Suprema Corte di Cassazione
sezione VI
sentenza n. 28603 del 3 luglio 2013
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 2 ottobre 2012 la Corte d’appello di Milano ha dichiarato inammissibile per data 30 settembre 2011 nei confronti di S.L. e P.M., confermandola nel resto e condannando l’appellante parte civile – C.F. – al pagamento delle spese processuali del grado,
2. Con sentenza del 30 settembre 2011 il Tribunale di Milano aveva assolto S.L. e P.M., nelle rispettive qualità di direttore dell’area territoriale Lombardia della B.N.L., e di direttore dell’unità di controllo dei rischi di area del predetto istituto, dal reato di cui agli artt. 110, 572, comma 2, c.p., con la formula perché il fatto non sussiste, in relazione ad atti di maltrattamento sul lavoro, e segnatamente di “straining”, posti in essere nei confronti di C.F., funzionario amministrativo della filiale di Milano – Centro della B.N.L., nel periodo intercorrente fra il mese di gennaio 2005 ed il mese di luglio 2008, dai quali era derivata, secondo l’accusa, la grave lesione consistita nella causazione di un’incapacità di attendere alle proprie ordinarie occupazioni per un periodo di tempo superiore a quaranta giorni. La sentenza di primo grado aveva escluso che i fatti oggetto dell’imputazione potessero integrare la fattispecie incriminatrice del delitto di maltrattamenti, pervenendo alla decisione assolutoria sulla base di una ricostruzione ermeneutica degli elementi costitutivi dei “tipo” di reato poi fatta propria anche dal Giudice di secondo grado, che ha posto in evidenza come l’ambito lavorativo risultasse comunque incompatibile con la nozione di “famiglia” o di ambiente “parafamiliare” cui fa riferimento la contestata norma incriminatrice.
3. Avverso la su indicata sentenza della Corte d’appello di Milano ha proposto ricorso per cassazione il difensore della parte civile, deducendo due motivi di doglianza il cui contenuto viene qui di seguito sinteticamente riassunto.
3.1. Inosservanza ed erronea applicazione della legge penale e difetto di motivazione ex art. 606, lett. b) e lett. e), c.p.p., in relazione all’art. 572 c.p., dovendosi ritenere irragionevole l’esclusione a priori dell’applicabilità della su indicata norma incriminatrice agli ambienti lavorativi di grosse dimensioni, come quello in cui lavora il ricorrente: il criterio dimensionale dell’azienda, infatti, non avrebbe nulla a che vedere con la natura del bene giuridico protetto dalla norma, rilevando ai fini della punibilità solo il valutare se le condotte prevaricatrici tenute dal superiore gerarchico del lavoratore, con il quale questi aveva un rapporto personale e diretto, abbiano o meno influito sulla sua personalità e sulla sua integrità psico-fisica. Ai fini della configurabilità del reato contestato, peraltro, diversamente da quanto affermato in sentenza, non si richiede che l’imputato abbia realizzato la pluralità di condotte in un’unica ed ininterrotta sequenza temporale, ben potendo le stesse essere intervallate da periodi di forzata inattività del lavoratore – durante i quali, pertanto, il soggetto attivo non ha avuto modo di proseguire la propria condotta vessatoria – e tuttavia causalmente riconducibili proprio a quella condotta, contribuendo a rendere insostenibile la condizione lavorativa ed esistenziale della vittima. È altresì pacifico che gli imputati, pur non essendo formalmente datori di lavoro del ricorrente, erano i suoi superiori gerarchici ed avevano con lui un rapporto diretto e costante di interazione personale, decidendo le sue mansioni quotidiane ed i suoi spostamenti di ruolo: essi, pertanto, esercitavano in concreto un potere di gestione e di controllo della sua intera attività lavorativa, esprimendo nei suoi confronti quell’“autorità” richiesta dalla norma per la configurazione del reato. Ne discenderebbe, in tal senso, l’irrilevanza dell’affermazione circa l’inesistenza di un potere disciplinare dei prevenuti nei confronti del C.
3.2. Mancanza e manifesta illogicità della motivazione, ex art. 606, lett. e), c.p.p., in ordine al proscioglimento degli imputati dal reato di lesioni personali, contestato nel capo d’imputazione a titolo dì aggravante del reato di maltrattamenti, in quanto la Corte d’appello, una volta venuto meno l’assorbimento delle lesioni gravi nell’aggravante del reato di cui all’art. 572 c.p., avrebbe dovuto valutare le conseguenze dell’accertamento in fatto dell’esistenza delle lesioni cagionate dagli imputati alla ricorrente parte civile, lesioni che riacquisterebbero un rilievo autonomo, una volta esclusa la configurabilità della fattispecie assorbente.
4. Con memoria depositata in data 11 marzo 2013, i difensori di fiducia di L.S. hanno illustrato un’articolata serie di argomentazioni a sostegno della necessità della presenza di una matrice essenzialmente “familiare” dell’ipotizzata fattispecie di reato, contestando, altresì, nel merito le deduzioni della parte civile e chiedendo il rigetto del ricorso dalla stessa presentato. 5. Con memoria depositata nell’interesse di M.P. in data 22 marzo 2013, il difensore di fiducia ha svolto una serie di considerazioni critiche in ordine ad entrambi i motivi di ricorso dedotti dalla parte civile, chiedendo che ne venga dichiarata l’inammissibilità, o comunque la manifesta infondatezza, traducendosi le relative doglianze in un indebito tentativo dì rivisitazione del fatto, la cui ricostruzione, come è noto, è intangibile in sede di legittimità.
6. Con memoria presentata nell’interesse della parte civile in data 14 marzo 2013, la difesa ha svolto ulteriori argomenti a sostegno dei motivi posti a fondamento del proprio ricorso, insistendo per il suo accoglimento.
Considerato in diritto
7. Il ricorso è parzialmente fondato e va pertanto accolto nei limiti e per gli effetti di seguito esposti e precisati.
8. Infondato deve ritenersi il primo motivo di doglianza, ove si consideri il lineare percorso motivazionale seguito dalla sentenza impugnata, che, nel confermare le valutazioni al riguardo già esaustivamente espresse dal Giudice di prime cure, ha fatto buon governo della legge penale, avvalendosi di un apparato argomentativo strettamente ancorato a precise emergenze processuali, ed offrendo un’adeguata e logica giustificazione delle ragioni individuate a sostegno della conclusione cui la stessa è, sotto tale profilo, pervenuta. In particolare, i Giudici di merito hanno evidenziato, all’esito di un’analisi critica ed approfondita delle risultanze probatorie, il dato dell’oggettiva incompatibilità, con la nozione, pur semanticamente dilatata, di “famiglia” o di “ambiente parafamiliare”, dell’ambito lavorativo in cui sono maturate le azioni ostili poste in essere nei confronti del C. (azioni, peraltro, numericamente limitate e temporalmente distanziate, poste in essere in assenza di un potere disciplinare nei suoi confronti effettivamente esercitabile da parte degli imputati, ma comunque tali da realizzare in suo danno, come rilevato nella sentenza dei Giudice di prime cure, un ingiustificato demansionamento, oltre che un “disturbo dell’adattamento”, seppur di grado lieve, insorto dal 2005 come diretta conseguenza della situazione lavorativa penalizzante in cui egli si è trovato ad operare).
Dalla motivazione della sentenza di primo grado emergono, infatti, taluni comportamenti discriminatori subiti dal C., e segnatamente: la sottrazione di responsabilità in favore di altra dipendente, ingiustificatamente favorita dai suoi dirigenti durante il servizio espletato presso l’unità “Customer Care” della Lombardia; le ingiuste ed aspre critiche alla sua professionalità; la convocazione di un incontro intersindacale finalizzato a criticare il suo comportamento proprio nel periodo in cui si era messo ferie per riprendersi dalle dure critiche ricevute dai suoi superiori; la sua estromissione dal servizio “Customer Care” nell’agosto del 2005; il successivo inserimento in mansioni dequalificanti, con allocazione in un vero e proprio “sgabuzzino”, spoglio e sporco, e l’assegnazione a mansioni meramente esecutive e ripetitive, prima come componente di staff del direttore S., poi alle dipendenze del P., come addetto all’unità di controllo rischi, ecc.
Si tratta di comportamenti complessivamente ritenuti idonei a dequalificarne la professionalità, comportandone il passaggio da mansioni contrassegnate da una marcata autonomia decisionale a ruoli caratterizzati, per contro, da “bassa e/o nessuna autonomia”, e dunque tali da marginalizzarne, in definitiva, l’attività lavorativa, con un reale svuotamento delle mansioni da lui espletate. Sotto altro, ma connesso profilo, i Giudici di merito hanno sottolineato come l’ambito lavorativo fosse generalmente connotato dall’instaurazione di un rapporto distaccato e formale, le cui modalità di esecuzione comunque consentivano al dipendente di avvalersi di un complesso di garanzie idonee a reagire alle ingiuste offese subite, e che, per le dimensioni stesse della multinazionale BNL. ed in ragione della sua complessa articolazione strutturale, non potevano propriamente ricollegarsi al contenuto della nozione cui fa riferimento la contestata fattispecie incriminatrice.
8.1. Pur essendo tale situazione di fatto astrattamente riconducibile alla nozione di “mobbing”, sia pure in una sua forma di manifestazione attenuata, dai Giudici di merito denominata nel caso di specie come “straining”, occorre tuttavia rilevare che, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale di questa Suprema Corte, le pratiche persecutorie realizzate ai danni dei lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, dal formarsi di consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra (rapporto supremazia-soggezione), dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia, e come tale destinatario, quest’ultimo, di obblighi di assistenza verso il primo (Sez. 6, n. 26594 del 06/02/2009, dep. 26/06/2009, Rv. 244457; Sez. 6, n. 685 del 22/09/2010, dep. 13/01/2011, Rv. 249186; Sez. 6, n. 43100 del 10/10/2011, dep. 22/11/2011, Rv. 251368; Sez. 6, n. 16094 del 11/04/2012, dep. 27/04/2012, Rv. 252609).
La modulazione di tale rapporto, dunque, avuto riguardo alla ratio della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 572 c.p., deve comunque essere caratterizzata dal tratto della “familiarità”, poiché è soltanto nel limitato contesto di un tale peculiare rapporto di natura para-familiare che può ipotizzarsi, ove si verifichi l’alterazione della sua funzione attraverso lo svilimento e l’umiliazione della dignità fisica e morale del soggetto passivo, il reato di maltrattamenti: si pensi, in via esemplificativa, al rapporto che lega il collaboratore domestico alle persone della famiglia presso cui svolge la propria opera o a quello che può intercorrere tra il maestro d’arte e l’apprendista. L’inserimento di tale figura criminosa tra i delitti contro l’assistenza familiare si pone in linea, del resto, ceri il ruolo che la stessa Costituzione assegna alla “famiglia”, quale società intermedia destinata alla formazione e all’affermazione della personalità dei suoi componenti, e nella stessa prospettiva ermeneutica vanno letti ed interpretati soltanto quei rapporti interpersonali che si caratterizzano, al di là delle formali apparenze, per una natura parafamiliare. Siffatta connotazione, tuttavia, deve escludersi nel caso in esame, considerato che la posizione lavorativa del ricorrente, come si è poc’anzi accennato, era inquadrata all’interno di una realtà aziendale complessa (la B.N.L.), la cui articolata organizzazione – attraverso la previsione di “quadri intermedi” – non implicava certo l’instaurarsi di quella stretta ed intensa relazione diretta tra il datore di lavoro ed il dipendente, che appare in grado dì determinarne una comunanza di vita assimilabile a quella caratterizzante il consorzio familiare.
Ne discende, inevitabilmente, il manifestarsi di una realtà connotata da una marginalizzazione dell’intensità dei rapporti intersoggettivi, nel senso che non ne viene esaltato quell’aspetto personalistico strettamente connesso alla dinamica relazionale “supremazia-soggezione”, individuabile fra soggetti che si trovano ad operare su piani diversi.
Conseguentemente, sulla base di quanto concordemente evidenziato, con congrue ed esaustive argomentazioni, dai Giudici di merito, non è in alcun modo apprezzabile, all’interno di tale vicenda storico-fattuale, la riduzione del soggetto più debole in una condizione esistenziale dolorosa ed intollerabile a causa della sopraffazione sistematica di cui egli sarebbe rimasto vittima all’interno di un rapporto quanto meno assimilabile a quello di natura familiare.
Se, da un lato, è vero che l’art. 572 c.p. ha “allargato” l’ambito delle condotte che possono configurare il delitto di maltrattamenti anche oltre quello strettamente endo-familiare, è pur vero, dall’altro, che la fattispecie incriminatrice è inserita nel titolo dei delitti in materia familiare ed espressamente indica nella rubrica la limitazione alla famiglia ed ai fanciulli, sicché non può ritenersi idoneo a configurarla il mero contesto di un generico rapporto di subordinazione/sovraordinazione.
Da qui la ragione dell’indicazione dei requisito della parafamiliarità del rapporto di sovraordinazione, che si caratterizza per la sottoposizione di una persona all’autorità di un’altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita (anche lavorativa) proprie e comuni alle comunità familiari, non ultimo per l’affidamento, la fiducia e le aspettative del sottoposto rispetto all’azione di chi ha ed esercita su di lui l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità.
Se così non fosse, come peraltro si è già avuto modo di osservare in questa Sede, ogni relazione lavorativa caratterizzata da ridotte dimensioni e dal diretto impegno del datore di lavoro dovrebbe, per ciò solo, configurare una sorta di comunità (para)familiare, idonea ad imporre la qualificazione in termini di violazione dell’art. 572 c.p. di condotte che, pur di eguale contenuto ma poste in essere in un contesto più ampio, avrebbero solo rilevanza in ambito civile (il cd “mobbing” in una realtà lavorativa, cui fa riferimento, tra le altre, la su citata sentenza della Sez. 6, n. 685/2011), con evidente profilo di irragionevolezza del sistema (Sez. 6, n. 12517 del 28/03/2012, dep. 03/04/2012, Rv. 252607). Né infine, potrebbero trarsi al riguardo, argomenti in senso contrario dall’analisi della recente interpolazione del testo normativo attraverso la modifica introdotta dalla novella legislativa n. 172 del 1° ottobre 2012, recante “Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, fatta a Lanzarote il 25 ottobre 2007, nonché norme di adeguamento dell’ordinamento interno”. L’art. 4, comma 1, lett. d), della legge sopra citata ha sostituito l’art. 572 c.p. novellandone la rubrica, ora denominata “Maltrattamenti contro familiari e conviventi”, ed aggiungendo i conviventi nel novero dei soggetti passivi del reato, ma la natura (abituale) e la struttura dei reato di maltrattamenti (prima “in famiglia o verso fanciulli”, ora “contro familiari e conviventi”) sono rimaste sostanzialmente immutate. Le novità, infatti, riguardano essenzialmente ia previsione di un complessivo inasprimento del trattamento sanzionatorio e l’estensione della tutela nei confronti di persone “comunque conviventi”, in una prospettiva orientata, per un verso, a valorizzare l’incidenza della relazione intersoggettiva nell’ambito di operatività della fattispecie, e, per altro verso, ad allargare anche ad un rapporto di mera “convivenza” – non necessariamente qualificato dalla particolare natura del legame che ha portato alla sua instaurazione – la rilevanza del rapporto “familiare”, ferme restando le altre relazioni di tipo non propriamente familiare, la cui elencazione è rimasta immutata.
9. Meritevole di accoglimento, per contro, deve ritenersi il secondo motivo di doglianza dal ricorrente prospettato, ove si consideri che il fatto della causazione di lesioni consistite in “disturbo dell’adattamento, reazione depressiva prolungata da problemi sul lavoro”, comportante un’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore a giorni quaranta (condizione psichica riscontrata il 6 ottobre 2005 e perdurante al 14 dicembre 2009), costituiva oggetto di una chiara ed espressa contestazione all’interno del tema d’accusa, sì da imporne un complessivo apprezzamento da parte della Corte distrettuale. L’impugnata pronuncia, dunque, pur avendo escluso la sussistenza del reato di maltrattamenti, non poteva certo premettere la valutazione della rilevanza di condotte – emergenti, peraltro, dalla stessa ricostruzione del compendio storico-fattuale — idonee a configurare altre fattispecie di rilievo penale, pur meno gravi, che come tali dovevano comunque essere prese in considerazione nell’ambito della cognizione di merito (arg. ex Sez. 6, n. 28481 del 17/04/2012, dep. 16/07/2012, Rv. 253695).
La contestazione, sia pure a titolo di circostanza aggravante ex art. 572, comma 2, cod. pen., di un nucleo della condotta autonomamente isolabile nei suoi contorni storico-fattuali, non ne determina certo la giuridica irrilevanza, una volta che sia stata esclusa la configurabilità del delitto di maltrattamenti.
Al riguardo, invero, sulla base di una costante linea interpretativa tracciata da questa Suprema Corte, deve rilevarsi come, nella materialità del delitto di cui all’art. 572 cod. pen, rientrino non soltanto percosse, minacce, ingiurie, privazioni imposte alla vittima, ma anche attidi scherno, disprezzo, umiliazione ed asservimento idonei a cagionare durevoli sofferenze fisiche e morali alla vittima. Ne consegue che è riservato alla valutazione del giudice di merito accertare se singoli episodi vessatori rimangano assorbiti nel reato di maltrattamenti (ad esempio, lesioni non volute), oppure integrino ipotesi criminose autonomamente volute dall’agente e, pertanto, concorrenti con il delitto di cui all’art. 572 cod. pen (Sez. 6, n. 16661 del 29/0511990, dep. 19/12/1990, Rv. 186109). Entro tale prospettiva, infatti, si è più volte affermato che il delitt:o di lesioni personali volontarie non può ritenersi assorbito in quello di maltrattamenti in famiglia, trattandosi di illeciti che concorrono materialmente tra loro per la diversa obiettività giuridica (Sez. 6, n. 12936 del 07/05/1986, dep. 19/11/1986, Rv. 174326), sì da configurare un reato autonomo in concorso materiale con quello di maltrattamenti (Sez. I, n. 757 del 09/05/1969, dep. 13/10/1969, Rv. 112914; da ultimo, v. Sez. 6, n. 28367 del 11/05/2004, dep. 23/06/2004, Rv. 229591; Sez. 6, n. 13898 del 28/03/2012, dep. 12/04/2012, Rv. 252585; v,, inoltre, Sez. I, n. 7043 del 09/11/2005, dep. 24/02/2006, Rv. 234047). 10. Conclusivamente ne discende, per quel che attiene al reato di lesioni personali, l’annullamento della sentenza impugnata ai soli effetti civili, con il rinvio al giudice civile ex art. 622, seconda parte, cod. proc. pen., quale statuizione oggettivamente limitata alle ipotesi in cui la sentenza di proscioglimento dell’imputato venga caducata esclusivamente in accoglimento del ricorso della parte civile, mancando o venendo “in toto” respinti altri ricorsi rilevanti agli effetti penali. Un epilogo decisorio, quello or ora indicato, ricavabile, oltre che dalla lettera della norma, dalla sua stessa “ratio”, che è quella di evitare ulteriori interventi del giudice penale quando non vi sia più nulla da accertare agli effetti penali (Sez. 6, n. 6645 del 21/04/1997, dep. 09/07/1997, Rv. 209727; Sez. 2, n. 12831 del 20/02/2002, dep. 19/03/2003, Rv. 224295).
La parte civile, infatti, nonostante la modifica dell’art. 576 cod. proc. pen., ad opera della legge n. 46/2006, conserva il potere di impugnare le sentenze di proscioglimento ed il giudice dell’impugnazione ha, nei limiti del devoluto ed agli effetti della devoluzione, il potere di affermare la responsabilità dell’imputato agli effetti civili – come indirettamente conferma il disposto dell’art. 622 c.p.p. – e di condannarlo al risarcimento o alle restituzioni, n quanto l’accertamento incidentale equivale, virtualmente, alla condanna di cui all’art. 578 c.p.p, (Sez. 1, 26 aprile – 7 maggio 2007, n. 17321, Rv. 236599), ma certamente non può emettere sentenza di condanna anche agli effetti penali, senza violare il giudicata in assenza, come nel caso in esame, dell’impugnazione del P.M. (Sez. 6, n. 41479 del 25/10/2011, dep. 14/11/2011, Rv. 251061).
P.Q.M.
annulla la sentenza impugnata agli effetti civili con riferimento al reato di lesioni personali e invia al giudice civile competente per valore in grado d’appello.
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