marijuana

Suprema Corte di Cassazione

sezione VI

sentenza 2 aprile 2014, n. 15152

1. Con il ministero dei rispettivi difensori i tre imputati indicati in epigrafe impugnano per cassazione la sentenza in data 20.3.2013 della Corte di Appello di Catanzaro, che ha confermato la decisione, resa all’esito di giudizio abbreviato, con cui il G.I.P. del Tribunale di Crotone li ha dichiarato colpevoli del delitto di concorso in illecita coltivazione di 213 piante di canapa indiana di altezza variabile (da 70 a 120 cm.) idonee alla produzione, per l’avanzato stato di infiorescenza e maturazione rilevato dal consulente chimico del p.m., di sostanza stupefacente del tipo marijuana per “migliaia di singole dosi” droganti (l’indagine chimica esperita su due piante prelevate a campione ha attestato la presenza di principio attivo – THC corrispondente a 121 dosi medie).
1.1. Fatto criminoso accertato il 15.5.2012 con contestuale arresto dei prevenuti ad opera della p.g., che nell’occasione ha accertato – come segnala la sentenza di primo grado – l’ordinata conduzione della piantagione abusiva e altresì l’imminente messa a dimora di ulteriori 21 piante di cannabis indica recate sul posto dagli imputati, ai quali sono state inflitte le pene, concesse a tutti le attenuanti generiche stimate equivalenti alla recidiva per M. e Mi. : di quattro anni e sei mesi di reclusione ed Euro 30.000 di multa per M. ; di quattro anni di reclusione ed Euro 24.000 di multa per Mi. ; di tre anni di reclusione ed Euro 18.000 di multa per Ma. .
1.2. In particolare e tra l’altro la Corte di Appello ha disatteso la tesi difensiva degli imputati incentrata sul preteso carattere “rudimentale” della piantagione (“piante allocate lungo l’alveo di un fiume sicché era semplice e agevole procurarsi l’acqua per innaffiare le piante rigogliose e curate…particolare cura mostrata nel tenere la coltivazione…zona prescelta ottimale”) e lo speculare assunto di una pretesa coltivazione “per uso personale” della sostanza drogante ricavabile dalle piante. Sostanza che, alla luce degli esami chimici svolti con corretta metodologia tecnica, esclude – per l’elevato numero di dosi fornite dalla piantagione – la riconoscibilità dell’attenuante speciale di cui all’art. 73 co. 5 L.S. (oggi divenuta autonoma ipotesi di reato a seguito della novella normativa di cui al D.L. 146/2013 convertito in L. 21.2.2014 n. 10). Ciò tanto più quando si consideri che per la punibilità della coltivazione abusiva non rileva, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, il grado di maturazione raggiunto dalle piante di cannabis, ma l’idoneità anche solo potenziale delle stesse (già con la posa dei semi) a dar luogo ad una germinazione con capacità stupefacente (la sentenza cita la decisione Sez. 4, 8.10.2008 n. 44287, Taormina, rv. 241991).
Quanto alle pene inflitte agli imputati, la Corte territoriale ha ritenuto le stesse eque e commisurate alla offensività del contestato reato, puntualizzando che l’estensione della piantagione, gli esiti delle indagini chimiche e la cospicua quantità di dosi droganti ricavabili – in uno alla personalità degli imputati fatta palese per M. e Mi. dalla recidiva anche specifica – non consentono di rimodulare le pene in senso più favorevole agli imputati; pene calcolate – per altro – muovendo dal minimo edittale per Mi. e Ma. , “negato” a M. per la maggiore gravità dei suoi trascorsi (minimo edittale pari a sei anni di reclusione, ai sensi dell’art. 73 co. 1 L.S. nel testo modificato con L. 21.2.2006 n. 49, oggi caducato per effetto della incostituzionalità della disposizione dichiarata con la sentenza n. 32/2014 della Consulta).
2. Con i ricorsi dei tre imputati si formulano le censure di seguito sintetizzate.
2.1. Nell’interesse di M.D. il difensore denuncia violazioni di legge e difetto e illogicità della motivazione sotto più profili.
2.1.1. La coltivazione di piante stupefacenti integra un reato di pericolo presunto che richiede, nel rispetto del principio di offensività, l’accertamento della pericolosità reale della condotta. L’assenza di una specifica indagine sulla natura e sul sesso delle piante coltivate dagli imputati (solo la pianta “femmina” produce frutti e semi contenenti il principio stupefacente espresso in THC), atteso che il consulente chimico ha analizzato solo due piante in base a una non corretta selezione dei “campioni”, impedisce un serio calcolo del principio attivo estraibile dalle piante.
2.1.2. L’evenienza suffraga la ragionevolezza della tesi, sbrigativamente respinta dalla Corte di Appello, di una “coltivazione per uso personale o di gruppo”, ricadente pur sempre nell’ampio genus della detenzione di sostanza stupefacente. Con la conseguenza che, ove si accerti la destinazione esclusiva del prodotto all’uso personale dell’imputato, la condotta da questi posta in essere dovrebbe considerarsi “depenalizzata” (siccome sussumibile nella previsione di cui all’art. 75 L.S.).
2.1.3. In via subordinata appare ingiustificato il diniego della attenuante speciale della collaborazione (art. 73 co. 7 L.S.), poiché i giudici di secondo grado non hanno apprezzato la spontaneità e la particolare efficacia dell’apporto conoscitivo del M. .
2.1.4. Del pari non è sorretto da adeguata motivazione il diniego del giudizio di prevalenza (sulla contestata recidiva) delle attenuanti generiche pur concesse al ricorrente, di cui la Corte territoriale non ha valutato la personalità, la vita lavorativa anteatta, la condizione sociale e familiare.
2.1.5. Con atto denominato “motivi aggiunti”, depositato in cancelleria il 5.3. 2014, il difensore del M. ha invocato l’applicazione della recente sentenza n. 32/2014, con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionali le disposizioni della L. 49/2006 modificative della disciplina penale degli stupefacenti, così reintroducendo il previgente regime precettivo e sanzionatorio, imperniato sulla radicale differenza tra droghe c.d. pesanti e droghe c.d. leggere e su un connesso diverso regime punitivo, assai più mite per le sostanze del secondo tipo rispetto a quello stabilito dalla normativa divenuta oggi incostituzionale. Sicché al M. risulta applicata una pena, assunta a base del calcolo della sanzione, superiore al massimo della pena prevista dalla (di nuovo) vigente norma incriminatrice applicabile alle droghe leggere (art. 73 co. 4 L.S.).
2.2. Con unico atto d’impugnazione il difensore di Mi.Vi. e Ma.Sa. denuncia erronea applicazione degli artt. 192 co. 1 c.p.p. e 73 co. 5 L.S..
2.2.1. Con gli stessi argomenti enunciati nel ricorso del M. si osserva che le piante in sequestro sono state distrutte dopo la campionatura, avvenuta senza distinzione tra piante di sesso femminile (le sole rilevanti ai fini della produzione di sostanza stupefacente) e di sesso maschile. Il dato tossicologico emerso dai campioni esaminati è stato così impropriamente moltiplicato per il globale numero di piante coltivate e di conseguenza la totalità delle dosi droganti estraibili dalla piantagione risulta in radice sminuita. Ne discende che l’ipotizzato insieme delle dosi droganti non può considerarsi idoneo ad escludere la configurabilità della attenuata o meno grave ipotesi prevista dall’ari 73 co. 5 L.S..
2.2.2. Anche nell’interesse del Mi. e del Ma. è stata presentata una memoria difensiva, denominata “motivi nuovi” (depositata il 28.2.2014), con cui – alla luce degli effetti abrogativi indotti dalla decisione costituzionale n. 32/2014 – si sollecita l’applicazione dell’art. 73 co. 4 L.S. nel testo anteriore alla riforma operata dalla legge 49/2006 dichiarata costituzionalmente illegittima. Tale anteriore e oggi di nuovo vigente disposizione prevede un diverso regime punitivo per i fatti reato concernenti le droghe leggere, sanzionati con pene largamente inferiori a quelle applicate ai due ricorrenti.
3. Le censure delineate dai tre ricorrenti e relative al merito fattuale e giuridico della regiudicanda, cioè attinenti alla sussistenza del fatto reato loro ascritto e alla sua qualificazione giuridica sono infondate (i tre imputati non contestano la concorsuale riferibilità storica del fatto alle loro persone).
3.1. I rilievi, comuni ai tre ricorrenti, in punto di omessa verifica della concreta offensività della condotta di illecita coltivazione delle 213 piante di canapa indiana sequestrate dalla p.g. per asserito mancato accertamento del totale principio attivo stupefacente presente nelle piante non hanno pregio.
Premesso, sul piano storico-processuale, che – per quanto si evince dalle due conformi decisioni di merito – nessuno dei tre imputati ha sostenuto di fare uso di sostanze stupefacenti e in particolare di marijuana, occorre ribadire che la sentenza n. 360/1995 della Corte Costituzionale (manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 73 e 75 L.S. nella parte in cui prevedono l’illiceità penale della coltivazione di piante da cui siano estraibili sostanze stupefacenti univocamente destinate all’uso personale degli agenti) non ha configurato come non punibile la coltivazione di piante capaci di produrre sostanze stupefacenti destinate al consumo personale dei “coltivatori”, ma ha unicamente posto l’accento sulla pur sempre necessaria verifica, alla stregua di un giudizio di merito, della “offensività specifica della singola condotta in concreto accertata” e della sua effettiva idoneità a vulnerare il bene giuridico protetto (contrasto al consumo di droghe), in difetto della quale la condotta diviene priva della tipicità e non più riconducibile alla norma incriminatrice.
Tale decisione del giudice delle leggi è stata tenuta ben presente dalle Sezioni Unite di questa S.C. (S.U., 24.4.2008 n. 28605, Di Salvia, rv. 239920) che hanno definitivamente chiarito come integri un contegno penalmente apprezzabile ogni attività non autorizzata di coltivazione di piante da cui siano estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia attuata in funzione di un uso soltanto personale del prodotto della coltivazione (così anche, ex plurimis: Sez. 6,13.10.2009 n. 49528, P.M. in proc. Lanzo, rv. 245648; Sez. 6,9.12.2009 n. 49523, Cammarota, rv. 245661).
Chiarito che, come affermano le Sezioni Unite, qualsiasi tipo di coltivazione è caratterizzato da un dato essenziale e distintivo rispetto alla fattispecie di detenzione di sostanze droganti, che è quello di contribuire ad accrescere in qualunque entità, pur se mirata a soddisfare esigenze di natura personale, la quantità di sostanza stupefacente esistente (“la coltivazione presenta la peculiarità di dar luogo ad un processo produttivo astrattamente capace di autoalintentarsi attraverso la riproduzione dei vegetali”), l’attenzione nel caso dei ricorrenti si sposta sulla verifica di offensività della condotta criminosa, proprio alla luce del dictum della Sezioni Unite, sintonico con la ricordata decisione n. 360/1995 della Corte Costituzionale, sì che “l’offensività non ricorre soltanto se la sostanza ricavabile dalla coltivazione non è idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile” (cfr., ex multis: Sez. 6, 10.12.2012 n. 12616/13, Floriano, rv. 254891; Sez. 6, 2.5.2013 n. 22110, P.M. in proc. Capuano, rv. 255732). Eventualità, questa, da escludersi a fronte della accertata capacità produttiva di droga (marijuana) delle piante sequestrate ai tre ricorrenti e che rende inconferenti i rilievi in tema di correttezza dell’esperita indagine chimico-tossicologica.
In proposito è opportuno puntualizzare, come precisato da recente decisione di questa S.C., che – in relazione alla specificità del fatto materiale di coltivazione – non può aversi riguardo allo stadio (iniziale, in corso, avanzato, esaurito) del processo produttivo accertato (ciò che equivarrebbe a dare ingresso ad un improprio criterio di punibilità differenziata), poiché l’offensività della condotta si radica nella sola idoneità della coltivazione a produrre la sostanza per il consumo. Con l’ovvio effetto che non rileva la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza dell’accertamento, ma la conformità delle piante al tipo botanico previsto e la loro attitudine (anche per modalità e cura di coltivazione) a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente utilizzabile per il consumo (Sez. 6,15.3.2013 n. 22459, Cangemi, rv. 255732).
3.2. Ora non è dubitabile che nella vicenda oggetto dei tre ricorsi la ridetta idoneità produttiva di sostanza drogante è stata concretamente verificata nel giudizio di merito in base alle analisi effettuate durante le indagini preliminari.
Sicché, a fronte della conclamata presenza del principio attivo nelle infiorescenze delle piante in sequestro, illogiche ed erronee vanno considerate le critiche dei ricorrenti sulle modalità di campionatura delle piante scoperte e sequestrate dalla p.g. Come già precisato da questa S.C., infatti, in caso di rinvenimento di una piantagione destinata alla produzione di stupefacenti, la polizia giudiziaria ben può limitare il sequestro ad alcune piante scelte a campione, procedendo contestualmente alla distruzione delle altre, e nella selezione delle piante da sottoporre al vincolo non deve adottare le modalità previste dall’art. 87 L.S., norma che regola la campionatura dello stupefacente già oggetto di cautela reale e non l’estrazione preliminare al sequestro e alla distruzione delle piante (Sez. 4,21.1.2009 n. 16097, Varone, rv. 243635).
3.3. Indeducibili in questa sede e in ogni caso infondate sono le subordinate doglianze espresse sul trattamento punitivo circostanziale applicato al M. .
La sentenza impugnata ha linearmente motivato la mancata concessione al prevenuto dell’attenuante speciale della collaborazione (art. 73 co. 7 L.S.), sottolineando la modestia e sostanziale irrilevanza della semplice informazione sul nome del coimputato (Mi. ) inizialmente datosi alla fuga dinanzi all’arrivo della p.g., che per altro ne aveva ben constatato le caratteristiche somatiche e sarebbe agevolmente pervenuta alla sua identificazione (“l’indicazione del nome del coimputato, più che da un intento collaborativo, appare dettata dal vano tentativo di alleggerire la sua posizione”).
Ugualmente incensurabile in questa sede appare il giudizio di bilanciamento delle attenuanti generiche in termini di equivalenza con la recidiva qualificata contestata al M. , che i giudici di appello hanno giustificato con la significatività dei precedenti penali anche specifici annoverati dal prevenuto.
4. L’infondatezza degli originari motivi di impugnazione dei tre ricorsi non esime dall’affrontare, quanto al profilo del regime sanzionatorio applicabile al reato di illecita coltivazione di piante produttive di sostanza stupefacente loro ascritto, la problematica suscitata dalla sentenza n. 32/2014 del 12.2.2014 (G.U. 5.3.2014) con cui la Consulta ha dichiarato incostituzionali le norme della L. 49/2006 modificative della disciplina penale degli stupefacenti, ripristinando il previgente regime precettivo e sanzionatorio.
4.1. Più precisamente la sentenza costituzionale ha dichiarato illegittimo l’art. 4 bis del D.L. 272/2005, convertito con modificazioni dalla L. 49/2006, che aveva modificato l’art. 73 L.S., decretando l’equiparazione delle pene previste per i fatti reato concernenti droghe c.d. pesanti e droghe c.d. leggere, così generalmente definite in ragione del loro inserimento nelle preesistenti quattro tabelle classificatorie di cui agli artt. 13 e 14 L.S., soppresse con la citata legge 49/2006 (e oggi, dopo la sentenza costituzionale, ripristinate e rinnovate dal Governo con D.L. n. 36/2014). L’intervento demolitorio del giudice delle leggi ha reintrodotto l’anteriore disciplina penale degli stupefacenti, imperniata sulla centrale distinzione qualitativa e – per l’effetto – punitiva indotta dalla natura “pesante” o “leggera” di stupefacenti e sostanze psicotrope oggetto dei vari reati.
Laddove per le droghe pesanti l’anteriore disciplina, tornata in vigore con la sentenza della Corte Costituzionale, prevede una pena più grave (minimo edittale detentivo, fermo rimanendo il massimo edittale, superiore a quello previsto dalla normativa abrogata: otto anni in luogo di sei), di guisa che – in applicazione del principio del favor rei (art. 2 co. 4 c.p.) – deve ritenersi correttamente applicato il più mite regime sanzionatorio stabilito dall’art. 73 co. 1 L.S. nel testo oggi abrogato ai reati commessi nella vigenza di quest’ultima disposizione, per le droghe leggere si verifica una situazione specularmente opposta. Il preesistente comma 4 dell’art. 73 L.S. riattivato dalla sentenza costituzionale prevede una pena detentiva da due e sei anni di reclusione incomparabilmente meno onerosa di quella introdotta (con l’omologato regime penale di droghe pesanti e leggere) dall’art. 73 L.S. riformato dalla illegittima L. 49/2006 (da sei a venti anni di reclusione).
4.2. Nel caso degli attuali tre ricorrenti, responsabili di un reato riguardante una droga “leggera” quale la marijuana, si delinea, quindi, la questione del regime punitivo applicabile, che in linea teorica non può che essere quello assai più favorevole previsto dall’art. 73 co. 4 L.S. oggi tornato in vigore. Questione incentrata sulla verifica della legittimità del trattamento sanzionatorio riservato ai tre imputati e che – del resto – è evocata nei loro stessi ricorsi, nelle parti in cui si censura anche l’eccessività delle sanzioni loro inflitte (vuoi per omesso riconoscimento della ipotesi di cui all’art. 73 co. 5 L.S.; vuoi per supposta incongruenza del bilanciamento delle circostanze ex art. 69 c.p.).
Questione vieppiù messa a fuoco dai ricorrenti con le memorie deducenti motivi nuovi o aggiunti con cui si invoca l’applicazione della sentenza costituzionale. Motivi che sul piano processuale non possono qualificarsi tecnicamente “nuovi” o “aggiunti” ai sensi degli arti 585 co. 4 e 611 c.p.p., in quanto privi di immediata inerenza ai contenuti delle doglianze espresse con le impugnazioni principali, con cui non presentano (né avrebbero potuto presentare) un diretto nesso funzionale, la decisione della Consulta essendo sopravvenuta ai ricorsi; sopravvenienza che – tra l’altro – avrebbe impedito di dedurre una specifica censura in appello (ai sensi dell’art. 609 – co. 2, seconda parte – c.p.p.).
Al riguardo è sufficiente ribadire, come già affermato da questa S.C. (Sez. 6, 19.7.2012 n. 37102, Checcucci, rv. 253471), che la pubblicazione in epoca successiva alla presentazione del ricorso per cassazione di una sentenza costituzionale di accoglimento investe il giudice di legittimità (che non può ignorare l’intervenuta incostituzionalità della disciplina in base alla quale il giudice di merito ha stabilito la pena) della eventuale applicazione della pena più favorevole, purché i motivi originari di ricorso abbiano demandato alla Corte, in forma diretta o non, un controllo della motivazione in tema di definizione della pena, come è appunto avvenuto con i tre odierni ricorsi.
4.3. Alla luce delle indicate premesse è agevole constatare che nella vicenda dei tre ricorrenti le pene loro inflitte sono state determinate dai giudici di merito in base a parametri normativi (pena edittale detentiva) divenuti oggi costituzionalmente illegittimi. Evenienza che rende necessaria una rivisitazione del trattamento sanzionatorio, cui dovrà procedere il giudice di merito (Corte di Appello), previo annullamento con rinvio in parte qua, in questa sede, dell’impugnata decisione di appello. Annullamento che mantiene ferme le statuizioni sulla responsabilità penale dei tre ricorrenti e sulla qualificazione giuridica del fatto reato loro ascritto (art. 73 co. 1 L.S.), sulle quali con la presente sentenza di legittimità interviene il giudicato sostanziale.
4.3.1. Gli esiti valutativi in termini di illegalità degli applicati parametri sanzionatori sono evidenti per la posizione di M.D. , per il quale la pena base del reato su cui si è computata la diminuente per il rito abbreviato è stata individuata in sei anni e nove mesi di reclusione ed in Euro 45.000 di multa. Cioè in misura, per la pena detentiva, ben superiore al massimo edittale della pena prevista dal (di nuovo) vigente art. 73 co. 4 L.S. nel testo precedente la modifica della L. 49/2006. Tale disposizione registra una corrispondente inferiore misura edittale anche per la pena pecuniaria (da 5.164 a 77.468 Euro, rispetto all’abrogata previsione da 26.000 a 260.00 Euro dettata dall’abrogato art. 73 co. 1 L.S.), sebbene – nel caso del M. – non si delinei una questione di specifica illegalità della sanzione pecuniaria, essendosene fissata l’entità (anche della pena base) in una misura ricadente nella cornice edittale comune alle due disposizioni diacronicamente susseguitesi e di cui la sentenza della Corte Costituzionale ha invertito, per dir così, la sequenza successoria.
4.3.2. Analoghe conclusioni, in chiave di illegittimità dei canoni sanzionatori applicati per le pene detentive loro inflitte, si configurano anche per le posizioni degli imputati Mi.Vi. e Ma.Sa. , con una precisazione – tuttavia – di non secondaria importanza.
Le pene detentive ad entrambi inflitte, anche con riguardo alle pene basi (sei anni di reclusione) sulle quali sono state effettuate le riduzioni ex art. 442 c.p.p. e (per il solo Ma. ) ex art. 62 bis c.p., non possono di per sé definirsi formalmente e sostanzialmente illegittime, oggi come al momento della pronuncia della sentenza di appello, perché sono pienamente compatibili con la scala sanzionatoria delle due norme incriminatrici succedutesi per effetto della sentenza costituzionale n. 32/2014.
La forbice edittale modulata dal nuovo regime punitivo, alla stregua del (previgente, abrogato e oggi di nuovo) vigente art. 73 co. 4 L.S. non impone al giudice di appello, dopo una sentenza di condanna di primo grado per fatti relativi a droghe leggere avvenuti nella vigenza della L. 49/2006, un’automatica nuova e diversa (id est inferiore) individuazione della pena (già) inflitta, né a ciò lo obbliga l’eventuale annullamento con rinvio in punto di pena di questa S.C., quando – nel rispetto dei criteri normativi (artt. 132,133 c.p.) connotanti il discrezionale potere del giudice di merito di definire una pena appropriata al concreto fatto giudicato – la pena, già determinata secondo l’anteriore norma incriminatrice e ricadente nella tassonomia punitiva (c.d. forbice edittale) comune anche a quella nuova (in difetto, s’intende, di indici eccedenti i nuovi diversi limiti edittali; ciò che altrimenti renderebbe la pena irrogata senz’altro contra ius, come per il ricorrente M. ) sia ritenuta dal giudice di appello, con il supporto di logica e non apparente motivazione, conforme e proporzionata alla concreta gravità della condotta criminosa e al suo effettivo immutato disvalore sociale (cfr.: Sez. 2 11.2.2010 n. 18159, Ceccarelli, rv. 247460; Sez. 6, 9.4.2010 n. 32673, Tirone Chiaramonte, rv. 247998). La qual cosa esclude che la conferma della pena inflitta dal primo giudice di merito (vigendo l’abrogata e più pesante disciplina sanzionatoria) possa dar vita (o abbia dato vita) a un indebito aggravamento della pena virtualmente lesivo del divieto di reformatio in peius ex art. 597 co. 3 c.p.p. (v.: Sez. 6,11.10.2006 n. 37887 del 11/10/2006, Druetto, rv. 235588; Sez. 6,9.4.2009 n. 26605, Coramà, rv. 244464).
Ciò ovviamente vale nei casi in cui, con riguardo ai reati in materia di droghe leggere, il primo giudice di merito o lo stesso giudice di appello (anche investito da rinvio quoad poenam ex art. 627 c.p.p.) non abbiano ritenuto di definire lo specifico grado della cornice edittale prevista dalle fattispecie di cui all’art. 73 co. 1 L.S. ovvero di cui all’art. 73 co. 5 L.S. nei casi di riconosciuta lieve entità di reati commessi tra il 28.2.2006 (entrata in vigore della L. 49/2006) e il 23.12.2013 (vigenza del D.L. 146/2013-L.10/2014), nei rispettivi testi precedenti la sentenza costituzionale n. 32/2014.
Nelle diverse ipotesi in cui, invece, i giudici di merito abbiano con espressa motivazione ancorato la pena base dei reati alle misure equivalenti ai minimi edittali delle caducate fattispecie (sei anni di reclusione per l’art. 73 co. 1 L.S., un anno di reclusione per l’art. 73 co. 5 L.S., nei testi ora non più vigenti) è evidente che le pene così inflitte non possono più valutarsi assistite da legittimità. In simili casi, infatti, non può che trovare applicazione la più favorevole disciplina (previgente e) oggi nuovamente vigente risultante dalla descritta dinamica successoria delle norme incriminatrici (art. 73 co. 4 L.S.: pena minima due anni di reclusione; art. 73 co. 5 L.S.: pena minima quattro mesi di reclusione). È chiaro che in tali situazioni (e soltanto in esse) il giudice di appello, quale giudice di merito di secondo grado o quale giudice di rinvio, è vincolato (a meno di convalidare un improprio incremento dell’afflittività sostanziale della sanzione) alla rimodulazione della pena, rendendola conforme ai “nuovi” più favorevoli minimi edittali detentivi e altresì pecuniari (se anch’essi definiti nel minimo edittale).
Questa appena descritta è la situazione verificatasi per i ricorrenti Ma. e Mi. , per i quali le due conformi sentenze di merito hanno esplicitamente chiarito (come detto in precedenza) di voler assumere a base del calcolo sanzionatorio una pena fedelmente corrispondente alla misura detentiva minima dell’editto allora vigente, pari cioè a sei ani di reclusione (la misura base delle pene pecuniarie inflitte ai due imputati è stata individuata in termini compatibili con la tassonomia punitiva comune alle due serie di sanzioni). Anche per tali due imputati diviene, allora, necessaria una rivisitazione correttiva del trattamento punitivo in conformità al più favorevole regime dettato dall’art. 73 co. 4 nel testo in vigore prima della L. 49/2006. Ciò sia per le pene detentive, sia per le pene pecuniarie loro inflitte. Rivisitazione cui non procede questo stesso giudice di legittimità (art. 620, lett. 1, c.p.p.), avuto riguardo alla indeterminata percentuale delle sanzioni pecuniarie individuate dai giudici di merito per il Ma. e il Mi. e alla coeva necessità di rinviare comunque gli atti al giudice a quo per la definizione della pena, detentiva e pecuniaria, da applicarsi al M. .
4.4. La sentenza impugnata deve, quindi, essere annullata in riferimento alla sola misura delle pene inflitte ai tre ricorrenti, rinviandosi gli atti alla Corte di Appello di Catanzaro (diversa sezione) perché proceda a una loro nuova determinazione, conforme al dettato del vigente art. 73 co. 4 L.S. secondo i criteri in precedenza illustrati. Quanto alle residue censure degli imputati, i ricorsi vanno – per quanto detto – rigettati.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio e rinvia ad altra sezione della Corte d’Appello di Catanzaro per nuovo giudizio sul punto. Rigetta nel resto i ricorsi.

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