del lavoratore, bensì solo al momento e per effetto del pagamento dell’indennità sostitutiva apparendo difficilmente sostenibile che, pur avendo il lavoratore rifiutato di riprendere il servizio a seguito della revoca del licenziamento optando per l’indennità sostitutiva, il rapporto di lavoro comunque rimanga in piedi (ovviamente, sempre sul presupposto dell’illegittimità del licenziamento) per tutta la durata del giudizio ed anche oltre fino al pagamento dell’indennità sostitutiva. Ed infatti Cass., sez. lav., 12 giugno 2000, n. 8015, ha escluso che permanga il diritto alla indennità risarcitoria dopo l’opzione per l’indennità risarcitoria; ciò che sembra implicare che il rapporto di lavoro debba intendersi risolto nello stesso momento. Invece Cass., sez. lav., 6 marzo 2003, n. 3380, ha ritenuto ancora che, pure nel caso in cui già con la domanda giudiziale il lavoratore abbia chiesto il pagamento dell’indennità sostitutiva, il risarcimento del danno, il cui diritto è fatto salvo anche nel caso di opzione per l’indennità sostitutiva della reintegrazione, va commisurato alle retribuzioni che sarebbero maturate fino al giorno del pagamento dell’indennità sostitutiva.
Questo orientamento parallelo si consolida successivamente. Cass., sez. lav., 10 novembre 2008, n. 26920, ribadisce che il lavoratore può limitarsi inizialmente a chiedere in giudizio l’indennità in sostituzione della domanda di reintegrazione così come può esercitare la stessa scelta nel corso del giudizio; e precisa che l’esercizio dell’opzione, non fa venir meno il diritto al risarcimento dei danni verificatisi fino al momento in cui l’interessato, optando per l’indennità sostitutiva, ha rinunciato alla reintegrazione (conf. Cass., sez. lav., 28 luglio 2005, n. 15898; 28 novembre 2006, n. 25210).
8. In breve vi era in sostanza un’asimmetria tra il “caso generale”, quello dell’ordine di reintegrazione del giudice seguito dall’opzione del lavoratore in favore dell’indennità sostitutiva, ed il “caso particolare”, quello (della revoca del licenziamento e) dell’opzione del lavoratore in favore dell’indennità sostitutiva prima che il giudice emetta l’ordine di reintegra o addirittura prima che il giudice sia adito. Nella prima fattispecie la giurisprudenza di legittimità continuava a ribadire, sulla scorta della ricostruzione dell’indennità sostitutiva della reintegrazione come obbligazione con facoltà alternativa dal lato del creditore, che il rapporto di lavoro doveva intendersi risolto solo al momento dell’effettivo pagamento dell’indennità risarcitoria e che solo in quel momento cessava anche la debenza dell’indennità risarcitoria; nella seconda fattispecie il rapporto poteva anche intendersi risolto con l’esercizio dell’opzione e la rinuncia alla reintegrazione, che segnava appunto il momento fino al quale era dovuta l’indennità risarcitoria a compensazione del danno da licenziamento illegittimo, ma prevalentemente si continuava a ritenere che l’obbligazione risarcitoria si estinguesse solo con il pagamento dell’indennità sostitutiva della reintegrazione.
Questa asimmetria è la spia del fatto che la ricostruzione risalente a C. cost. n. 81 del 1992 – che nel suo corollario espresso da C. cost. n. 291 del 1996 era già stata disattesa dalla giurisprudenza di legittimità – non fosse del tutto appagante.
9. Si arriva così all’anno del revireinent giurisprudenziale (2009): l’orientamento tradizionale comincia a sfaldarsi e si produce una divaricazione, se non già un contrasto.
Dapprima Cass., sez. lav., 17 febbraio 2009, n. 3775, in riferimento ad una fattispecie che riguardava un caso di licenziamento non più seguito da revoca prima (o in corso) della causa, afferma categoricamente – ed in vero senza un particolare confronto con la precedente pur articolata giurisprudenza di legittimità a fronte di quella costituzionale – che il rapporto di lavoro cessa con la dichiarazione negoziale di opzione per l’indennità sostitutiva. Il lavoratore, scegliendo l’indennità sostitutiva, rinuncia alla continuazione del rapporto di lavoro: in tal modo – afferma la Corte – il rapporto di lavoro si risolve al momento dell’esercizio dell’opzione con la scelta dell’indennità.
Questa pronuncia, pur non ponendosi in critico confronto con la precedente tradizionale giurisprudenza ed anzi affermando (in vero, assertivamente) trattarsi di obbligazione alternativa (che è fattispecie diversa dall’obbligazione con facoltà alternativa dal lato del creditore cui ha fatto riferimento Corte cost. n. 81 del 1992 cit.), ha trovato il favore di quella parte della giurisprudenza di merito che aveva nutrito dubbi in ordine alla configurabilità dell’indennità sostitutiva della reintegrazione come obbligazione con facoltà alternativa dal Iato del creditore. La stessa pronuncia della Corte d’appello di Roma, qui impugnata, ha accolto l’impugnazione della società attualmente controricorrente, proprio appoggiandosi su questo precedente, ritenuto “maggiormente convincente” rispetto alla giurisprudenza tradizionale.
Questo innovativo arresto giurisprudenziale è però seguito di lì a poco da Cass. sez. lav., 16 marzo 2009, n. 6342, che al contrario ribadisce ancora una volta che in caso di opzione per l’indennità sostitutiva della reintegrazione, il momento di effettiva cessazione del rapporto coincide non già con la semplice dichiarazione di opzione del lavoratore, ma solo con il pagamento della stessa; conseguentemente il risarcimento del danno complessivamente dovuto al lavoratore va commisurato alle retribuzioni che sarebbero maturate fino al giorno dell’adempimento dell’obbligazione alternativa alla reintegrazione. Pronuncia questa che però mostra già i segni di un diverso approccio rispetto alla ricostruzione di Corte cost. n, 81 del 1992 giacché questa Corte non si limita ad appoggiarsi su questo, pur autorevole, precedente del giudice delle leggi, ma trova il fondamento del ribadito principio di diritto anche (se non soprattutto) sulla finalità, perseguita dalla norma, di approntare una tutela equivalente in termini di effettività; principio che la Corte chiama “di effettività dei rimedi” e che impedisce al datore di lavoro di tardare nel pagamento dell’indennità in questione assoggettandosi al solo pagamento di rivalutazione e interessi ex art. 429 cod. proc. civ.. Come l’ordine di reintegrazione è ottemperato – e la tutela è realizzata – solo con il rientro del lavoratore in azienda e con la concreta riattivazione della prestazione lavorativa, così la tutela surrogatoria dell’indennità sostitutiva può dirsi effettiva e realizzata solo con il pagamento dell’indennità stessa e non già con la mera insorgenza dell’obbligazione pecuniaria avente ad oggetto la stessa. E quindi, con un sostegno argomentativo ulteriore, ritenuto maggiormente persuasivo, questa Corte ha ribadito l’orientamento tradizionale espresso fino ad allora più volte (ex plurimis Cass., sez. lav., 28 luglio 2003, n. 11609, cit.) e consistente – come già rilevato – in due affermazioni: il rapporto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato e reintegrato dal giudice si estingue solo con il pagamento dell’indennità sostitutiva della reintegrazione; il risarcimento del danno complessivamente dovuto al lavoratore va commisurato alle retribuzioni che sarebbero maturate fino al giorno dell’adempimento dell’obbligazione alternativa alla reintegrazione.
Si ha però che lo stesso anno (2009) alcune successive pronunce (Cass. sez. lav., 16 novembre 2009, n. 24199; 30 novembre 2009, n. 25233; 23 dicembre 2009, n. 27147), tutte decise all’udienza del 28 ottobre 2009, si collocano concettualmente tra le due precedenti pronunce aprendo un cuneo nell’orientamento tradizionale. Infatti la Corte da una parte condivide espressamente Cass. n. 3775 del 2009 nella parte in cui afferma che il rapporto di lavoro si risolve con la comunicazione dell’opzione del lavoratore per l’indennità sostitutiva della reintegrazione (così prendendo le distanze dall’orientamento tradizionale della giurisprudenza di legittimità che invece aveva ritenuto che l’esercizio della facoltà d’opzione non estinguesse affatto il rapporto di lavoro). Ma d’altra parte fa propria la proposizione di Cass. n. 6342 del 2009. cit., che si colloca sulla scia dell’orientamento tradizionale, affermando: “Tuttavia l’ammontare del risarcimento del danno da ritardo dev’essere pari alle retribuzioni perdute, fino a che il lavoratore non venga effettivamente soddisfatto”.
Quindi, mentre secondo l’orientamento tradizionale, riproduttivo della ricostruzione di Corte cost. n. 81 del 1992, permaneva, fino all’effettivo pagamento dell’indennità sostitutiva, il rapporto di lavoro ed in conseguenza di ciò anche l’obbligo di risarcire il danno da licenziamento illegittimo, questa nuova costruzione delle pronunce del novembre-dicembre 2009 di questa Corte, che riformula nella sostanza l’orientamento tradizionale, opera una scissione: il rapporto di lavoro si estingue subito con l’esercizio dell’opzione del lavoratore; permane invece l’obbligo risarcitorio pari alle retribuzioni perdute fino all’effettivo pagamento dell’indennità sostitutiva.
A ciò si aggiunge il dichiarato abbandono dell’ancoraggio ricostruttivo di Corte cost. n. 81 del 1992, confermato da Corte cost. n. 291 del 1996. Questa Corte, nelle due ultime cit. pronunce del 2009, afferma: “Né sembra necessario stabilire se trattisi di obbligazione con facoltà alternativa, schema che la dottrina dubita poter ricorrere quando la scelta spetti al creditore e che la Corte costituzionale evocò con l’ord. n. 291 del 1996 in specifica questione qui estranea, potendosi piuttosto ravvisare una dichiarazione di volontà negoziale del lavoratore, i cui effetti limitatamente all’ammontare dell’indennità sono sottoposti al termine dell’effettivo ricevimento di essa”.
Peraltro un’ulteriore pronuncia parimenti decisa all’udienza del 28 ottobre 2009 (Cass., sez. lav., 21 dicembre 2009, n. 26890) non contiene questo scostamento dall’ordinamento tradizionale, veicolato dall’adesione a Cass. n. 3775 del 2009, ma si limita a ribadire quest’ultimo nella formulazione in precedenza più volte espressa dalla Corte (il richiamo è a Cass. n. 3380 del 2003 e a Cass. n. 6342 del 2009).
10. Non di meno anche dopo la virata di rotta di Cass. nn. 24199, 25233 e 27147/2009 l’orientamento tradizionale, nella formulazione espressa fino a Cass. n. 6342/2009 (e richiamata da Cass. n. 26890 del 2009), viene ancora confermato da Cass., sez. lav., 19 marzo 2010, n. 6735, che ribadisce che è proprio l’obbligo di reintegrazione nel posto di lavoro, facente carico al datore di lavoro, che si estingue con il pagamento della indennità sostitutiva della reintegrazione, per la quale abbia optato il lavoratore; la semplice dichiarazione da questi resa di scegliere detta indennità in luogo della reintegrazione non ha affatto l’effetto di estinguere il rapporto e, conseguentemente, il risarcimento del danno va commisurato alle retribuzione che sarebbero maturate fino al giorno del pagamento dell’indennità sostitutiva e non fino alla data in cui il lavoratore ha operato la scelta.
Invece Cass., sez. lav. 13 ottobre 2011, n. 21044, e 14 ottobre 2011, n. 21267. si iscrivono nel solco dell’orientamento rettificato del 2009 aderendo espressamente a Cass. n. 24199/2009 di cui ripetono il nucleo centrale della motivazione.
Ormai la tenuta dell’orientamento tradizionale (id est: rapporto di lavoro – e quindi anche l’obbligazione risarcitoria – si estingue con l’effettivo pagamento dell’indennità sostitutiva) era minata dalle pronunce del 2009; e la sua formulazione rettificata da queste ultime pronunce, cui si aggiungono Cass. nn. 21044 e 21267/2011 (id est: il rapporto di lavoro si estingue con l’esercizio dell’opzione da parte del lavoratore, ma l’obbligazione risarcitoria si estingue con l’effettivo pagamento dell’indennità sostitutiva), era destinata a riaprire il dibattito; ciò che di lì a poco si manifesterà in un aperto contrasto di giurisprudenza di cui è premonitrice l’ordinanza n. 3481 del 6 marzo 2012 della Sesta Sezione con cui la Corte rinvia all’udienza pubblica la trattazione di un ricorso avverso una pronuncia di merito che, quanto alla questione in esame, aveva fatto puntuale applicazione dell’orientamento tradizionale, dalla Corte ritenuto ormai suscettibile di riesame.
11. Ed in effetti la revisione critica dell’orientamento tradizionale arriva di li a poco con Cass., sez. lav., 20 settembre 2012, n. 15869 e 25 settembre 2012, n. 16228. In queste pronunce la Corte è ben consapevole che la giurisprudenza di legittimità è costante nell’affermare che, nel caso di scelta, da parte del lavoratore illegittimamente licenziato, dell’indennità sostitutiva della reintegrazione ai sensi dell’art. 18, comma 5, fino all’effettivo pagamento dell’indennità, il datore è obbligato a pagare le retribuzioni globali di fatto. Tiene conto del punto di partenza da cui muove tale problematica, ossia della ricostruzione di Corte cost. n. 81 del 1992 in termini di obbligazione con facoltà alternativa dal lato del creditore, ricordando che solo il pagamento dell’indennità sostitutiva “produce, insieme con l’estinzione dell’obbligazione di reintegrare il lavoratore nel posto, la cessazione del rapporto di lavoro”; impostazione condivisa unanimemente dalla giurisprudenza di legittimità fino al 2009. Tiene conto che la cit. giurisprudenza del 2009 (Cass. n. 3775/2009 e successive pronunce) ha superato lo schema della obbligazione con facoltà alternativa ritenendo che “nella facoltà di scelta operata dal lavoratore sia preferibile ravvisare una dichiarazione di volontà negoziale del lavoratore, i cui effetti sono sottoposti al termine dell’effettivo ricevimento dell’indennità”. Ma è ben consapevole che “sul piano delle conseguenze” rimane che sia secondo l’orientamento fedele a Corte cosi. n. 81/1992. sia secondo l’orientamento rettificato dalle pronunce del 2009, rimaneva che “nel caso di, scelta, da parte del lavoratore illegittimamente licenziato, dell’indennità sostitutiva della reintegrazione ai sensi dell’art. 18, comma 5, della legge cit., fino all’effettivo pagamento dell’indennità, il datore è obbligato a pagare le retribuzioni globali di fatto”.
Però, ponendosi in consapevole contrasto con tale indirizzo, la Corte afferma che dopo l’esercizio del diritto di opzione – diritto potestativo – la reintegrazione, in virtù della scelta irrevocabilmente effettuata dal lavoratore, diventa inesigibile e che di conseguenza, rispetto ad una prestazione inesigibile non è configurarle un inadempimento del datore che genera le conseguenze risarcitorie ispirate alla continuità giuridica del vincolo. Pertanto l’esercizio dell’opzione comporta la risoluzione del rapporto lavorativo; per il periodo successivo a tale momento il mancato pagamento della indennità sostitutiva non è risarcibile alla stregua delle regole di cui all’art. 18, comma 4, non più evocabili in ragione della verificatasi risoluzione del rapporto, ma trovano applicazione i generali principi codicistici dettati in tema di inadempimento delle obbligazioni pecuniarie.
Questo nuovo orientamento è confermato da Cass., sez. lav., 28 gennaio 2013, n. 1810, che, ripetendo l’impianto argomentativo delle precedenti sentenze, ribadisce che la regola generale di effettività e di corrispettività delle prestazioni nel rapporto di lavoro, della quale è espressione l’art. 2126 c.c., comporta che, al di fuori delle espresse deroghe legali o contrattuali, la retribuzione spetti soltanto se la prestazione di lavoro viene eseguita, salvo che il datore di lavoro versi in una situazione di mora accipiendi nei confronti del lavoratore. Nella specie non ricorre tale situazione, avendo il lavoratore, operando la facoltà di scelta, manifestato la volontà di non proseguire il rapporto. La Corte poi aggiunge che la soluzione interpretativa accolta, in termini difformi rispetto all’orientamento tradizionale, “trova un esplicito avallo nella recente l. 28 giugno 2012, n. 92”. Ed infatti “il legislatore nel riformulare la disposizione in esame ha posto fine all’incertezza giurisprudenziale cui la norma previgente aveva dato luogo, attribuendo alla dichiarazione del lavoratore l’effetto estintivo del rapporto ed escludendo quindi che, una volta cessato il rapporto, possa trovare applicazione il principio – affermato dalla prevalente giurisprudenza – secondo cui, estinguendosi l’obbligo di reintegrazione nel posto di lavoro facente carico al datore di lavoro soltanto con il pagamento dell’indennità sostitutiva della reintegrazione per la quale abbia optato il lavoratore, il risarcimento del danno per la succitata indennità va commisurato alle retribuzioni maturate fino al giorno del pagamento di tale indennità e non fino alla data in cui il lavoratore ha operato la scelta”.
A questo nuovo orientamento fa riferimento anche Cass., sez. lav., 24 maggio 2013, n. 12923, che lo richiama per affermare in modo chiaro e categorico che l’opzione per l’indennità sostitutiva del rapporto determina la risoluzione del rapporto di lavoro alla data in cui essa viene manifestata; laddove le pronunce da ultimo citate (Cass. nn. 15869 e 16228 del 2012; n. 1810 del 2013) contenevano in realtà, sul punto, un’affermazione diversa: “l’esercizio del diritto potestativo di opzione porta – allo spirare dei termini di cui alla parte finale del comma 5 della norma statutaria – la risoluzione del rapporto lavorativo” sicché sembrerebbe che il rapporto debba intendersi risolto non proprio con la dichiarazione (recettizia) di opzione, ma con il decorso del termine di trenta giorni di cui al quinto comma dell’art. 18 Stat. lav. (nel testo ante l. n. 92/2012).
12. A fronte di questo nuovo orientamento, quello tradizionale continua ad essere non di meno riaffermato, ma rimane in ombra la distinzione risultante dalla formulazione rettificata operata dalle cit. pronunce del 2009 (Cass. nn. 24199 e 25233 del 2009).
Ed infatti Cass., sez. lav., 17 settembre 2012, n. 15519. cassa la pronuncia di merito che aveva ritenuto – disattendendo l’orientamento tradizionale di legittimità – che con l’esercizio del diritto di opzione e la sua comunicazione il rapporto di lavoro viene a cessare e quindi non sussiste più l’obbligo del risarcimento del danno unitamente a quello di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, ma solo l’obbligazione del pagamento della prevista indennità con gli accessori, conseguenza ordinaria della mora debendi. Ma la Corte accoglie il ricorso dichiaratamente aderendo sia a Cass. n. 6342/2009 e n. 6735/2010, sia a Cass. n. 24199/2009 laddove – come già rilevato -soltanto le prime pronunce, ma non anche quest’ultima, predicano che l’ordine di reintegrazione e con esso il rapporto di lavoro si estinguono solo con il pagamento dell’indennità sostitutiva. Viene ripreso il principio c.d. “di effettività dei rimedi” e se ne trova ulteriore sostegno sia nella garanzia dell’art. 24 Cost., sia nell’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Si sottolinea che questa costruzione dell’indennità sostitutiva “dissuade […] il datore di lavoro da ritardi e dilazioni nel pagamento di una indennità dovuta per la lesione di un diritto fondamentale anche di matrice Europea”.
Sulla stessa linea è anche giurisprudenza successiva (Cass., sez. lav.. 21 novembre 2012, n. 20420; 27 novembre 2012, n. 21010; 3 gennaio 2013, n. 41; tutte decise all’udienza del 28 settembre 2012), che però – affermando che il nuovo testo dell’art. 18 Stat. lav. introdotto dalla legge n. 92 del 2012 si sarebbe limitato, quanto all’indennità sostitutiva in esame, “a precisare che con l’esercizio del diritto di opzione il rapporto si estingue, il che era già affermato dalla ricordata giurisprudenza di questa Corte” – si iscrive evidentemente nel solco di quelle pronunce (Cass. nn. 24199 e 25233 del 2009, cit.) che hanno rettificato l’orientamento tradizionale; il quale – si ripete – riteneva al contrario che l’ordine di reintegrazione e con esso il rapporto di lavoro si estinguesse solo con il pagamento dell’indennità sostitutiva. Si richiama, ad ulteriore supporto, la giurisprudenza costituzionale sull’indennizzo previsto dall’art. 32 legge 4 novembre 2010, n. 183, in riferimento all’obbligo del datore di lavoro di ricostituire un rapporto illegittimamente interrotto, indennizzo fissato in misura “onnicomprensiva”, vale a dire (apparentemente) insensibile alla prosecuzione indefinita della condotta omissiva. La Corte costituzionale ha ritenuto la necessità di un’interpretazione costituzionalmente orientata, che riferisca l’indennità “forfetizzata” soltanto al danno verificatosi fino alla sentenza del giudice ordinante il ripristino del rapporto ed implichi l’integrale risarcimento del danno permanente successivo (sent. n. 303 del 2011).
13. All’esito di questa ricognizione della giurisprudenza sul punto possono individuarsi tre ricostruzioni diverse:
a) quella tradizionale, affermata da questa Corte più volte in varie pronunce (sopra cit.) e fondata essenzialmente sulla ricostruzione della sentenza n. 81 del 1992 della Corte costituzionale, e così sintetizzabile: i) l’ordine di reintegrazione e con esso il rapporto di lavoro si estinguono solo con il pagamento dell’indennità sostitutiva; ii) nel periodo dall’esercizio dell’opzione all’effettivo pagamento dell’indennità sostitutiva sono dovute dal datore di lavoro al lavoratore le retribuzioni ovvero l’indennità risarcitoria commisurata alle retribuzioni.
b) quella tradizionale “rettificata”, affermata a partire dal 2009.
che. discostandosi da Corte cost. n. 81 del 1992, è così sintetizzabile: i) l’ordine di reintegrazione e con esso il rapporto di lavoro si estinguono con la dichiarazione (recettizia) del lavoratore di opzione in favore dell’indennità sostitutiva; ii) nel periodo dall’esercizio dell’opzione all’effettivo pagamento dell’indennità sostitutiva sono dovute dal datore di lavoro al lavoratore le retribuzioni ovvero l’indennità risarcitoria commisurata alle retribuzioni.
c) quella più recente, affermata nel 2012, così sintetizzabile: i) l’ordine di reintegrazione e con esso il rapporto di lavoro si estinguono con la dichiarazione (recettizia) di opzione in favore dell’indennità sostitutiva; ii) nel periodo dall’esercizio dell’opzione all’effettivo pagamento dell’indennità sostitutiva il ritardato adempimento del datore di lavoro trova la sua regolamentazione nella disciplina dell’inadempimento dei crediti pecuniari del lavoratore (interessi legali e rivalutazione monetaria).
14. A quest’ultimo più recente orientamento – ritengono queste Sezioni Unite – deve darsi continuità, così componendo l’insorto contrasto di giurisprudenza.
15. La considerazione di fondo da farsi è che, ancorché non fosse espressamente previsto dal quinto comma dell’art. 18 Stat. lav. che il rapporto si intendeva risolto a seguito dell’esercizio dell’opzione, essendo l’unica risoluzione prevista quella per lo “spirare dei termini predetti” (i due termini di 30 gg. del quinto comma del vecchio art. 18), non di meno doveva logicamente ritenersi tale risoluzione per l’incompatibilità con la funzione dell’indennità sostitutiva.
Si è già osservato che l’operazione ermeneutica da compiere per affermare la risoluzione del rapporto con l’esercizio dell’opzione, comunicata dal lavoratore al datore di lavoro, muove all’interno del processo. L’indennità sostitutiva nasce per così dire come istituto processuale connesso alla prescritta provvisoria esecutorietà dell’ordine di reintegrazione (pronuncia in primo grado o, in ipotesi, in grado d’appello). A fronte della sentenza che contiene l’ordine di reintegrazione, l’opzione ha l’effetto “sostitutivo” di rimpiazzare ciò che il datore di lavoro, convenuto in giudizio e soccombente sul punto, deve fare per ottemperare alla sentenza: non è più tenuto a reintegrare il lavoratore illegittimamente licenziato, ma deve corrispondergli l’indennità sostitutiva.
Quest’ultima poi si evolve come istituto sostanziale nel momento in cui si sgancia dall’ordine di reintegrazione: diventa una delle conseguenze del licenziamento illegittimo in regime di tutela reale. Se il lavoratore illegittimamente licenziato può chiedere al giudice solo la condanna del datore di lavoro al pagamento dell’indennità sostitutiva, quest’ultima si “affianca” all’indennità risarcitoria e va a completare il quadro delle conseguenze economiche compensative del licenziamento illegittimo. Ossia assume la veste di istituto sostanziale e non più solo processuale. C’è comunque che nell’uno e nell’altro caso la spettanza dell’indennità risarcitoria è pur sempre condizionata all’illegittimità del licenziamento che è controverso e per il cui accertamento c’è una lite tra le parti. Rimane quindi un nesso che lega l’indennità sostitutiva al processo: l’opzione del lavoratore non è in alcun caso equivalente ad un’indennità per recesso per dimissioni per giusta causa.
Insomma non c’è un’obbligazione del datore di lavoro che nasca dal rapporto e in ordine alla quale ci si debba interrogare in quale categoria civilistica sia da inquadrare: nelle obbligazioni con prestazioni alternative oppure in quelle con facoltà alternativa, caratterizzate, le prime, dalla deduzione nel vincolo obbligatorio di più prestazioni poste sul piano di parità, e le seconde da più prestazioni poste in subordinazione tra loro, in modo che il debitore può liberarsi eseguendo la prestazione secondaria solo se rispetto ad essa sia stata esercitata, dal soggetto a cui è rimessa, la facoltà di scelta.
C’è una pronuncia del giudice di condanna del datore di lavoro a reintegrare nel posto di lavoro il lavoratore illegittimamente licenziato, pronuncia provvisoriamente esecutiva alla quale il datore di lavoro deve prestare ottemperanza; ove però il lavoratore eserciti l’opzione per l’indennità costitutiva, non si innesta alcuna facoltà alternativa nell’ottemperanza dell’ordine del giudice, ma questo risulta mutato nell’oggetto perché dal momento in cui l’opzione del lavoratore è comunicata al datore di lavoro e quindi è efficace, l’ottemperanza all’ordine di reintegra è possibile solo con la corresponsione dell’indennità sostitutiva. Il datore di lavoro non può più dare esecuzione all’ordine del giudice pretendendo che il lavoratore riprenda il servizio, così come il lavoratore in ipotesi reintegrato non può più pretendere, re melius perpensa, il pagamento dell’indennità sostitutiva.
Si tratta quindi di un istituto che attiene alla disciplina dell’esecuzione provvisoria della sentenza che rechi l’ordine di reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato.
In questo contesto processuale piuttosto che sostanziale – non smentito dalla circostanza che l’istituto si sia evoluto nel senso di ritenere ammissibile che fin dall’inizio il lavoratore possa domandare che l’ordine del giudice abbia ad oggetto la condanna al pagamento dell’indennità sostitutiva – la costruzione dell’indennità sostitutiva come obbligazione con facoltà alternativa dal lato del creditore risulta essere meramente descrittiva, ma non costituisce la fattispecie sostanziale in cui debba necessariamente inquadrarsi l’istituto in esame.
16. Il rilievo ermeneutico ulteriore da fare è che l’orientamento tradizionale – che predica la permanenza, fino al pagamento dell’indennità sostitutiva, del rapporto di lavoro con l’ordine di reintegrazione emesso dal giudice e dell’obbligazione avente ad oggetto l’indennità risarcitoria – ha una sua incoerenza interna.
Appare incoerente la configurazione di un rapporto di lavoro, ricostituito con l’ordine di reintegrazione ed asseritamente ancora esistente pur dopo l’esercizio dell’opzione da parte del lavoratore, in cui il sinallagma sarebbe completamente paralizzato: il datore di lavoro non può più pretendere la prestazione lavorativa e il lavoratore non può pretendere la controprestazione della retribuzione. Manca il proprium del rapporto di lavoro – ossia il sinallagma essenziale “prestazione lavorativa versus retribuzione” – con l’ulteriore anomalia che permarrebbero invece obbligazioni accessorie che discendono dal rapporto, quale per il lavoratore l’obbligo di non concorrenza e per il datore di lavoro eventuali obbligazioni legate alla mera anzianità di servizio; inoltre il lavoratore non potrebbe considerarsi inoccupato e non avrebbe titolo all’indennità di disoccupazione e agli istituti di mobilità. Insomma sarebbe privo di causa un rapporto di lavoro che rimarrebbe esistente a tempo indefinito quando né il lavoratore è tenuto ad effettuare la prestazione lavorativa né il datore di lavoro può pretenderla.
Se poi si considera che la giurisprudenza, sopra cit., ritiene che è possibile domandare l’indennità sostitutiva, in luogo della reintegrazione, già con il ricorso introduttivo del giudizio, emerge una asimmetria difficilmente spiegabile in chiave sistematica se si accede all’orientamento tradizionale che predica la persistenza del rapporto fino al pagamento dell’indennità sostitutiva della reintegrazione. In questo caso, se il giudice ritiene illegittimo il licenziamento, condanna il datore di lavoro direttamente al pagamento dell’indennità sostitutiva e non già alla reintegrazione. Non c’è alcuna obbligazione con facoltà alternativa e non si può ritenere che il rapporto sarà risolto solo quando l’indennità sarà pagata; ma al contrario il rapporto è da intendersi risolto già al momento della comunicazione dell’opzione del lavoratore, che in tal modo rende partecipe il datore di lavoro del suo disinteresse a proseguire il rapporto ove il licenziamento sia ritenuto illegittimo dai giudice.
Insomma non è possibile che vi siano due costruzioni diverse dell’indennità sostitutiva secondo che l’opzione venga esercitata quando è stato emesso dal giudice l’ordine di reintegrazione e, all’opposto, quando tale ordine non possa essere emesso perché non chiesto dal lavoratore che fin dall’atto introduttivo del giudizio abbia domandato solo l’indennità sostitutiva e non anche la reintegrazione. Se in questa seconda ipotesi la dichiarazione di opzione è idonea a far considerare risolto il rapporto, non essendo ipotizzarle alcuna funzione di rafforzamento dell’esecuzione di un ordine di reintegrazione che mai potrà intervenire, lo deve essere sempre sia che segua l’ordine di reintegrazione sia che prescinda da questo.
17. In breve, il rapporto di lavoro e con esso l’obbligo di reintegrazione cessano con la comunicazione dell’opzione del lavoratore in favore dell’indennità sostitutiva.
Questa conclusione, che porta a respingere l’orientamento tradizionale di cui sopra al n. 13 sub a), è anche orientata dalla piega che ha preso la giurisprudenza di questa Corte a partire dal 2009 nel senso che il contrasto si è da ultimo focalizzato tra l’orientamento sub b) e quello sub c) al n. 13 che precede, risultando abbandonata, in modo un po’ surrettizio, l’affermazione fatta dalla citata giurisprudenza costituzionale e in precedenza ripetuta più volte dalla giurisprudenza di questa Corte secondo cui il rapporto si estingue solo con la corresponsione dell’indennità sostitutiva della reintegrazione.
Da ciò consegue anche che in questa parte la legge n. 92 del 2012 che ciò prevede espressamente – stabilendo il terzo comma dell’art. 18 cit. nella formulazione vigente che la richiesta dell’indennità sostitutiva della reintegrazione “determina la risoluzione del rapporto di lavoro” – ha una valenza confermativa e chiarificatrice di quanto era già previsto e ricostruibile anche sulla base della precedente formulazione dell’art. 18cit..
18. L’affermata risoluzione del rapporto con la comunicazione dell’opzione non è però del tutto risolutiva dell’indicato contrasto di giurisprudenza.
Si è già notato che più recentemente nella giurisprudenza si pone l’accento non già sul fatto che il rapporto prosegue fino al pagamento dell’indennità sostitutiva (che anzi appare un po’ in ombra proprio perché è l’indice dell’incoerenza interna della costruzione), ma sul fatto che permane l’obbligazione avente ad oggetto l’indennità risarcitoria. È l’orientamento di cui sopra sub b) del n. 13.
Ma la conclusione appena raggiunta sub n. 17 (ossia il disconoscimento della permanenza del rapporto dalla richiesta del lavoratore dell’indennità sostitutiva fino al suo pagamento da parte del datore di lavoro) conduce anche ad escludere che, una volta estinto il rapporto, sopravviva un’obbligazione retribuiva – o risarcitoria parametrata alla retribuzione globale di fatto – fino all’effettivo pagamento dell’indennità sostitutiva. In tanto può plausibilmente dirsi che permanga l’obbligo di risarcire il danno conseguente all’atto illecito costituito dal licenziamento, parametrandolo alla retribuzione non percepita, obbligo che sussiste in riferimento al periodo dal licenziamento illegittimo all’ordine di reintegrazione, in quanto si ritenga che permanga il rapporto anche dopo l’esercizio dell’opzione e con esso permanga l’obbligo di reintegrazione.
Se invece si ritiene – come in effetti si ritiene – che il rapporto si risolve con la comunicazione dell’opzione, cade anche il fondamento dell’orientamento giurisprudenziale sub b), che quindi va anch’esso disatteso.
L’ipotizzata permanenza (solo) di tale obbligo risarcitorio presupporrebbe la persistenza dell’illecito che invece manca: dopo l’opzione la permanente estromissione del lavoratore dall’azienda non è più conseguenza della volontà del datore di lavoro di tenere il lavoratore fuori dall’azienda; anzi egli non può più pretendere che vi rientri. Ed allora la permanenza dell’obbligazione risarcitoria si giustificherebbe solo se dalla normativa in materia fosse possibile ricostruire una funzione di rafforzamento e di garanzia di un’altra obbligazione, parimenti pecuniaria, quella avente ad oggetto l’indennità sostitutiva. Ossia occorrerebbe ipotizzare una funzione di astreinte che però -in quanto istituto di carattere eccezionale – dovrebbe avere fondamento in una espressa previsione di legge perché comporta un aggravamento della responsabilità per inadempimento. Essa invece, nella fattispecie, manca di base legale che non può rinvenirsi in un generale principio di effettività della tutela, ma richiede una previsione espressa in ragione del carattere derogatorio dell’aggravamento della responsabilità per inadempimento.
Una astreinte per gli obblighi di fare infungibile o di non fare è stata sì prevista dalla riforma processuale del 2009 (cfr. art. 614 bis cod. proc. civ., articolo aggiunto dall’art. 49, comma 1, L. 18 giugno 2009, n. 69); ma sono stati espressamente esclusi i rapporti di lavoro subordinato pubblico e privato ed i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’art. 409 cod. proc. civ. per i quali vige un regime processuale differenziato.
D’altra parte la permanenza dell’obbligazione risarcitoria avrebbe, in quest’ottica, anch’essa un’incoerenza interna. La astreinte consisterebbe non già – come recita l’art. 614 bis cod. proc. civ. – in una “somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento”, ma nel protrarsi dell’obbligazione di risarcimento del danno conseguente al licenziamento illegittimo con la disciplina che le è tipica. Il regime dell’indennità risarcitoria comporta comunque che, ad es.. sarebbe deducibile aliunde perceplum; in questa evenienza la funzione di rafforzamento dell’adempimento dell’obbligazione avente ad oggetto l’indennità risarcitoria si indebolirebbe fino addirittura ad annullarsi. Se il lavoratore ha trovato una nuova meglio remunerata occupazione l’aliunde perceplum probabilmente coprirebbe tutta l’indennità risarcitoria e quindi nel lasso di tempo tra la dichiarazione di opzione e il pagamento dell’indennità sostitutiva nulla sarebbe dovuto dal datore di lavoro a titolo di ulteriore indennità risarcitoria per il ritardo nell’adempimento. Insomma la funzione di astreinte della permanenza dell’obbligazione risarcitoria sarebbe legata alla fattispecie concreta e potrebbe anche mancare del tutto con l’effetto che il ritardo del datore di lavoro nel pagamento dell’indennità sostitutiva sarebbe privo delle ordinarie conseguenze dell’inadempimento delle obbligazioni pecuniarie. Questa alcatorietà del rafforzamento della tutela non sarebbe coerente con la funzione della astreinte, di cui un modello legale è quello del cit. art. 614 bis cod. proc. civ..
Né si potrebbe ipotizzare che le ordinane conseguenze dell’inadempimento delle obbligazioni pecuniarie sarebbero comunque fatte salve perché si predicherebbe – in assenza di alcuna previsione di legge in tal senso – che la sanzione dell’inadempimento dell’obbligazione pecuniaria del datore di lavoro per il ritardo nel pagamento dell’indennità sostitutiva sarebbe non solo rinforzata dal l’ipotizzata astreinle, ma addirittura duplicata: da una parte il permanere dell’obbligo di risarcimento del danno per l’illegittimo licenziamento, d’altra parte gli interessi moratori e la rivalutazione monetaria per il ritardo nel pagamento dell’indennità sostitutiva della reintegrazione.
19. Vi è poi una considerazione esegetica desumibile dalla stessa legge n. 92 del 2012.
Si è già notato che la nuova disciplina dell’indennità sostitutiva è essenzialmente “confermativa” di quella previgente.
Il legislatore del 2012 – pur riformando radicalmente la c.d. tutela reale frammentando l’originario unico regime della reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato in quattro diversi tipi di tutela (re integratori a piena di cui al primo comma dell’art. 18 novellato; reintegratoria affievolita di cui al quarto comma; indennitaria nei due tipi del quinto e del sesto comma del medesimo art. 18) – ha però confermato, quanto alla tutela reintegratoria, l’istituto dell’indennità sostitutiva della reintegrazione, non senza dettare una previsione espressa sia quanto ai termini che quanto al momento della risoluzione del rapporto.
Quanto ai termini il terzo comma dell’art. 18 prevede che la richiesta dell’indennità deve essere effettuata entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza, o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione; regolamentazione questa che è conforme all’interpretazione prevalsa in giurisprudenza della previsione (meno chiara) del precedente quinto comma dell’art. 18. Ciò mostra come l’intento del legislatore sia stato, quanto a questo istituto, quello di chiarire e confermare l’esistente e non già di innovare.
Anche l’ulteriore previsione del terzo comma dell’art. 18 secondo cui la cui la richiesta dell’indennità sostitutiva determina la risoluzione del rapporto di lavoro è – per quanto sopra argomentato – meramente chiarificatrice e confermativa della disciplina precedente.
In questo contesto può leggersi come confermativa della previgente disciplina anche la circostanza che il legislatore non abbia introdotto alcuna specifica misura rafforzativa dell’ordinaria sanzione dell’obbligazione pecuniaria in cui si è convertita, per scelta del lavoratore, l’obbligazione di reintegrazione nel posto di lavoro quale oggetto della pronuncia del giudice che abbia accertato l’illegittimità del licenziamento in regime di tutela reale. Se il datore di lavoro ritarda la corresponsione dell’indennità integrativa, c’è la mora debendi con conseguente applicazione dell’art. 429, terzo comma, cod. proc. civ. salva la risarcibilità del danno ulteriore rispetto a quello coperto dagli interessi moratori ove il lavoratore ne offra la prova; danno riferito al periodo successivo alla risoluzione del rapporto, causato dal ritardo nell’adempimento, e non già danno riferito al periodo precedente e causato dall’illegittimo licenziamento, che è altro da ciò.
20. Per le ragioni esposte va quindi confermato l’abbandono dell’ancoraggio alla ricostruzione della Corte costituzionale (sentenza n. 81 del 1992, cit.), non senza ribadire, a corollario di quanto finora argomentato, che quella della Corte costituzionale era un’interpretazione meramente “correttiva” di quella dalla quale muoveva il giudice rimettente e non già un’interpretazione adeguatrice per superare un non manifestamente infondato dubbio di costituzionalità.
Ed infatti, pur accedendo alla (diversa) interpretazione qui accolta nella composizione del contrasto di giurisprudenza, la questione di costituzionalità del quinto comma dell’art. 18 sollevata a suo tempo (“perché attribuisce un privilegio ingiustificato sotto forma di diritto di dimissioni in tronco fondate su una causa – il pregresso licenziamento dichiarato illegittimo – ormai rimossa dalla sentenza che ha ordinato la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro”) – e che potrebbe essere riferita negli stessi termini anche nei confronti del terzo comma dell’art. 18 novellato dalla legge n. 92 del 2012 – appare essere manifestamente infondata in ragione della non comparabilità della fattispecie del licenziamento illegittimo, a fronte del quale sia esercitata dal lavoratore l’opzione per l’indennità sostitutiva, con la fattispecie delle dimissioni (in tronco) per giusta causa in cui non c’è alcun licenziamento. Si tratta di situazioni ben diverse e come tali, appunto, non comparabili (Le. rinuncia alla reintegrazione nel posto di lavoro da cui il lavoratore sia stato illegittimamente estromesso versus dimissioni per giusta causa).
Né il dubbio di costituzionalità potrebbe insorgere sotto il diverso profilo della ritenuta mancanza di una misura rafforzativa volta a sanzionare l’eventuale ritardo del datore di lavoro nella corresponsione dell’indennità sostitutiva della reintegrazione.
In proposito – con riferimento ad una fattispecie contigua (quella del lavoratore estromesso dal posto di lavoro in ragione dell’operatività di un termine illegittimamente apposto al contratto di lavoro) – può ricordarsi che la Corte costituzionale (sent. 11 novembre 2011 n. 303) – nel dichiarare infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 32, commi 5, 6 e 7, legge n. 183 del 2010, nella parte in cui prevede, nei casi di conversione in contratto a tempo indeterminato per illegittimità dell’apposizione del termine, una forfettizzazione del risarcimento – ha sì affermato che un’interpretazione adeguatrice (non già meramente correttiva) della disposizione censurata induce a ritenere che il danno forfetizzato dall’indennità risarcitoria copre soltanto il periodo “intermedio”, quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto. Ma – ha precisato la Corte – a partire dalla sentenza con cui il giudice, rilevato il vizio della pattuizione del termine, converte il contratto di lavoro che prevedeva una scadenza in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, è da ritenere che il datore di lavoro sia indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore ed a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva.
Quindi, in tanto c’è la persistenza dell’obbligo retributivo per un ammontare crescente progressivamente alla durata dell’inadempimento del datore di lavoro con evidente effetto dissuasivo per quest’ultimo, in quanto il rapporto prosegue. Sicché – con argomento a contrario – nella fattispecie qui in esame, se il rapporto deve intendersi come risolto per effetto della rinuncia del lavoratore alla reintegrazione con l’opzione in favore dell’indennità sostitutiva della stessa, non c’è alcun obbligo retributivo né risarcitorio che permanga e non è ipotizzabile un effetto dissuasivo dell’inadempimento – o del ritardo nell’adempimento – di un’obbligazione pecuniaria al di là dell’ordinaria disciplina della mora debendi.
21. In conclusione l’esaminato contrasto di giurisprudenza va composto dando continuità all’orientamento giurisprudenziale di cui sopra al n. 13 sub c), espresso da Cass. nn. 15869 e 16228 del 2012, cit..
Ai sensi dell’art. 384, primo comma, cod. proc. civ. va affermato il seguente principio di diritto: “Ove il lavoratore illegittimamente licenziato in regime di c.d. tutela reale – quale è quello, nella specie applicabile ratione temporis, previsto dall’art. 18 legge 20 maggio 1970 n. 300, nel testo precedente le modifiche introdotte con la legge 28 giugno 2012, n. 92 – opti per l’indennità sostitutiva della reintegrazione, avvalendosi della facoltà prevista dal quinto comma dell’art. 18 cit., il rapporto di lavoro si estingue con la comunicazione al datore di lavoro di tale opzione senza che permanga, per il periodo successivo in cui la prestazione lavorativa non è dovuta dal lavoratore né può essere pretesa dal datore di lavoro, alcun obbligo retributivo con la conseguenza che l’obbligo avente ad oggetto il pagamento di tale indennità è soggetto alla disciplina della mora debendi in caso di inadempimento, o ritardo nell’adempimento, delle obbligazioni pecuniarie del datore di lavoro, quale prevista dall’art. 429, terzo comma, cod. proc. civ., salva la prova, di cui è onerato il lavoratore, di un danno ulteriore”.
22. Per tutte le ragioni esposte il ricorso deve ritenersi infondato.
Sussistono giustificati motivi (in considerazione dell’evoluzione giurisprudenziale sulle questioni dibattute e della problematicità delle stesse nel contesto del progressivo assetto del diritto vivente) per compensare tra le parti le spese di questo giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso; compensa tra le parti le spese di questo giudizio di cassazione.