Suprema Corte di Cassazione
sezione VI
sentenza 18 marzo 2015, n. 11397
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CITTERIO Carlo – Presidente
Dott. MOGINI S. – rel. Consigliere
Dott. FIDELBO Giorgio – Consigliere
Dott. DE AMICIS Gaetano – Consigliere
Dott. PATERNO’ RADDUSA Benedet – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Cagliari il 1.4.2014;
visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso;
udita la relazione del consigliere Stefano Mogini;
udito il sostituto procuratore generale Vincenzo Geraci, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito l’Avv. (OMISSIS), che ha insistito per l’accoglimento del ricorso o, in subordine, per l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per prescrizione dei reati.
OSSERVA
PREMESSO che con la decisione indicata in epigrafe la Corte d’Appello di Cagliari ha, in parziale riforma della sentenza emessa ad esito di giudizio abbreviato dal giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Cagliari in data 4 luglio 2012, assolto (OMISSIS) dal reato di peculato a lui ascritto al capo E per insussistenza del fatto e ha confermato il giudizio di responsabilita’ dell’imputato in ordine alle altre condotte di peculato a lui ascritte (capi A, C, D e F) riducendo la pena a lui irrogata a tre anni e due mesi di reclusione, con l’interdizione dai pubblici uffici per la durata di cinque anni in luogo di quella perpetua applicata con la sentenza di primo grado;
RILEVATO che l’imputato, tramite il suo difensore di fiducia, ha presentato ricorso per cassazione deducendo: 1) erronea applicazione della legge penale processuale con riferimento all’articolo 127 c.p.p. e illogicita’ della motivazione in ordine all’ordinanza pronunciata dalla Corte territoriale il 1.4.2014, con la quale era stata rigettata l’istanza di rinvio formulata dal difensore a causa della sua adesione all’astensione indetta dall’Assemblea dell’Ordine degli Avvocati di Oristano nonostante la piu’ recente giurisprudenza di legittimita’ riconducesse l’adesione del difensore all’astensione dalle attivita’ giudiziarie all’interno del diritto di associazione garantito dall’articolo 18 Cost.; 2) violazione di legge e vizi di motivazione con riferimento alla genericita’ dei capi di imputazione, che non avrebbe consentito il pieno esercizio del contraddittorio e dei diritti di difesa; 3) erronea applicazione della legge penale e vizi di motivazione con riferimento agli articoli 357 e 358 c.p.p. circa la qualifica di incaricato di pubblico servizio attribuita al ricorrente e alla natura pubblicistica della (OMISSIS) S.p.a. di cui era amministratore all’epoca dei fatti contestati; 4) violazione di legge e vizi di motivazione in ordine alla configurabilita’ del delitto di peculato poiche’ il ricorrente era sottoposto ad obblighi di rendicontazione delle spese di cui ai capi d’imputazione A, C, D e F, delle quali egli aveva fornito sempre tempestiva e idonea giustificazione, in particolare per quanto attiene: alle spese per missioni e trasferte di cui al capo A, che erano giustificate quantomeno dal rientro nel luogo di residenza con il mezzo proprio per il fine settimana; alle spese di missione all’estero di cui al capo C, effettuate al fine di promuovere societa’ pubbliche e private all’estero; agli esborsi per spese di rappresentanza di cui al capo D, che si riferiscono, secondo una consuetudine acquisita anche dalle precedenti amministrazioni, a colazioni di lavoro effettuate con collaboratori, consulenti e imprenditori strettamente collegati alla (OMISSIS) S.p.a.; 5) violazione di legge in relazione alla diversa qualificazione giuridica da attribuire ai reati contestati, che una sentenza resa per fatti analoghi dal Tribunale di Cagliari aveva ricondotto al paradigma normativo della truffa semplice, ma che potrebbero al piu’ integrare le fattispecie di appropriazione indebita o di abuso d’ufficio; 6) violazione di legge e vizi di motivazione circa la determinazione della pena, avvenuta senza il necessario riferimento ai criteri di cui all’articolo 133 c.p.;
CONSIDERATO, quanto al primo motivo di ricorso, che il corretto esercizio del diritto di liberta’ spettante al difensore in ordine all’astensione collettiva dalle attivita’ giudiziarie ha come effetto il differimento delle attivita’ fissate in coincidenza con il periodo della “protesta” anche laddove si tratti di udienza camerale a partecipazione facoltativa, ad eccezione delle attivita’ espressamente escluse dalla legge e dal codice di autoregolamentazione ovvero di quelle indicate dalla Commissione di garanzia in funzione di salvaguardia delle esigenze di contemperamento dei diritti in gioco (Sez. 6, n. 1826 del 24.10.2013);
che l’ordinanza della Corte d’Appello di Cagliari del 1.4.2014 censurata dal ricorrente ha fatto corretto uso di tale insegnamento nel respingere l’istanza di rinvio formulata dal difensore, essendo il rigetto motivato col mancato rispetto delle regole stabilite dal Codice di Autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati per quanto attiene gli obblighi di intervallo minimo tra astensioni, di preavviso minimo e di predeterminazione della durata (si trattava dell’astensione collettiva dalle udienze proclamata ad oltranza dall’Assemblea degli iscritti all’Ordine degli avvocati di Oristano), come al tempo segnalato con provvedimento d’urgenza dal Commissario delegato della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali; che quindi la doglianza appare manifestamente infondata;
RITENUTO che la censura relativa alla pretesa genericita’ dei capi di imputazione trova gia’ ampia confutazione nella sentenza impugnata, senza che il ricorrente si confronti con gli elementi al riguardo impiegati, i quali sono del tutto adeguati e immuni da vizi logici e giuridici rilevabili nel giudizio di legittimita’;
RITENUTO altresi’ che il terzo motivo di ricorso sulla asserita erronea qualificazione dell’imputato come persona incaricata di un pubblico servizio e’ manifestamente infondato alla stregua di ormai stabile indirizzo interpretativo, formatosi sulla scia dell’insegnamento delle Sezioni Unite (Sez. U., 13.7.1998 n. 30799, Citaristi, rv. 211190: “Al fine di individuare se l’attivita’ svolta da un soggetto possa essere qualificata come pubblica, ai sensi e per gli effetti di cui agli articoli 357 e 358 c.p., e’ necessario verificare se essa sia o meno disciplinata da norme di diritto pubblico, quale che sia la connotazione soggettiva del suo autore, distinguendosi poi – nell’ambito dell’attivita’ definita pubblica sulla base di detto parametro oggettivo – la pubblica funzione dal pubblico servizio per la presenza, nell’una, o la mancanza, nell’altro, dei poteri tipici della potesta’ amministrativa, come indicati dall’articolo 357 c.p., comma 2”), secondo il quale l’articolo 358 c.p. definisce l’incaricato di un pubblico servizio come colui che, a qualunque titolo, presta un servizio pubblico, a prescindere da qualsiasi rapporto di impiego con un determinato ente pubblico, poiche’ il legislatore del 1990 (Legge n. 86 del 1990, articolo 18), nel delineare la nozione di incaricato di pubblico servizio ha privilegiato il criterio oggettivo-funzionale, utilizzando la locuzione “a qualunque titolo” ed eliminando ogni riferimento (contenuto nel previgente articolo 358 c.p.) al rapporto di impiego con lo Stato o altro ente pubblico; che quindi, come correttamente enunciato nella sentenza impugnata, non si richiede che l’attivita’ svolta sia direttamente imputabile a un soggetto pubblico, essendo sufficiente che il servizio, anche se concretamente attuato attraverso organismi privati, realizzi finalita’ pubbliche (L’articolo 358 c.p., comma 2 esplicita il concetto di servizio pubblico, ritenendolo formalmente omologo alla funzione pubblica di cui al precedente articolo 357 c.p., ma caratterizzato dalla mancanza di poteri tipici di quest’ultima, di carattere deliberativo, autoritativo, certificativo: il parametro di delimitazione esterna del pubblico servizio e’ dunque identico a quello della pubblica funzione ed e’ costituito da una regolamentazione di natura pubblicistica, correttamente individuata nella sentenza impugnata – ff. 21 e ss. – nella Delib. Giunta Regionale Sardegna 28 dicembre 1993, n. 49/29 e nella Legge Regionale n. 22 del 1953 di cui la citata Delib. costituiva attuazione, che vincola l’attivita’ dell’agente o ne disciplina la discrezionalita’ in coerenza con il principio di legalita’ e gli obiettivi politici e operativi di carattere pubblico affidati al soggetto di natura privatistica. Quanto al criterio di delimitazione interna del servizio pubblico, lo stesso difetta – come detto – dei poteri propri della pubblica funzione (Sez. 6, 19.11.2013 n. 36176; Sez. 6, 7.3.2012 n. 39356, Ferazzoli, rv. 254337); che, quindi, ed e’ il caso del ricorrente, i soggetti inseriti nella struttura organizzativa di una societa’ per azioni possono essere considerati incaricati di pubblico servizio quando l’attivita’ della societa’ medesima sia disciplinata da una normativa pubblicistica e persegua finalita’ pubbliche, pur se con gli strumenti privatistici (Sez. 6, 27.11.2012, n. 49759);
RITENUTO, quanto ai vizi di motivazione dedotti col quarto motivo di ricorso in ordine alle contestazioni mosse all’imputato, che le doglianze attinenti alla contraddittorieta’ della ricostruzione dei fatti di appropriazione contestati al ricorrente non sono consentite e si rivelano comunque manifestamente infondate, poiche’ preludono ad una reinterpretazione e rilettura in fatto delle fonti di prova sulla base delle quali si e’ formato il giudizio di colpevolezza, giustificato dalla sentenza impugnata (ff. 25 e ss.) con motivazione immune da vizi, perche’ si cura di fornire esaurienti e persuasive risposte a tutti i temi di critica esposti nell’atto di appello e in pratica riprodotti nell’attuale ricorso;
RITENUTO che non sussiste la violazione di legge lamentata col quarto e, in modo del tutto generico, col quinto motivo di ricorso, poiche” il ricorrente aveva la disponibilita’ – attraverso i meccanismi di autoliquidazione descritti nella sentenza impugnata (f. 28) e le carte di credito aziendali a lui attribuite – del denaro oggetto di appropriazione (Sez. 6, 10.4.2013, Baglivo), cosi’ che egli era dotato di poteri tali da incidere sulla sua destinazione in modo da distoglierlo dal fine suo proprio (spese di missione, trasferte e rappresentanza) e dirottarlo al soddisfacimento dei propri privati interessi (Sez. 6, 22.9.2011, Campus), restando le condotte contestate nel perimetro normativo del delitto di peculato poiche’ la successiva rendicontazione aveva carattere interno e meramente formale, in quanto affidata a figure professionali di inferiore livello gerarchico e prive di effettivi poteri di esclusione delle spese non giustificate;
RITENUTO infine, con riferimento al sesto e ultimo motivo di ricorso, la manifesta infondatezza delle relative censure, poiche’ la sentenza impugnata offre esaustiva motivazione dei criteri seguiti, in applicazione dell’articolo 133 c.p., per la determinazione della pena (ff. 37 e ss.);
RILEVATO per completezza che nessuno dei delitti contestati e’ prescritto, le condotte piu’ risalenti collocandosi nel gennaio del 2002 ed essendo soggette a termine massimo pari a dodici anni e sei mesi (aumento di cui all’articolo 161 c.p., comma 2, in relazione al massimo edittale della pena prevista per il peculato), cui si aggiungono 8 mesi e 14 giorni in ragione della sospensione verificatasi dal 15.4.2011 all’11.11.2011 e dal 27.1.2012 al 16.3.2012. che all’inammissibilita” del ricorso conseguono le pronunce di cui all’articolo 616 c.p.p..
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1000 in favore della cassa delle ammende
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